Estetica Noir - Amor Fati
La gioia e la dannazione della vita è tutta nelle mani grasse e velenose del tempo, colui che rimane giovane, immortale e ha il dono di far nascere esistenze e di condurle alla morte.
Su questo egocentrico ed egoista essere, maligno e generoso, si è concentrato nei millenni uno studio profondo, specifico, che non ha saputo cambiare le cose. Non si è nemmeno imparato ad accettarlo, tutte le fatiche sono scivolate nella disperazione, anche nella rassegnazione, e ognuno di noi olia i meccanismi dei propri sogni per trovare forza e consolazione.
Che è quello che ha fatto la band torinese Estetica Noir, nel suo nuovo lavoro che altro non è che un concept album che affronta parte delle tematiche citate, per divenire, attraverso queste nove composizioni, un punto di riferimento, di partenza, un semaforo celeste al fine di ripartire verso una coscienza che rischiari le tenebre e le faccia arrendere un po’.
Amor Fati rivela attitudini completamente diverse rispetto al passato, una costante pressione nei confronti della forma e del contenuto con l’abilità di attraversare il tempo anche musicalmente parlando, con appigli nobilissimi e riferimenti che sanno come far apparire l’insieme come un quadro raffigurante il passato già immerso nel far breccia verso il futuro. Meno cupo, meno legato a cliché di impronta gotica, questo disco osserva, descrive, amplifica l’obiettivo di non provare vergogna nel visitare prospettive diverse, finendo per scaldare i muscoli del cuore e aprire i corridoi della mente.
Il percorso rivela maturità, ingegno, elasticità sensoriale, incursioni in territori poco praticati dal gruppo in passato, una semina di nuove esperienze che edulcora il linguaggio artistico e lo rende forte, preciso, dinamico e coinvolgente. I generi musicali di cui è composta questa perla sono un abbraccio climatico, umorale, con l’abilità di cucire questi notevoli fluidi con una produzione eccellente per mano di Riccardo Sabetti, un mago al servizio della bellezza e del valore del materiale scritto da questi quattro psicologi sonori.
Ci si commuove con l’elettronica, i beats, i flussi siderei di una nuova faccia liquida della synthwave, qui capace di rivelare nuove dinamicità. Il tempo, dicevamo. Ecco: la setacciatura compiuta mostra anche nei confronti della musica l’abilità di renderla sognante, fisica, veemente, criptica, animalesca con garbo, in una furia che sembra un dizionario di semiotica, un amplesso sanguigno che non risparmia energie per rendere il tutto comprensibile.
Canzoni rabdomanti in cerca di luce, di una illuminata dimensione che strutturi il tutto verso la dilatazione, con la sapiente manovra di rendere anche le gambe, in costante movimento, capaci di danzare per rendere lieto il più possibile l’incastro di argomenti impegnativi.
Si noti come le chitarre siano compagne di viaggio, complici di un ensemble che è strutturato per far vincere le composizioni: anche sotto questo aspetto la maturazione è evidente, porta, oltre a una novità, la volontà precisa di curare gli argomenti con una divisione dei compiti che non cede a nessun ricatto. E la voce è un ciliegio in fiore in grado di interpretare molto bene la fiumana di parole vitali e profonde, interessanti, ben scritte e ottimamente espresse in una modalità che mostra una stratosferica densità.
Il godimento dell’ascolto passa attraverso le varianti, le corse e le passeggiate nelle atmosfere molteplici, in un flusso ventoso che porta a bordo temperature e oscillazioni emotive aperte verso l’aggancio con strutture che, anche se ricordano cose che abbiamo già sentito, la band sa esprimere meglio, per un risultato che inclina la soddisfazione nella commozione: ci sono brividi ricorrenti e stordimenti che baciano stupori, con la certezza che sia, tutto questo, solo l’inizio di un cielo nuovo che loro hanno saputo inventare…
Il Vecchio Scriba è certo del valore di questo album, lo è molto meno della capacità della massa di attribuirgli il plauso che merita e l’usufrutto, in quanto, per davvero, queste canzoni sono docenti universitari, informazioni indispensabili per maturare una crescita che indirizzi l’esistenza nell’associazione della realtà e del sogno in un nuovo Eden…
Song by Song
1 - Burnout
“Why did the screen become your god? Why do you show guns instead of love?”
Ed è subito tempesta, spettri ebm e synthwave acida adunati in un assolo corale di urla che girovagano nella notte per donare frutti consapevoli da innaffiare. Giochi di synth come raggi di temporali e la voce che, raddoppiata, si insinua nella testa mentre si danza già sconvolti…
2 - Pain
“A lot of lies ruined my reputation. Art brightened my empty days.
I couldn't be all I wished. Fragile dreams.”
Lo stupore diventa consapevolezza, l’odio, la vita, la solitudine, l’illusione, il tutto viene confiscato da questa corsa melodica che, tra coldwave col trucco serale e un gioco elettrico che giunge dalle sponde germaniche degli anni Ottanta, rivela un’estasi nevrotica che rende stremati ma di fronte alla verità relazionale.
3 - Summer Shine
“You were the danger I loved, the dreg, the alien god,
you were the pleasure of someone who dares.”
La canzone che più mostra l’impatto con l’italo disco degli anni Ottanta per poi planare verso i confini che i Depeche Mode non hanno mai saputo perfezionare, è un vapore pieno di artigli che ha scelto di essere più lento rispetto ai due brani precedenti, riuscendo a seminare tensione e interesse, anche attraverso un cantato che mostra notevoli differenze rispetto a tutta la carriera vocale di Silvio Oreste.
4 - Faded
“I'm afraid of dying when this time will end. I want to play again.
Can you hear me? I'm fading away.”
Ecco il dialogo con Dio, un faccia a faccia velenoso, dove la volontà umana si precisa con il suo ardire, con la provocazione, con lamentele sapienti. Si danza con un format che sprigiona gioielli synth e un basso struggente e malinconico, creando una culla tra i precipizi di un testo meraviglioso.
5 - The End of Moraliadays
“Whenever you'll cry and whenever you'll smile, you know that I will be proud of you.”
Cambio di atmosfera, il coraggio di una disponibilità alla comprensione umana che addolcisce e ci rende teneri cuccioli contenti e sicuri dell’amore. Una coperta mantrica si prende il nostro stomaco, scintille di synth di provenienza Orchestral Manoeuvres in The Dark miscelate poi a un sottile lavoro di diminuzione degli strumenti per poi riprendere e condurci verso la fine del giorno rendono la canzone una chicca magnetica.
6 - Iter Vitae
Marco Caliandro è l’autore dell’unico brano strumentale, un crocevia di seduzione che parte dal bacio dei Kraftwerk per congiungersi con esplorazioni ebm flessuose, per fare l’amore con i sogni, in un disegno dove la pellicola di un film muto si prende spazio dentro questa magia surreale…
7 - Strange Hologram
“Once upon a time, when the sky was bright, people talked and smiled.”
La Regina dell’album, la Dea della consapevolezza che distribuisce decisioni e impronte notturne, porta se stessa nel giorno. E lo fa con diramazioni elettroniche quasi sospese, mentre le parole sono tempeste senza resa…
8 - Stockholm’s Azure
“Where do we go, now? Life is too short to give up, we must stand.”
La permanenza, la lotta, il senso del tutto trovano modo di suggerire un’orgiastica scia sonora, impulsi atavici perlustrano i passi della vita attraverso questo delirio, un up and down che evidenzia un cantato vitaminico e il sollievo di un pentagramma che contiene ricche fasce di luce e tenebra a braccetto.
9 - The Cell
“Do you think to have a choice? Walls of lies surround you.”
Questo gravido tempio di brillanti si conclude con una pioggia lenta e invernale, verso sera, nel momento in cui è concesso in quanto la verità non si può mettere a tacere. La band sfodera un fascio sonoro brillante lancinante, umido, lento, una stella cometa che oscilla come i migliori Placebo della svolta elettronica seppero fare. Ed è un armonico abbraccio tra lacrime e poesia piena di gramigna…
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.