giovedì 28 aprile 2022

La mia Recensione: Nicola Lotto - Il canto nudo

La mia Recensione 


Nicola Lotto - Il Canto Nudo


Sorprendere.

Essere sorpresi.

No, non è un gioco ma una materia seria di cui si cibano i maestri e gli alunni, per determinare un sapere, un coinvolgimento strutturale che conduce ad una cultura sempre più necessaria.

Da Padova abbiamo l’esempio che i due ruoli possono coesistere nella stessa persona: Nicola Lotto insegna e studia se stesso e lo fa benissimo.

Lo capiamo dal suo album di esordio IL CANTO NUDO, uscito per la Vrec, che si dimostra ancora una volta capace di portare a sé artisti estremamente capaci e interessanti.

L’ascolto ripetuto rivela una profonda attitudine alla ricerca e alla manifesta volontà di sguardi che partendo da un’anima sensibile utilizzano una mente capace di cogliere, di fare acute osservazioni, di portare fuori nel mondo il contenuto di ciò che ha afferrato.

E queste undici canzoni diventano uno sviluppo che induce alla riflessione, annettendo chilometri di emozioni in un combo perfetto.

Quello che sembrava il cammino di un cantautore folk, dopo l’ascolto dei primi singoli, con questo Lp si dimostra intenzionato ad ispessire, a diversificare il suo bagaglio e percorso artistico, riuscendo a muoversi molto e a diventare coraggioso e duttile. Consola questo album. Ristora e ci mette nella posizione di ascoltatori affascinati, invitati ad una ispezione dentro i nostri moti interiori e ci porta davanti a diverse domande. È uno sguardo serio: le sue parole, oltre a conoscere il velluto e la seta, sanno essere bilanciate e profonde, un cartello stradale ad indicarci percorsi diversi ed estremamente validi.

La cura della parte musicale è estremamente attenta e precisa e la produzione di Flavio Ferri ha sicuramente giovato mettendolo nelle condizioni di esprimere tutto il suo talento e dedizione.

Le atmosfere sanno conoscere stili e modi che sono perfettamente compattati, per dare alla sua splendida voce e a musiche sottili e allo stesso tempo capaci di ridefinire la parola potenza una perfetta dimostrazione di una classe indiscutibile.

Nicola sa descrivere il dolore e sa farlo in modo gentile, rispettoso, e riesce saltuariamente a ricordarci Maestri come Paolo Benvegnù e Umberto Maria Giardini con la loro morbidezza mista a profondità, però sempre con quel suo approccio che lo rende riconoscibile ed ecco che questo diventa il suo merito maggiore.

Le chitarre acustiche e quelle elettriche sanno convivere in queste tracce dove la melodia è sempre rarefatta ed elegante.

Il suono è curato e alcune piccole incursioni elettroniche e distorsioni elettriche sanno esprimere al massimo l’infinito bacino qualitativo di cui è dotato questo giovane autore.

Un album da studiare, da vivere come un ritrovare luci di ossigeno, come una gita verso quella maturità che deve divenire un appuntamento essenziale.

Ecco: questo è un lavoro senza dispersioni, preciso, attento, un raccoglitore fluido di averi in crescita e che trovano nelle canzoni il modo perfetto per rivelarsi.

Ora diventiamo dottori morbosi che si apprestano a visitare questo corpo fatto di undici parti che risulteranno essere sane e potenti…

Un disco di grande impatto e struggente, un cielo che apre le nostre coscienze e che sa aggiungere quella ricchezza che ci rende più belli.



Canzone per Canzone



Anche se brucia


L’album inizia con la danza dei violini ed il tremore del palco: l’ingresso di questo esordio è vibrante, con l’atmosfera che arriva allo scuotimento, a creare vuoti che riempiono il cuore. La tensione si prende la dolcezza della chitarra acustica e del pianoforte per lanciarsi in un ritornello dalla voce grossa. Incantevole.


Dalle finestre


La canzone dell’alba che include il tramonto incomincia da una bella chitarra acustica ritmica e la voce di Nicola diventa una scossa elettrica: le sue parole rompono gli schemi e ci offrono un brivido genuino e la saggezza avanza in noi. Si attraversa la barriera del buio per abbracciare la bellezza di un brano che conquista per la sua inclinazione verso ciò che è vero ed indiscutibile. Micidiale.


Parole nuove


Con la piacevole sorpresa data dalla presenza di Olden, questo brano mostra la capacità di Flavio Ferri di conferire ad un presunto rumore il ruolo di una poesia sonora dai graffi eleganti. Un testo dal polso di ferro dove domande, risposte e critiche convivono con chiarezza dimostrando l’eccelsa penna di Nicola. Robusta.


Consolazioni


L’invito all’apertura e al perdono produce un brano che sfiora l’alternative inglese offrendo un effetto di connessione intima alla verità più estrema. Il rock arriva nel ritornello come mantra rauco e pieno di ruvide bellezze. Maestosa.


Nel volto


È il turno di Paolo Benvegnù di regalare la sua classe estrema per questo gioiello termico, che abbraccia le paure e le coccola, dove i sogni e la follia banchettano insieme. Un’atmosfera delicata che bacia la poesia e rimane sospesa nell’aria e tutto fiorisce nei volti. La musica è la primavera che rivela la sua bellezza e lentezza. Morbida.


Sacro


Si alza il ritmo, echi di Robin Proper-Sheppard con i suoi Sophia circondano il perimetro di una canzone che profuma l’aria di malinconia e la porta dentro la rabbia e il dolore. Chitarre elettriche si ingrossano e sibilano nel cuore. Lacrimosa.


Prima che si sveglino


Ecco che Flavio Ferri e Nicola firmano un brano insieme ed è la tenacità, la passione, l’irruenza a stabilire che nella musica la follia solletica l’indirizzo del cuore, prima che gli uomini conoscano il risveglio. Ed è un flusso magnetico verso quei mai dimenticati anni ‘70 dove la vera ispirazione era determinata dallo sconfiggere schemi prestabiliti. Irradiante.


Incombe


Rimembranze di Alice in Chains più inclini al grigio e agli Estra e così veniamo invitati dentro le stanze di questo viaggio. 

Ci ritroveremo col rumore a invadere le strade, come un violino camuffato, per colpire i nostri fianchi in una semi danza che trova la sua soluzione alla fine, quando tutto si spegne nella chiosa di un brano seducente. Magnetica.


Tutti gli inverni 


L’amore per la vita vive dentro questo dialogo pieno di speranza che toglie la sabbia dalle dita. Nicola abbassa la sua tonalità, recitando il suo sentire profondo per mostrare la fierezza di un cuore che si appoggia a chitarre graffianti e secche. La canzone avanza per poi incontrare il buio quasi diabolico e tetro, una tensione palpabile che elettrizza l’ascolto. Necessaria.


Uno spavento 


Il talento ed il lavoro preciso di Nicola produce il suo capolavoro: tutto è compatto, teso verso il bisogno di chiarire, un brano che spazza via le ingiustizie e le inutilità, gli errori, le illusioni. E tutto questo lo fa con maestria portando la musica ad essere una sveglia semiacustica, che guarda alla parte elettrica e invita il tutto ad uno scambio di effusioni. E quel recitato che attrae e conquista. Piacevolmente spaventosa.


Nel mio polso 


Per l’ultimo brano di questo album l’artista Padovano stupisce, stordisce, getta nelle nostre orecchie un agglomerato di profonda ispirazione e precise considerazioni sociali.

Bob Dylan, Eric Andersen e Giulio Casale fumano una sigaretta insieme mentre ascoltano Nicola che prende posizione verso una movenza umana che si ritrova sbandata e confusa. 

È un racconto che si appoggia ad un piano e a oscillazioni cacofoniche ed essenziali per fare di questa canzone un carillon atipico e pieno di densità che attacca la fragilità. Cruda e crudele.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

28 Aprile 2022


https://www.vrec.it/prodotto/nicolalotto_cantonudo/







mercoledì 27 aprile 2022

My Review: E-L-R / Vexier

 My Review


E-L-R * Vexier



"The heavier the burden, the closer our life is to the earth, the more real and authentic it is. On the contrary, the absolute absence of a burden causes man to become lighter than air, to take flight upwards, to distance himself from the earth, from being earthly, to become only half-real and his movements to be as free as they are meaningless. What should we choose then? Heaviness or lightness?"
(Milan Kundera)


Something, in listening to music, seems destined for suffering, for digestion that finds its occlusion, for the fatigue of perceptions that when coupled with desire create great confusion.The sense of freedom among the notes is often the territory of deception, futility and a subsequent severe embarrassment. All this eventually combines with the heaviness of these instants.

These are moments that are remembered, we are given no choice, with taste finally dying, so dangerous and damaging, if you think about it. All that remains is for us to be extreme curiosities, perennial nomads, frenzied travellers, with places always to be found.

Bern, the federal city, the elegant and ever-active woman, that lives and unleashes its energies on an enchanting plateau, is also the beach of the Alps, where the E-L-Rs follow their mad propensity to create boulders of sound like drooling sorcerers.

Yes, really, believe me, their songs are metamorphic rocks with stunned, curving glaciers inside, flying over time and our gazes, dripping with the sweat of fear that is born and dies in these terrifying and delightful forty-six minutes. A set of passages amidst the mountains of our vibrations, with their Doommetal effectively hypnotic and heavy, to then seek and find a bit of lightness when their hands turn on the less rough side, that Doomgaze always more willing to show its possibilities of development. Without forgetting the Postrock with battling feathers and less inclined to melancholy.

The three Swiss create kilos of music that are tombstones, parasites capable of stimulating gangrene and of laughing while we find ourselves with our stomachs turned upside down. 

Two women, I-R, bassist and vocalist, S.M., guitarist and vocalist, and a man, M.K., drummer, create the concept of sound as an obscure place where escape routes from light melodies, from disengagement, from futility are made possible.

They don't joke: needle and club, beating with corrosive and diabolical textures, with rock lightning with a bleeding hand. 

We enter the desert: where there is a chance to shatter even the tiniest grain of sand, they do it to become mermaids swimming in the dunes, M.K.'s hammer is a punishment that flies in our breath and the two responsible for the din and discomfort are assaulted without having to reach violent music like black metal and the like.

They grant us the dream but they stain it with feelings of guilt, they try to sink the velleities and their creations produce hives, redness on the skin of the mind.

It's a pleasant listening because their courage, the method they use to scratch mediocrity is full of candour: they sound like perpetually virgin songs, combined with a desire to explore annoyance and to soften it with sprinklings of sweetness that, when they arrive, create relief and good humour, if not also a dishevelled, neurotic, maddening joy.

It is surprising that all this can come from peaceful Switzerland, although in the past we have already had bands capable of being tough, acerbic and sanguine: The Young Gods are a good example. Here, however, the continuity goes further, the battle plans organized and executed perfectly, like surgeons trained to precision, with no possibility of imperfection. And their rocks roll in even if you would like to oppose them: this is their validity, gift, capacity, a continuous flight where the swellings received, at the end of listening to Vexier, are necessary and immediately eager to repeat this liturgical mode of fruition.

A second album that follows the path started with the equally surprising debut of "Maenad", intent however to be a corrosive and unripe ivy, with a scent that you would never expect. Within the five long compositions, we find ourselves inside decadent movies, oil-filled photographs, a theatrical performance that confuses the viewer and long, acidic walks, where the possibility of breathing peacefully is only a hypothesis that they definitely know how to sink.

I highly recommend it, because even poetry has its wrinkles, its cracks, its tiring obstacles to overcome. What you feel at the end of this journey is a sense of benefit that you would never consider and their enormous ability lies precisely in this inexplicable event.



Song by Song



Opiate the Sun


On a lunar territory waiting for the roar, the Swiss sow bullets with their protective case: the slow Opiate the Sun is a fake organ of the sky preparing the insurrection. Shy parallels, in the first minutes, with Dead Can Dance and then the detonator is activated to check if the power of the three is still oiled: mission achieved.



Three Winds


The less acerbic but still sanguine Doommetal manifests itself with a bad guitar and dizzying drumming that calls to itself the work of the bass, which is pure and heavy granite. Distant voices uncover the sky in their few seconds of excellent presence. Then Postrock claims space, everything gets darker and the blood waits for new explosions that, happily, happen.



Seeds


Adorable: lava glue in mutation, spasms of expectation with spirited voices, then feedback opens the way to the pounding display of strength and everything is intertwined, through musical genres and nerve-wracking tensions. The guitar goes round the sky, when it is absent you understand how the rhythm section consists of continuous uppercuts.



Fleurs of Decay


Desertrock moves to the moon where the three are waiting for it: tangles of metal splinters appear and it's a progression of cuts, scratches and avalanches of nightmares with a heavy breath.



Fôret


A thunderstorm lets the water fall for a few seconds and then the apocalypse comes, among drums and stabs of a bass highly eager to bend the softness that the moon requires: the four strings win and are helped by a slow and sly guitar, almost shy in arriving. But then it is sonic frenzy until reaching surprising melodic vocals like a window closed with melancholy. The double pedal is activated for a dark but powerful drumming. And it's a joy to find ourselves in this chaos where the wings break and, falling, we can put our face on the moon and smell it. The end is the breath that slows down with a celebration for a landing that has known sweetness.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

28th April 


https://open.spotify.com/album/6WNRwaFxTc4GFX30EPINLB?si=4hjSLwPTR0GfEaynUe7aHQ


https://e-l-r.bandcamp.com/album/vexier







La mia Recensione: E-L-R / Vexier

 La mia Recensione


E-L-R * Vexier



"Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?"
(Milan Kundera)


Qualcosa, nell’ascolto della musica, sembra destinato alla sofferenza, alla digestione che trova la sua occlusione, alla fatica di percezioni che quando si accoppiano con il desiderio creano una grande confusione. Il senso di libertà tra le note è spesso il territorio dell’inganno, dell’inutilità e di un successivo, pesante, imbarazzo. Tutto questo alla fine si coniuga alla pesantezza di questi istanti.

Sono momenti che si ricordano, non ci è concessa scelta, con il gusto che finalmente muore, così pericoloso e dannoso, se ci pensate bene. Non ci resta che essere curiosi estremi, nomadi perenni, viaggiatori forsennati, con luoghi sempre da trovare.

Berna, la città federale, la donna elegante e sempre attiva, che vive e scatena le sue energie su un altipiano incantevole, è anche la spiaggia delle Alpi, dove gli E-L-R seguono la loro folle propensione a creare massi di suono come stregoni con la bava alla bocca.

Sì, davvero, credetemi, le loro canzoni sono rocce metamorfiche con all’interno ghiacciai storditi e curvi, in volo sul tempo e sui nostri sguardi, che fanno gocciolare il sudore della paura che nasce e muore in questi terrificanti e piacevoli quarantasei minuti. Un insieme di passaggi tra le montagne delle nostre vibrazioni, con il loro Doommetal effettivamente ipnotico e pesante, per poi cercare e trovare un pò di leggerezza quando le loro mani accendono la parte meno ruvida, quel Doomgaze sempre più volenteroso di mostrare le sue possibilità di sviluppo. Senza dimenticare il Postrock dalle piume battagliere e meno incline alla malinconia.

I tre svizzeri creano chili di musica che sono lapidi, parassiti capaci di stimolare la cancrena e di ridere mentre noi ci ritroviamo con lo stomaco ribaltato. 

Due donne, I-R, bassista e cantante, S.M. chitarrista e cantante, e un uomo,  M.K., batterista, creano il concetto del suono come un luogo oscuro in cui rendere possibile le vie di fuga da melodie leggere, dal disimpegno, dalla futilità.

Loro non scherzano: ago e clava, a picchiare con trame corrosive e diaboliche, con fulmini rock con la mano sanguinante. 

Si entra nel deserto: dove esiste una possibilità di frantumare anche il minuscolo granello di sabbia loro lo fanno per diventare sirene che nuotano tra le dune, il martello di M.K. è una punizione che vola dentro il nostro respiro e le due responsabili del fragore e del disagio sono assatanate senza dover arrivare a musiche violente come il black metal e affini.

Loro ci concedono il sogno ma lo macchiano di sensi di colpe, cercano di affondare le velleità e le loro creazioni producono orticaria, rossore sulla cute della mente.

E’ un ascolto che è piacevole in quanto il loro coraggio, il  metodo usato per graffiare la mediocrità è pieno di candore: sembrano canzoni perennemente vergini, congiunte al desiderio di esplorare il fastidio e di ingentilirlo con spruzzate di dolcezza che quando arrivano creano sollievo e buonumore, se non anche una allegria scomposta, nevrotica, folle.

Stupisce che tutto ciò possa giungere dalla pacifica Svizzera, per quanto già in passato abbiamo avuto band capaci di essere dure, acerbe, sanguigne: valga l’esempio degli Young Gods. Qui però si va oltre per la continuità, i piani di battaglia programmati ed eseguiti perfettamente, come chirurghi allenati alla precisione, senza possibilità di sbavature. E le loro rocce rotolano dentro anche se vorresti opporti: è questa la loro validità, dono, capacità, un volo continuo dove le tumefazioni ricevute, alla fine dell’ascolto di Vexier, sono necessarie e subito desiderose di ripetere la liturgica modalità di fruizione.

Un secondo album che segue il percorso incominciato con l’altrettanto sorprendente esordio di “Maenad”, intento però ad essere edera corrosiva e acerba, con un profumo che non ti aspetteresti mai. All’interno delle cinque, lunghe composizioni, ci ritroviamo dentro film decadenti,  fotografie piene di olio, uno spettacolo teatrale che confonde lo spettatore e lunghe camminate acide, dove la possibilità di respirare serenamente è solo una ipotesi che loro sanno definitivamente affondare.

Lo consiglio vivamente perché anche la poesia ha le sue rogne, le sue crepe, i suoi ostacoli faticosi da superare. Quello che si prova alla fine di questo percorso è un senso di beneficio che non considereresti mai e la loro mastodontica capacità risiede proprio in questo inspiegabile evento.



Canzone per Canzone



Opiate the Sun


Su un territorio lunare che attende il fragore gli svizzeri seminano proiettili con la custodia: la lenta Opiate the Sun è un finto organo del cielo che prepara l’insurrezione. Timidi parallelismi, nei primi minuti, con i Dead Can Dance e poi il detonatore viene attivato per verificare se la potenza dei tre è ancora oliata: missione raggiunta.



Three Winds


Il Doommetal meno acerbo ma sempre sanguigno si manifesta con chitarra bastarda e il drumming vertiginoso che chiama a sé il lavoro del basso che è granito puro e pesante. Voci lontane scoperchiano il cielo nei loro pochi secondi di presenza sopraffina. Poi il Postrock reclama spazio, tutto si fa più cupo ed il sangue aspetta nuove esplosioni che, felicemente, accadono.



Seeds


Deliziosa: colla lavica in mutazione, spasmi di attesa con voci spiritate e poi il feedback apre la strada alla martellante esibizione di forza e tutto si incrocia, tra generi musicali e tensioni snervanti. La chitarra fa il giro del cielo, quando si assenta capisci come la sezione ritmica sia costituito da uppercut continui.



Fleurs of Decay


Il Desertrock si sposta sulla Luna dove i tre lo aspettano: grovigli di schegge metalliche dal fiato pesante si affacciano ed è una progressione di tagli, graffi e slavine di incubi dal respiro greve.




Fôret


Un temporale lascia l’acqua cadere per pochi secondi e poi entra l’apocalisse, tra tamburi e stilettate di un basso fortemente desideroso di piegare la morbidezza che la Luna richiede: le quattro corde vincono e si fanno aiutare da una chitarra lenta e sorniona, quasi timida nell’arrivare. Ma poi è delirio sonico sino ad un sorprendente cantato melodico come una finestra chiusa con malinconia. Il doppio pedale è attivato per un drumming cupo ma possente. Ed è gioia ritrovarsi in questo caos dove le ali si spezzano e cadendo possiamo mettere la faccia sulla Luna e annusarla. Il finale è il respiro che rallenta con annessa la celebrazione per un atterraggio che ha conosciuto la dolcezza.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

28 Aprile 


https://e-l-r.bandcamp.com/album/vexier


https://open.spotify.com/album/6WNRwaFxTc4GFX30EPINLB?si=4hjSLwPTR0GfEaynUe7aHQ







lunedì 25 aprile 2022

My Review: Ghostland - Dances on Walls

 My Review 


Ghostland - Dances on Walls


Lost souls are individuals who cannot live with themselves, in an ordeal that does not end up in the history books. They can be bound to life by a form of survival with a sad look, engines without gasoline that leave the legs of enthusiasm perpetually still.

If all this happens in a country in which obvious poverty is added, then it is an exception that stands out.

Then there are guys who should always have petrol in their tank.

Greece is phenomenal: it stays afloat with its souls bare but able to resist the passage of time, a cultural cradle that knows no surrender.

And the young Greek generation is very combative, in the art of music there are many bands that are looking for fuel and can offer beautiful journeys with their works.

Take for example Ghostland. 

Makrina: vocals, Nikos: bass, Argyris: guitar, programmed drums & synths.

Three guys (they become four live thanks to the contribution of their sound engineer Stavros who plays keyboards) capable of writing songs like fans to bring the warmth of their peninsula to the northern lands.

Because in sadness, in desolation, there is always the assumption of a point of contact with the cold.

Their Post-punk attitude does not mean that their musical genre is just that: swimming in the possibilities of contact with the most rarefied Darkwave and minimal electronic incursions, the three create a delicate scenario without renouncing to power, but it is undoubtedly their amazing ability to arrive on tiptoe that conquers, charms, establishes the perfect presupposition to love them unconditionally.

Of their nation they have the ability to be mysterious, never fully showing all their treasure chests. They write songs like a half mirror, enough for upsets of absolute pleasure. You can sense the other half: their skill lies in not exaggerating, in their remarkable sense of balance, in their ability to suggest that what is missing is not a weakness but a strength.

Their music is dark, it moves through the space of the souls I mentioned, and it does so with the courage of those who see more light in the night than during the day. This can be deduced by the ease of the music and words that travel intrepid, bold, upside down, with their eyes open and their dreams dropped on one of the thousands of islands of a Greece increasingly in need of talents like theirs.

While they are working on their second album, here my writing is directed to their debut record of four years ago, which I well remember gave me deep reflections, emotions and the most intense joy for a work able to show their courage, the propensity for attention to detail, the richness conveyed by talent and perfect planning.

Incisive, aggressive with gentleness, they are splendid martens who have on their fur all the softness that allows them to soar.

If you listen to these tracks carefully, it won't be difficult to notice the characteristic ability to dilate the notes with vibrations and a sense of anticipation that creates pathos.

The guitars are shy sirens, the bass a leaping and elegant badger, keyboards are waves that enter the marine background and the voice a gazelle that runs even when it walks...

Dances on Walls is the human library that continues to write the history of its land: let's dive into these nine pins and discover the elegance of a band that chews the night with lightness…



Song by Song


Dances on Walls


The Greek past enters in the album's brief introduction: like an expanse of "Draco", meaning dragon, this track is just a marble showing its solidity with powerful notes, keyboards that sound like the wind carrying the flight of bats. Give Philip Glass some LSD and you get this wonder in your ears.


Leave Behind (Hollow Moon)


Take Red Lorry Yellow Lorry in the intro, a handful of Anja Huwe in the vocals and enjoy this post-punk bass and then the hallucinated guitar scratching the darkness. You'll get a sound painting with 40 years on its shoulders, but fresh and effective.


Wind of Knives 


The beginning can sound like a perfect cross between Echo & The Bunnymen's All My Colours in the drumming and The Sound of Geopardy in the bass. But Makrina's vocals are enough to have suggestions just out of the water. And then, as the seconds pass, you find yourself enjoying bunches of grapes within increasingly effervescent notes that leave you feeling gloomy. The words remain coated with an almost romantic sadness but effective in making us bow our heads.


Don't Wait


Devo change their skin, pairing up with early Pankow and pushing the pace to get fast. Makrina sews the skin of thoughts with a voice that penetrates and insinuates itself like a snake inside us. Structured with complex simplicity, the song is a melodic howl able to shake.


Sway


How much similarity I see between this song and 3+Dead. But the Greeks were born first.

The Greek band delights us with this atmosphere which, verging on Dreampop, reaches into a delicate, almost serene Darkwave. 

The guitar moves secretly, leaving keyboards at the centre of attention for most of the piece.


The Dancing Crowd


The most bony, decisive, heavy track is a philosophical procession of perfectly accurate sounds. An energetic voice emerges from a damp cave to shake the feathers of the night streets and then the chorus is an absolute gothic enchantment. Bass and guitar challenge each other and the arrangement of the second verse brings forth spring tears. The portrayal of all their turbulence is class that enchants.


Ice Song


Greek archipelagos bring loneliness to the Parthenon: Athens is filled with corals and lakes, and with this sharp blade it gets a makeover. Robert Smith's band might be jealous: how skillful they are at not being too sad, but in a measure in which everything leaves margins of freedom in the plundered bones, strength seems a memory.


Lifeblood


No way: these guys have magic in their fingertips, quickly combining German post-punk with shots of glacial sounds, torn clothes, dangling hands, while legs run breathless. In the end the higher register of voice, hidden behind darkwave bushes, shudders, it scares like a short-lived horror movie.


Against The Light


The conclusion is entrusted to the ancient atmosphere that brings us back to the time when a woman could go out only with her handmaiden. 

The beginning is heavy dust descending from the clouds: spectral, smelling of death. Then the lashings of a drum machine and the bass like the roar of a lion.

Slow, sacred, a black diamond not to be looked in the eye, the song seems to celebrate a millenary decadence. 

And if enchantment can have acceptable blackness, that comes out of the anachronistic grooves of this splendid final song.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

25 April 2022


https://ghostland.bandcamp.com/album/dances-on-walls


https://open.spotify.com/album/6t8NIDTuKDaCuYpoifLqe0?si=Xji_UbymQTqrNUFOvqtj5Q






La mia Recensione: Ghostland - Dances on Walls

 La mia Recensione 


Ghostland - Dances on Walls


Le anime perse sono individui che non riescono a vivere con se stessi, in un calvario che non finisce nei libri di Storia. Possono essere legate alla vita per una forma di sopravvivenza dallo sguardo triste, motori senza benzina che lasciano le gambe dell’entusiasmo perennemente ferme.

Se tutto questo accade in un Paese nel quale si aggiunge una evidente povertà allora tutto ciò è un’eccezione che risalta.

Vi sono poi ragazzi che la benzina nel serbatoio dovrebbe averla sempre.

La Grecia è fenomenale: resta a galla con le sue anime spoglie ma capaci di resistere al passaggio del tempo, una culla culturale che non conosce la resa.

E la giovane generazione greca è molto combattiva, nell’arte della musica sono molte le band che cercano benzina e che sanno offrire con i loro dischi viaggi bellissimi.

Prendiamo i Ghostland per esempio.

Makrina: vocals, Nikos: bass, Argyris: guitar, programmed drums & synths.

Tre ragazzi (dal vivo diventano quattro grazie al contributo del loro ingegnere del suono Stavros che suona la tastiera) capaci di scrivere canzoni come ventagli per portare il calore della loro penisola verso le terre nordiche.

Perché nella tristezza, nella desolazione esiste sempre il presupposto di un punto di contatto con il freddo.

La loro attitudine Post-punk non significa che il loro genere musicale sia proprio questo: nuotando dentro le possibilità del contatto con la Darkwave più rarefatta e minime incursioni elettroniche, i tre creano uno scenario delicato senza rinunciare alla potenza, ma è indubbiamente la loro strepitosa capacità di arrivare in punta di piedi che conquista, ammalia, stabilisce il presupposto perfetto per amarli incondizionatamente.

Della loro nazione hanno la capacità di essere misteriosi, non mostrando mai completamente tutti i loro scrigni. Scrivono brani come uno specchio a metà, sufficiente per sconvolgimenti di piaceri assoluti. L’altra metà l’avverti: la loro bravura sta proprio nel non esagerare, un senso dell’equilibrio notevole, l’abilità di far presupporre che ciò che manca non sia un difetto bensì un pregio.

La loro musica è tetra, si muove nello spazio di quelle anime di cui dicevo, e lo fa con il coraggio di chi vede nella notte maggior luce che non durante il giorno. Lo si deduce dall’agio di musiche e parole che viaggiano intrepide, spavalde, a testa in giù, con gli occhi aperti e i sogni lasciati cadere in una delle migliaia di isole di una Grecia sempre più bisognosa di talenti come il loro.

Mentre stanno lavorando al loro secondo album, qui il mio scrivere è rivolto al disco di esordio di quattro anni fa, che ricordo bene mi diede riflessioni profonde, emozioni e la gioia più intensa per un lavoro capace di mostrare il loro coraggio, la propensione alla cura dei dettagli, la ricchezza data da talento e pianificazioni perfette.

Incisivi, aggressivi con dolcezza, sono splendide faine che hanno sulle loro pellicce tutta la morbidezza che consente loro di svettare.

Se si ascoltano questi brani con attenzione non sarà difficile notare la caratterizzante capacità di dilatare le note con vibrazioni e un senso di attesa che crea pathos.

Le chitarre sono timide sirene, il basso un tasso saltellante ed elegante, le tastiere sono onde che entrano nel sottofondo marino e la voce una gazzella che corre anche quando passeggia…

Dances on Walls è la biblioteca umana che continua a scrivere la storia della propria terra: tuffiamoci dentro i nove spilli e scopriremo l’eleganza di una band che mastica la notte con leggerezza…


Song by Song


Dances on Walls


Entra il passato greco nella breve introduzione dell’album: come una distesa di “Draco”, che vuol dire drago, questo brano è proprio un marmo che mostra la sua solidità con note potenti, una tastiera che sembra il vento che porta con sé il volo dei pipistrelli. Dai dell’LSD a Philip Glass e ti ritrovi questa meraviglia nelle orecchie.


Leave Behind (Hollow Moon)


Prendi i Red Lorry Yellow Lorry nella introduzione, una manciata di Anja Huwe nel cantato e goditi questo basso Post-punk e poi la chitarra allucinata a graffiare il buio. Avrai un dipinto sonoro con 40 anni sulle spalle, ma fresco ed efficace.


Wind of Knives 


L’inizio può ricordare un perfetto incrocio tra All My Colours degli Echo & The Bunnymen nel drumming e i The Sound di Geopardy nel basso. Ma basta il cantato di Makrina per avere suggestioni appena uscite dall’acqua. E poi, con il passare dei secondi, ci si ritrova a godere di grappoli di uva dentro note sempre più effervescenti che lasciano la cupezza. Le parole rimangono ricoperte di una tristezza quasi romantica ma efficaci nel farci abbassare il capo.


Don’t Wait


I Devo cambiano la pelle, si accoppiano con i primi Pankow e spingono il ritmo a farsi veloce. Makrina cuce la pelle dei pensieri con una voce che penetra e si insinua come una biscia dentro di noi. Strutturata con una semplicità complessa, la canzone è un ululato melodico che scuote.


Sway


Quanta similitudine vedo tra questa canzone e i 3+Dead. Ma i greci sono nati prima.

La band greca ci delizia con questa atmosfera che, sfiorando il Dreampop, giunge dentro una Darkwave delicata, quasi serena. 

La chitarra si muove nascostamente lasciando per la maggior parte del pezzo la tastiera al centro dell’attenzione.


The Dancing Crowd


Il brano più ossuto, deciso, greve, è una processione filosofica di suoni curati in modo perfetto. Da una grotta umida esce una voce energica a scuotere le piume delle strade notturne e poi il ritornello è un incanto gotico assoluto. Il basso e la chitarra si sfidano e l’arrangiamento della seconda strofa fa scaturire lacrime primaverili. La rappresentazione di tutta la loro turbolenza è classe che incanta.


Ice Song


Gli arcipelaghi greci portano la solitudine al Partenone: Atene si riempie di coralli e laghi e con questa lama tagliente si rifà il trucco. La band di Robert Smith potrebbe essere gelosa: quanta abilità nel non essere troppo tristi ma in una misura nella quale tutto lascia margini di libertà nelle ossa saccheggiate, la forza pare un ricordo.


Lifeblood


Niente da fare: questi ragazzi hanno la magia nei loro polpastrelli, velocemente coniugano il Post-punk tedesco con spari di suoni glaciali, vesti strappate, mani ciondolanti, mentre le gambe corrono senza fiato. Nel finale il registro si voce più alto, nascosto dietro cespugli Darkwave, rabbrividisce, spaventa come un film horror dalla vita breve.


Against The Light


La conclusione è affidata all’atmosfera antica che ci riporta al momento in cui una donna poteva uscire solo con la sua ancella. 

L’inizio è polvere pesante che scende dalle nubi: spettrale, in odore di morte. Poi le frustate di una drum machine e il basso come il ruggito di un leone.

Lenta, sacra, diamante nero da non guardare negli occhi, la canzone sembra celebrare una decadenza millenaria. 

E se l’incanto può avere del nero accettabile, quello esce dai solchi anacronistici di questa splendida canzone finale.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

25 Aprile 2022


https://open.spotify.com/album/6t8NIDTuKDaCuYpoifLqe0?si=qkG6K8oqS76cswrAiDQDDQ


https://ghostland.bandcamp.com/album/dances-on-walls








domenica 24 aprile 2022

La mia Recensione: CSI - La terra, la guerra, una questione privata

 

La mia Recensione 


C.S.I. - La Terra, La Guerra, Una Questione Privata


Si vive sulla Terra, mentre si fa la Guerra, e la vita diventa una questione privata, fatta di ricordi, di testimonianze, mentre il tempo accarezza le ferite, le guarda in faccia e poi, dopo singhiozzi, riflessioni e scatti d’ira, dice a se stesso “Esco”…

Un album capace di essere l’orgoglio di persone che ascoltano movimenti di coscienza da tenere accesa, da mostrare con fierezza mentre le rimembranze di lotte fratricide divengono anche il Presente che acclama il diritto di valori che devono imporsi.

Una chiesa, un paese fondamentale nella lotta al fascismo, un uomo che ha scritto come nessuno mai e che per una sera ha ricevuto lo sguardo di anime attente.

Tutti presenti, lucidi, con la capacità di generare insieme quel fragore che da avvenimento è stato capace di trasformarsi in prezioso accadimento.

Lamento sonoro, anche sonico, con parole scortecciate, hanno gonfiato il ventre di quell’edificio in una preghiera soprattutto laica, in una pentola di emozioni che hanno conosciuto anche la devastazione interiore, per bollire nelle vie sanguigne quasi terremotate e increduli: i C.S.I. hanno stretto i pugni, preso fiato da polmoni urlanti e hanno depositato, attraverso cavi, microfoni, amplificatori, tutta la loro necessità di prendere il loro ultimo album Linea Gotica e di integrarlo con la vita dell’uomo nato ad Alba. Una processione di intenti, di valori, necessità che in abbondanza hanno colorato il cielo interno di quella chiesa e dei presenti per sussurrare alle cupe vampe di far posto ad un arcobaleno sempre più desiderato. 

Le cose che dovevano andare sono andate per la loro strada: sono finite dentro menti che si spera le abbiano tenute in sé, che ne abbiano conservato preziosa memoria.

Notte di esplosioni, di canzoni dalla gola profonda, la devastante capacità di uomini e musicisti uniti nel deflagrare, nel seminare, nel vivere il dolore che ha consumato, torturato, ucciso innocenti.

Introduzioni lente, minimaliste, piene di odori, per poi detonare il tutto facendo sentire il puzzo di una vita assurda, un macello aperto ventiquattro ore al giorno.

Canzoni come morsa, c’era da stringere forte il Nero, l’esigenza di mostrare che il sangue è Rosso e che il nero significa putrefazione, malattia, follia, prevaricazione, morte.

Quella sera la musica dirompente della band tosco-emiliana si è coniugata con una modalità che ha piegato il fare favorevole ai dilettanti per mostrare la professionalità e distruggere l’approssimazione. Vi era una Patria scomoda da definire, da invogliare, a cui dover dare una sterzata e l’energia profusa è divenuta letale: il torpore è stato annientato, capace di essere un moto acceso, fresco, vivace, essenziale. Ciò che era crudo e freddo è stato riconosciuto e portato a essere un falò: bisognava accendere la necessità di non consegnarsi al silenzio di anime intorpidite e abituate alla rassegnazione. 

Molte delle canzoni originali sono state rese più lente, bisognava rimarcare la loro potenza e la lentezza può fare questo. Pallottole di vita, caricate per essere salvifiche e generare il doveroso beneficio, sono state sparate da un palco rovente, terribile, inarrestabile per forza e precisione. Quegli uomini hanno ucciso le storture, ci hanno fottuto per salvarci, una cascata di fuoco ha bruciato l’inutile e ci siamo ritrovati in una catarsi di cui non saremo mai grati abbastanza.

La nostra testa quella sera ha conosciuto un taglio, il limite è stato preso, scosso, portato alla luce grazie alla Grazia che abbiamo ricevuto come prezioso dono necessario, scuotendo l’inverno dei nostri bui comportamenti. Un album coraggioso, la processione di note musicali e parole che sono salite al cielo, lentamente, desiderose di leggerezza che è penetrata nei pensieri come vitamina, come proteina, aprendo la volta celeste verso un miglioramento teso e verticale. La lotta partigiana ha conosciuto la considerazione che meritava con un impegno che ha soffiato via per qualche momento la disperazione, la fatica nell’accettare quel male che, dopo aver ammazzato pubblicamente migliaia di persone, ha deciso di uccidere la libertà, privatamente, di nascosto, con il suo ripudiante sguardo fisso. I C.S.I. ci hanno reso piccoli, immobili, ci siamo sentiti arresi da una parte dalla loro bellezza, dall’altra davanti ad una realtà che l’approssimazione avalla contribuendo alla assoluta libertà di quel fascio nero indigesto di continuare ad essere devastazione insopportabile. Ci hanno fatto viaggiare dentro la Storia che ha scritto pagine terribili, drammatiche, uno sconquasso che si muove come la polvere con il vento che, infaticabile, non si arresta. Sono stati una vertigine voluta, desiderata, tesa ad abbattere il mondo e liberarlo. Canzoni come pance, menti vergini da proteggere e conservare per non conoscere la distruzione.

Ci hanno guardato negli occhi per illuminare la nostra piccolezza, riempiendo le vene di una potenza più che mai necessaria con brani colmi di cartavetro: c’era da raschiare e l’hanno fatto perfettamente. Tutto è stato pregno di Letteratura, di Storia, di Poesia, hanno attraversato i visi, i loro drammi, la volontà di farci sapere che si è liberi dando la vita, non accettandone i soprusi. Sentire i tuoni dentro una chiesa è stato pazzesco: nessun Dio poteva fermare la band perché c’era un compito in classe da svolgere, un percorso umano da definire, specificare, rendere eterno in quanto questo sa fare la Musica che conosce l’impegno concreto. Non bisognava ascoltare ma fare inginocchiare l’ignoranza, l’attitudine al menefreghismo più violento e inutile. 

“Materiale Resistente”, “Linea Gotica” e infine “La Terra, La Guerra, Una Questione Privata”: tre movimenti del pensiero profondo si sono uniti per celebrare l’umana messa del risorgimento, del risveglio, di una guerra mentale capace di non fare vittime ma di generare una nuota vita, pulsante e consapevole. La tensione e il caos hanno regnato, fortunatamente senza essere interrotti, gettando sui ciottoli della chiesa la convinzione che il movimento culturale avesse trovato nella band dei profeti, dei guerrieri pacifici, dove l’elmetto è stato tolto: non c’era nulla di cui aver paura, nulla da cui ci si doveva difendere e ci siamo ritrovati a intonare la poesia della vita con tutta la sua importanza. Ogni irripetibile chance è stata praticata, Annarella ha avvolto l’impegno e la saggezza, mentre la figlia di Fenoglio versava lacrime umane tiepide, dolcissime, tenere, ed un suo amico col foulard sorrideva e rendeva il ricordo di Beppe una cavalcata nelle colline di Alba: un piacere assoluto a dimostrare che ciò che rimane può seminare bellezza e l’inclinazione a voler ancora progettare un mondo migliore. L’ascolto di una registrazione di questo evento non potrà mai far scaturire lo stesso effetto che ha sortito su di noi che eravamo presenti, ma sarà capace comunque di scuotere, di arrossare il cielo interiore, dove nessuna quiete ha trovato posto: era necessario mettere della legna calda, bruciante, rincuorando e sostenendo la volontà di riappacificare il cuore. La terra è stata scaldata, la guerra è stata punita e la questione privata ha avuto il conforto di essere abbracciata, perché in questo album la vita ha danzato tra le stelle insieme al partigiano Johnny facendo capire che il passato ritorna con il senso della consapevolezza e dell’efficacia, di un utilizzo che genera miglioramento.

Probabilmente quella serata e questo disco testimoniano una dirompente unicità, come anche l’affermazione che la veemenza, il bisogno di vivere una Storia sempre uguale e sempre diversa, per non essere più “semplici” canzoni ma inchiostro vivo, energico, necessario per scrivere una nuova identità e far scendere il sogno dal suo piedistallo e renderlo concretamente una realtà efficace, possa trovare il suo senso.

È tempo di bruciarci la pelle e di entrare nel fuoco di questi solchi per dare alla memoria la luce e la consapevolezza di una serata talmente intensa che ancora oggi il fiato si trattiene: per rispetto, per il bisogno di non disperdere nulla…


Canzone per Canzone


Campestre


Tutto dilatato, glorificato dalla seta soffice della voce di Ginevra Di Marco, che impone la sua classe alla poesia delle chitarre danzanti di Massimo Zamboni e Giorgio Canali su un arpeggio cupo, una dissonanza perfetta e il basso sornione di Gianni Maroccolo. 


Esco 


Fuoco alle polveri: le chitarre ed il pianoforte tetro di Francesco Magnelli sono l’apripista di una canzone ancora più sferzante dal vivo e Giolindo Ferretti fa vibrare l’inferno e il tempo. Donna Ginevra è un sibilo come la chitarra di Giorgino, mentre Massimo spella la pelle e tratteggia il pianto nascente.


Fuochi nella notte di San Giovanni 


Le percussioni di Gigi Cavalli Cocchi ammaliano, mentre la voce di Giovanni splende come non mai per una canzone che vive di una coralità unica, vistosa e imponente, con quel fare pop che viene concesso per bellezza e valore. Senza dimenticare quella chitarra elettrica che sul coro graffia e seduce. 


Guardali negli occhi


Il dono del cielo si chiama Gianni Maroccolo, il suo basso scompiglia le vene, e Massimo e Giorgino gli danno una mano per rendere questa canzone la regina dell’emozione. Ferretti affonda la sua voce nel nostro ventre, mentre la penna del partigiano vola libera. 

Una semi danza che circonda le nostre gambe e poi Ginevra che sale a baciare le piume delle stelle.


Linea gotica


Maestosa, rovente, cilindrica, grassa e crassa, la canzone che dà il titolo all’album che ha preceduto il concerto diventa acqua bollente: scende dalle colline attorno ad Alba per riscaldarla dalle ferite della guerra. Una parata di classe geniale che, una volta che ha lubrificato il suo motore, diviene un boato lento. Francesco ci fa rabbrividire con la sua tastiera, mentre le note si abbassano per poi salire in alto come allucinazione necessaria.


Cupe vampe


Commovente, straziante, pericolosa, agile, precisa nel fare della chiesa un luogo pieno di sangue raffermo e di un dolore che continua a bruciare la carne e la mente.

L’apoteosi che sovrasta e che induce alla disperazione. Potente come non mai, qui tutti mostrano la perfezione e la ferita si allarga. Giovanni e Ginevra sono gli Dei che ci fanno tremare e poi la chitarra che parte al minuto tre e cinquanta ci spazza via tutti: non rimane che la fede davanti non alla versione migliore, ma all’essenza di questo brano che qui trova il luogo ed il momento per divenire la perfezione assoluta.


Memorie di una testa tagliata


Il maestro Francesco sale in cattedra: dipinge le mura della chiesa con tocchi perfetti come la volta celeste e Giovanni veste la sua voce di terremoti dolcissimi ed esplosivi, come se potesse coniugare a tutto questo l’eruzione di vulcani scalpitanti. La chitarra acustica di Maroccolo è poesia ritmica che ben si abbina al contraltare di chitarre nevrotiche. Con un finale apocalittico e snervante che ci sbottona la pelle.


In viaggio


Marito e moglie (Francesco e Ginevra) aprono i cuori con la loro sottile poesia e poi Giolindo abbassa il tono della sua voce verso il centro della terra. Quando il punk invece di urlare strappa le vene con il suo ritmo lento ma dalle fondamenta solide, logorando il tempo che vorrebbe farlo cedere: non ci riuscirà. Un’altra perfezione che si mostra facendoci cadere nella vertigine della bellezza.


Del mondo


Una nenia logorante ci fa puzzare il sangue: Francesco pigia con veemenza sui tasti, mentre Giolindo diventa un muezzin che con la sua preghiera pagana infetta le nostre palpebre.

Il pianeta terra cambia la sua traiettoria scendendo ai piedi dell’universo.


Annarella


Bella come non mai, Annarella indossa il suo abito rosso d’amore per spogliarlo dentro le voci di Giovanni e Ginevra e divenire la ninnananna  che invece di far addormentare sveglia il bisogno di legarsi a qualcuno. Il pianoforte di Magnelli diventa il testimone di una poesia senza fine.


Irata


Le lacrime entrano nel coro sovrano di questa processione divina, con l’organo di Francesco a portarci atomi degli anni 70 ed un prog infettato da chitarre ubriache e storte. Giolindo soffia fulmini nel microfono con malinconia ed il fiato pesante per esaltare un testo poderoso. Gianni diventa la voce dal tocco possente, Gigi appoggia le dita donando al tempo calore.

Mentre si muore si ascolta la canzone della fragilità che col suo finale vibrante porta Ginevra ad essere la fata dalla vocale che uccide.


Guardali negli occhi - ripresa


Le gocce del viso vivono nell’ascolto di questa canzone che ritorna mentre la morte si trasferisce sui monti per rimanere intatta contro l’infinito. Giolindo spezza il fiato con la sua fiamma ossidrica capace di scaldare l’ignoranza e di sconfiggerla, circondato dagli altri membri della band accordati in una intensità che rende la musica un palco di spine che usando la melodia fanno la guerra. 

È un combat folk che può solo ripetere la storia della nostra vita, tra le note sottili di Francesco che spingono le chitarre malate di un dolore che vive obbligatoriamente il suo destino irrimediabilmente segnato.

Massimo e Giorgino spargono schegge di follia insieme a Gianni che distrugge il cielo.

Uno strazio sentirla, una gioia cantarla, i brividi che illuminano il futuro dentro la consapevolezza che il destino umano è quello di vedere le penne cadere, ma con i sorrisi appiccicati sui denti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Aprile 2022


https://open.spotify.com/album/6742TYQHe1Rru8NwLwc5kJ?si=f9Sb_3TdTtu51GlM7D7mFQ







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