mercoledì 27 aprile 2022

La mia Recensione: E-L-R / Vexier

 La mia Recensione


E-L-R * Vexier



"Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?"
(Milan Kundera)


Qualcosa, nell’ascolto della musica, sembra destinato alla sofferenza, alla digestione che trova la sua occlusione, alla fatica di percezioni che quando si accoppiano con il desiderio creano una grande confusione. Il senso di libertà tra le note è spesso il territorio dell’inganno, dell’inutilità e di un successivo, pesante, imbarazzo. Tutto questo alla fine si coniuga alla pesantezza di questi istanti.

Sono momenti che si ricordano, non ci è concessa scelta, con il gusto che finalmente muore, così pericoloso e dannoso, se ci pensate bene. Non ci resta che essere curiosi estremi, nomadi perenni, viaggiatori forsennati, con luoghi sempre da trovare.

Berna, la città federale, la donna elegante e sempre attiva, che vive e scatena le sue energie su un altipiano incantevole, è anche la spiaggia delle Alpi, dove gli E-L-R seguono la loro folle propensione a creare massi di suono come stregoni con la bava alla bocca.

Sì, davvero, credetemi, le loro canzoni sono rocce metamorfiche con all’interno ghiacciai storditi e curvi, in volo sul tempo e sui nostri sguardi, che fanno gocciolare il sudore della paura che nasce e muore in questi terrificanti e piacevoli quarantasei minuti. Un insieme di passaggi tra le montagne delle nostre vibrazioni, con il loro Doommetal effettivamente ipnotico e pesante, per poi cercare e trovare un pò di leggerezza quando le loro mani accendono la parte meno ruvida, quel Doomgaze sempre più volenteroso di mostrare le sue possibilità di sviluppo. Senza dimenticare il Postrock dalle piume battagliere e meno incline alla malinconia.

I tre svizzeri creano chili di musica che sono lapidi, parassiti capaci di stimolare la cancrena e di ridere mentre noi ci ritroviamo con lo stomaco ribaltato. 

Due donne, I-R, bassista e cantante, S.M. chitarrista e cantante, e un uomo,  M.K., batterista, creano il concetto del suono come un luogo oscuro in cui rendere possibile le vie di fuga da melodie leggere, dal disimpegno, dalla futilità.

Loro non scherzano: ago e clava, a picchiare con trame corrosive e diaboliche, con fulmini rock con la mano sanguinante. 

Si entra nel deserto: dove esiste una possibilità di frantumare anche il minuscolo granello di sabbia loro lo fanno per diventare sirene che nuotano tra le dune, il martello di M.K. è una punizione che vola dentro il nostro respiro e le due responsabili del fragore e del disagio sono assatanate senza dover arrivare a musiche violente come il black metal e affini.

Loro ci concedono il sogno ma lo macchiano di sensi di colpe, cercano di affondare le velleità e le loro creazioni producono orticaria, rossore sulla cute della mente.

E’ un ascolto che è piacevole in quanto il loro coraggio, il  metodo usato per graffiare la mediocrità è pieno di candore: sembrano canzoni perennemente vergini, congiunte al desiderio di esplorare il fastidio e di ingentilirlo con spruzzate di dolcezza che quando arrivano creano sollievo e buonumore, se non anche una allegria scomposta, nevrotica, folle.

Stupisce che tutto ciò possa giungere dalla pacifica Svizzera, per quanto già in passato abbiamo avuto band capaci di essere dure, acerbe, sanguigne: valga l’esempio degli Young Gods. Qui però si va oltre per la continuità, i piani di battaglia programmati ed eseguiti perfettamente, come chirurghi allenati alla precisione, senza possibilità di sbavature. E le loro rocce rotolano dentro anche se vorresti opporti: è questa la loro validità, dono, capacità, un volo continuo dove le tumefazioni ricevute, alla fine dell’ascolto di Vexier, sono necessarie e subito desiderose di ripetere la liturgica modalità di fruizione.

Un secondo album che segue il percorso incominciato con l’altrettanto sorprendente esordio di “Maenad”, intento però ad essere edera corrosiva e acerba, con un profumo che non ti aspetteresti mai. All’interno delle cinque, lunghe composizioni, ci ritroviamo dentro film decadenti,  fotografie piene di olio, uno spettacolo teatrale che confonde lo spettatore e lunghe camminate acide, dove la possibilità di respirare serenamente è solo una ipotesi che loro sanno definitivamente affondare.

Lo consiglio vivamente perché anche la poesia ha le sue rogne, le sue crepe, i suoi ostacoli faticosi da superare. Quello che si prova alla fine di questo percorso è un senso di beneficio che non considereresti mai e la loro mastodontica capacità risiede proprio in questo inspiegabile evento.



Canzone per Canzone



Opiate the Sun


Su un territorio lunare che attende il fragore gli svizzeri seminano proiettili con la custodia: la lenta Opiate the Sun è un finto organo del cielo che prepara l’insurrezione. Timidi parallelismi, nei primi minuti, con i Dead Can Dance e poi il detonatore viene attivato per verificare se la potenza dei tre è ancora oliata: missione raggiunta.



Three Winds


Il Doommetal meno acerbo ma sempre sanguigno si manifesta con chitarra bastarda e il drumming vertiginoso che chiama a sé il lavoro del basso che è granito puro e pesante. Voci lontane scoperchiano il cielo nei loro pochi secondi di presenza sopraffina. Poi il Postrock reclama spazio, tutto si fa più cupo ed il sangue aspetta nuove esplosioni che, felicemente, accadono.



Seeds


Deliziosa: colla lavica in mutazione, spasmi di attesa con voci spiritate e poi il feedback apre la strada alla martellante esibizione di forza e tutto si incrocia, tra generi musicali e tensioni snervanti. La chitarra fa il giro del cielo, quando si assenta capisci come la sezione ritmica sia costituito da uppercut continui.



Fleurs of Decay


Il Desertrock si sposta sulla Luna dove i tre lo aspettano: grovigli di schegge metalliche dal fiato pesante si affacciano ed è una progressione di tagli, graffi e slavine di incubi dal respiro greve.




Fôret


Un temporale lascia l’acqua cadere per pochi secondi e poi entra l’apocalisse, tra tamburi e stilettate di un basso fortemente desideroso di piegare la morbidezza che la Luna richiede: le quattro corde vincono e si fanno aiutare da una chitarra lenta e sorniona, quasi timida nell’arrivare. Ma poi è delirio sonico sino ad un sorprendente cantato melodico come una finestra chiusa con malinconia. Il doppio pedale è attivato per un drumming cupo ma possente. Ed è gioia ritrovarsi in questo caos dove le ali si spezzano e cadendo possiamo mettere la faccia sulla Luna e annusarla. Il finale è il respiro che rallenta con annessa la celebrazione per un atterraggio che ha conosciuto la dolcezza.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

28 Aprile 


https://e-l-r.bandcamp.com/album/vexier


https://open.spotify.com/album/6WNRwaFxTc4GFX30EPINLB?si=4hjSLwPTR0GfEaynUe7aHQ







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