sabato 9 luglio 2022

La mia Recensione: Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror

 La mia Recensione:


Diavol Strâin * Elegía del Olvido - Elegía del Horror


La città cilena affacciata sul porto ha incantato gli italiani così tanto che l’hanno denominata Valle del Paradiso: dove c’è una conquista esiste sempre una gentilezza stupida. Che poi quei luoghi siano incantevoli non lo si può negare, ma lasciamo che siano i cittadini a deciderne il nome. È da qui che parto: dal nome, l’inizio di una vita con tanto del suo destino già determinato sin da subito. 


Qui stiamo parlando della bellezza cupa, quella che non nega le altissime capacità espressive di un combo votato allo splendore dentro una grotta dove vivono misteri e faccende legate tra di loro.


Le due corsare gotiche creano un lavoro più complesso rispetto al precedente Todi El Caos Abita Aquí, confezionando una scatola magnetica colma di innovazioni e contaminazioni: si sorprendono e fanno diventare tutto questo una nostra conquista.

L’energia esce da garage pieni di simboli e polvere sacra, benedetta dal Dio del dolore, per conferire al suono cupo una forza notevole. Energia e melodia diventano una necessità che spiega vicende capaci di produrre brividi e constatazioni amare ma sagge. Il suono del basso è ovattato, gravido di destini molecolari capaci di produrre potenza e suggestioni.  La chitarra è un covo di zanzare laboriose, intenso, con la propensione ad essere avvolgente, guardando al cielo e ai cumuli di macerie del mondo. 

Canzoni compatte, con impronte di virus mentali fuori controllo, con le stigmate Deathrock che non si fanno imprigionare e sanno visitare la gamma di possibilità di cui abbisognano. Intelligenti, dalla propensione innata a espandere il loro sentire, sono Sacerdotesse del mistero umano che eleva alla massima potenza il sacro tempio della fragilità dei luoghi, di storie apparentemente senza gioia: reali, concrete, possiamo solo benedire la loro attitudine a scovare gli amplessi della fragilità. Sogni eterei per le nostre orecchie da convertire in file preziosi per i nostri ragionamenti: ogni canzone di questo album definisce una perdita da cui apprendere la realtà.

Con queste gemme si vive l’esperienza di una minaccia sonora aggraziata da musiche che consentono inchini e preghiere, come lunghe giornate sui libri della storia del mondo. Sul sipario luci imbalsamate dal nero più seducente contemplano idee di aggregazione con lampi grigi, come cristalli corrotti da una necessaria e splendida giostra di complicità. Uno sfociare continuo in lande combattive, con passi decisi, dove nulla è malfermo ma dove il sogno a volte conduce ad atmosfere stratificate e corrotte dalla bellezza del loro sentire in espansione continua.

Si rimane impressionati da tracce che sanno rivelare una dinamica propensione alla malvagità non violenta ma educatamente rude, giusto  il necessario, in giochi altalenanti di semi austeri e poliedrici. Sono chicchi di grano attraenti, smarriti per la loro stessa bellezza, maestri di versatilità e candore. Con la capacità di un suono derivativo dal Post-Punk e dalla zona californiana del Deathrock, la band scrive canzoni per dare alle voci la possibilità di essere fiamme di gas letali, dalle ridondanze gotiche degli anni 80, evidenti, ma edulcorate.

Un mare viscerale e magmatico, percorsi sonori che rendono precisa la bellezza, una poesia sulla pelle divenuta ripida da vicende umane pregne di incandescenze multiple. C’è la vita delle anime sbandate ma non per questo prive di senso: i polmoni, all’ascolto di queste rapine mentali, si contorcono sognanti, con sorrisi dai coriandoli neri, per un processo catartico con il tappo leggero in superficie. Si è costretti a una sofferenza piacevole, si intuisce e poi si capisce che le due sono incantatrici di riti che espletano un percorso analitico di grande fattura, ci si ciba di briciole di felicità otturate.

Alla mortalità si applaude, la disperazione e l’ansia sono compagne di respiri obbligatorie e loro sanno convivere, dando l’impressione che la notte spenga la paura che viene invitata ad emergere. Sono canzoni siderurgiche, lamiere fragili che hanno fantasmi che le proteggono, per divenire riti di  danze nevrotiche perfette.

Si vive in una necropoli più che mai confusa, in un collasso della felicità non più necessaria: tutto questo non rende però l’album una esclusiva delle anime nere perché concede accesso a tutte quelle desiderose di indagare sui flussi irregolari della difficoltà, del mondo in costante abbandono della capacità di creare serenità. L’ascolto dovrebbe essere imposto per legge: camici neri da indossare, univoci, per decretare sapientemente la realtà di esistenze ormai prossime alla caduta delle speranze.

Si esce dalle tombe non come zombie ma come essere viventi che riprovano a vivere diversamente constatando l’inevitabile ripetersi di errori da cui siamo soggiogati. Diavol Strâin è fiamma reale, una matassa di nervi spastici necessari per la coscienza che prova l’inganno ma che con loro fallisce.

Sono streghe con le mani velenose, rapide, lente, succulente, coniugate alla loro scrittura geroglifica, tempeste emotive che travolgono per separare la nebbia dai finti raggi che invadono le strade. Il Cile qui trova apostole precise nel volere la loro autonomia espressiva, dove l’eleganza si sposa alla rabbia dai sorrisi storti, decadenti, sublimi.

Sono gangsters dagli abiti neri, antichi, brancolanti, ma non scevri di coscienze che smuovono gli arti della mente, come peristalsi violentemente sospesa: ascoltare questo fascio di tenebra significa divenire consapevoli del traffico di dolore che si sparge nelle corde del loro cuore.

Sono vampire affacciate sulla luna, anime roventi che penetrano con un album che grattugia il vento e spazza via le confusioni: metodiche, precise, alienanti, abbondanti nei loro mantra sonori, regine del regno della insoddisfazione, fanno in modo che le loro canzoni siano pagnotte di pane senza mollica. Il gusto è amaro, come certi sogni, che aprono il cielo funesto della zona notturna in cerca di pace, trovando invece dannazione.


Ci sono scorie Darkwave che stanno nelle dita delle due musiciste: Ignacia e Lau non sembrano impaurite nel circondare il loro carico emotivo con schiume aggrappate a quel genere musicale che ha saputo arrivare anche in quella terra generosa nell’accoglienza. E allora eccole immergersi verso confini che sanno esaltare e meglio specificare una innegabile duttilità, quell’apertura concessa solo a chi fa della conoscenza un punto di partenza e non di arrivo. 

Guerriere degli enigmi, in un mondo colmo di notizie ma non di informazione, queste turbolenze accoppiate sanno generare domande, offrire dubbi, con malinconica propensione, sino a farci piangere bolle di disperazione, comprensibile. Una band selvaggia che parte da Edgar Alan Poe, per via di una scrittura che affronta il terrore dell’esistenza con chilometri di incubi messi in fila, di un orrore che diventa linfa letteraria, sino a incontrare la religiosa appartenenza della propria identità, annettendo insicurezze che veicolano impeti propedeutici. Ci si può arrendere alle difficoltà, ma con questa band si impara ad amarle, rifiutando i piagnistei per darsi una scrollata e iniziare il percorso dentro le tenebre.

Sembrano lanciare pietre acide, pesanti, per poi ritirarsi dentro la loro intimità, senza indugi. Brani magici, quasi ingenui, molto potenti, che vivono nella periferia dei nostri sogni con la marea, quando l’acqua sembra congedare i polmoni. Di loro ci si può fidare. Perché sono necessarie, compagne di solitudini che migliorano i nostri respiri. Mettono l’eye-liner ai nostri flussi privi di energie per rincuorarci, come un apparente inganno. Scavando in questi quarantasette minuti abbiamo però la certezza della loro autenticità. Che diventa l’altare dove posare la nostra mediocrità e consegnare loro un papiro di antiche velleità, bruciandole innanzi ai loro occhi, con devozione.

Spesso le chitarre sono degli strilli che si muovono con giri di note di basso (figlie degli spiriti dell’Araucania), per danzare piene di sollecitazioni irreprensibili verso il luogo della perdizione. Come una collina dei peccati in cerca di perdono, i brani sono spesso schegge che fuggono dalla speranza, come rivali delle sciocchezze, per respirare ogni realtà come prova di capacità che trovano l’applauso del sacro fuoco del sole.

Gli arpeggi distorti creano metafore, lampade di vento obliquo, il basso invece melodie gravi e oscure, pulsanti di ossigeno malato: incandescenze necessarie per capire cosa siamo nei giorni dell’inganno.

Musica come whiskey di qualità, a stordire, inebriare, corrompere ogni tentazione. Musica che sgombra il passato da ogni equivoco: c’è anche del nuovo che vive nei respiri di canzoni senza tempo, valide per l’eternità. È fluido ipnotico che sa riempire le borracce del nostro bisogno gotico, come una cascata effervescente di salutare bramosia.

Direi che è venuto il momento, per  meglio intendere questo album pieno di alghe e acuti voli di coscienza, di una completa scorribanda tra le sue tracce, armandoci di apertura mentale e di un rossetto nero tra le mani…


Song by Song 


Caida Libre


Tenebrosa, veloce, un attacco al cuore con la sua limpida connessione tra Darkwave e Post-punk che si baciano nella corsa di un lampo.


Destino Destrucción


Con un approccio stilistico che ricorda molte band della scena di Oakland, il brano vive dell’esplosiva connessione tra il basso distorto e la chitarra piena di nebbia gotica.


Lilith


Mostra tutta l’abilità del duo di rendere magnetica la loro musica: il ritmo diminuisce e aumentano le suggestioni, lenta ascesa al cielo con un volo malinconico.


El Reflejo de Mi Muerte


La drum machine sincopata, il basso che preme sulla pancia e poi via: le chitarre portano tutta la tristezza e la vitalità della consapevolezza, con la voce magnificamente capace di essere isterica e maligna.


Herz Der Niemand 


Il Deathrock si mostra con impronte leggere, sulla voce che esplode di magneti conficcati nella nebbia. Un intarsio elettronico quasi nascosto si presenta, in questa che alla fine risulta essere la canzone più elaborata e misteriosa dell’album.


Ruinas


L’inferno si veste per un attimo di dolcezza, quasi Shoegaze, con la chitarra che culla il sogno di essere per pochi minuti una carezza nera.


Nacidas del Fuego


Spilli di grotte piene di muschio, il ventre gotico pulsa liquidi sanguinolenti per un brano che crea un’atmosfera tesa, morbida, ipnotica.


Cotard 


Sorprendente e stupefacente, tutto il talento fantasioso del duo getta i propri semi in un fiato che sfiora i coralli della poesia.


El Ansia


Tra Xmal Deutschland ed Esses, Diavol Strâin si lancia in una danza ansiosa, grattugiando tutto lo scenario Darkwave che si affaccia sul Deathrock con religiosa devozione. Il basso e la chitarra sembrano a volte alternarsi per sedurre il fantasma che ride mefistofelicamente.


Ylak 


Regina delle nuvole dense di pathos, la canzone dichiara tutte le possibilità creative della band cilena. Un ululato gentile, la chitarra che graffia rispettosamente e le voci che seducono come il miele fa con le unghie dell’orso.


Inferno


Dopo un inizio che lascia semi di Banshees, ecco lo scatto e la corsa nella Los Angeles che accoglie chiunque abbia nelle proprie vene la necessità di pulsioni Deathrock. 


Uroboros


Tutto approda verso il congedo nel modo migliore: ancora qualcosa di nuovo, stupefacente, con echi del lavoro di Hannett con i Joy Division. Qualcosa si frantuma mentre la tastiera prende il palcoscenico per un brano magnetico, pieno di loop continui. Canzone stratificata, con zone sapientemente collegate che regalano piacevoli connessioni con la band di Anja Huwe e la Germania scura degli anni 80. Le voci spariscono e a cantare è un’atmosfera avvolgente e sensuale.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Luglio 2022












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