Gene - Olympian
“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare…”.
Arthur Schopenhauer
Una bolla antica, di piccole dimensioni, si posiziona nel cielo musicale di un momento delicato, quel 1995 che aveva l’onere di dare alle note nuove forme, regalare ossigeno, far dimenticare il dolore dell’anno precedente e di tenere compatta l’intenzione di timonieri con una diversa mansione, una fuga dal rock sporco, macchiato di sangue e frustrazione.
Londra, la regina di quest’arte, muove i suoi cavalli, le sue regine e i suoi re nel trambusto di una effervescenza che nacque con i Suede poco prima.
La pressione sanguigna degli entusiasmi circola nelle strade, nei locali, nelle radio, una effervescenza che assomiglia all’incoronazione di un nuovo sogno.
I Gene spazzano via tutto, incuranti, a proprio agio solo nel loro vagare tra le zone in cui tutti, da tempo, non mettevano più piede. La musica non come veicolo di confronto, bensì come un'impronta marmorea da guardare con sospetto. Troviamo, così, evidenti segnali di migrazione, uno spegnere i riflettori sul superfluo e un incanalare, invece, una stretta e fitta serie di relazioni con i dubbi, le pene, le forme iniziali di smarrimenti e depressione, senza mancare però il desiderio di gonfiare la vena romantica, di mettere in contatto tra loro il sogno e la positività. Olympian, per iniziare, considera questi elementi per allargare le note e stringere i polsi, in atti contraddittori che stordiscono, senza però far mancare una fascinazione che odora di antico. Un lavoro pregno di quella impronta inglese come da tempo non si aveva più modo di godere: la terra di Albione stava perdendo le sue radici, l’indole e, cosa molto più grave, il senso di appartenenza a una parte conservatrice che sembrava in fase di morte.
Canzoni con il bavero e i guanti di seta, con la luce fioca a rendere lo sguardo una fatica inevitabile: le realtà e gli sbalzi di umore di Martin Rossiter sono rasoiate, baci gelati nel fuoco di un addio urlato con garbo, una gentilezza non priva di cinismo e decadenze assortite, in un quadro generale dove la cupezza sembra un arcobaleno macchiato, in un giorno lavorativo. Un album diurno, fastidioso come le ore passate al lavoro, quello fatto di una ritrosia assoluta nei confronti dello scambio gioioso dei movimenti, che siano essi spostamenti fisici o mentali.
La struttura di queste undici composizioni è quella di una nave che attraversa la calma e l’irruenza con lo stesso approccio: guardare per imparare, senza scomporsi. Per fare ciò ogni brano oscilla, come onda piena di risorse impreviste, senza rimanere ancorato ai cordoni della forma canzone, in chiaroscuri evidenti, come le salite e le discese, nelle quali i cambi ritmo evidenziano anche il bisogno di non incontrare la noia.
Seppure Steve sia un chitarrista eccelso, in tutto l’album notiamo un solo assolo: già questo fatto evidenzia come i quattro ragazzi abbiano determinato scelte artistiche specifiche, per donare al mondo dell’ascolto quella compattezza che, specialmente nello stupido movimento denominato Britpop, soleva, invece, mostrare con cupidigia. Ma non dovremmo mai smettere di considerare la band londinese come un miracolo impreciso, ribelle, non voluto e non digerito dalla maggioranza degli inglesi, in quanto tutto ciò che si ascolta in questo lavoro non mostra per nulla il futuro, negando quella gioia e quella stupidità che invece stavano cercando. Ogni frammento è un sogno, un atto di vita da devitalizzare, un dente affetto di nostalgia, di ricordi cattivi come lupi nella foresta di un pop privo di saggezza e maturità. I Gene, invece, si inchinano al tempo, alle storie su cui nessuno spende le giornate, e raccontano esistenze di emarginazione senza riflettore, come Dio comanda…
Un album fatto di domande, di tendine abbassate, di libri antichi, di un linguaggio a volte arcaico, altre volte invece di una immediatezza quasi scostumata. Basterebbe la splendida copertina per riuscire ad accordarsi in anticipo con l’attenzione, il gioco dei colori, la penombra, la sensazione che l’ascolto abbia a che fare con un viaggio a ritroso, ed è esattamente quello che compie la nave Gene.
Sono giochi di potere quelli che i tre strumenti principali attuano con il supporto, a volte, di archi che allargano il respiro per poter esplorare meglio l’emozione di lacrime che ruotano nel petto, come caviglie macchiate di piombo.
Il cantato, sigillo di qualità e di abbondanti dosi di tremori regalati senza risparmio, è un pugno onesto dentro le nostre disattenzioni, un invito perfettamente maleducato per farci sentire in colpa, senza rinunciare a una melodia che ottunde, semina riflessioni e conquista, malgrado le parole siano corone di spine vaganti, in missione spesso punitiva: Martin ti fa sentire un porto di mare, accogliente e sempre operativo, ma soprattutto il luogo dove contenere i suoi marasmi alla fine fa piegare le gambe. La sezione ritmica è uno stupore continuo: il gruppo sembra avere decenni alle spalle, con mosse strategiche che allineano i pianeti della bellezza con quelli della ricchezza. Quasi silenziosa, e, quando fragorosa, sa concedere sempre l’illusione che quel temporale sonoro si arresterà presto. Sanno dipingere, disegnare, stampare, fotografare le possibilità di sviluppi non desiderati, per sconfiggere la previdibilità. Ed è proprio qui che Olympian svetta, si distacca dai colleghi e se ne va, in un salotto con la moquette per fruire di tazze di assenzio e whiskey, senza nessuna preoccupazione nel suo polso. Sciabolate, abbracci, carezze e poi lei, la regina dell’album: l’intensità, a prescindere. Nulla è effimero, leggero, destinato a scomparire in queste undici composizioni, in un patto dove viene garantita la memoria, la conservazione di questi semi odoranti di sacralità e di scomodità a cui non si nega il consenso di vivere nel perimetro del proprio battito…
Osservando le uscite di quell’anno, ci si rende conto di come nulla poteva far presagire il successo della band: canzoni come queste sono adatte ad anime inquiete, dolci sino a quando il sole smette di rovesciare calore sulla pelle, a cuori che indagando perdono la sicurezza, a menti che provano sempre il desiderio di concedersi il lusso di esitazioni e confusioni. E poi non manca quella delicata propensione a emarginare gli altri: di questi testi è difficile discutere, in quanto si è vinti, sin dall’inizio, da una sorta di preoccupazione nei confronti degli abitanti della nave, per non parlare del timoniere, che spesso sembra gettare le parole sotto la pelle delle onde per crocifiggerle nella più crudele immediatezza.
Prendiamo l’ancora, il salvagente e salpiamo. Undici onde attendono di essere vissute senza paura…
Song by Song
1 - Haunted By You
Quando si parte, lo si fa con decisione, con ritmo, con quella forza che regala entusiasmo e vigore. Abbiamo subito le coordinate del viaggio: corteggiare l’impero del mistero, fluttuare tra parole che sembrano sberle relegate nel buio della cantina del nostro cuore. La ricerca melodica è pregna del nerbo corrosivo della chitarra, del basso che pare fratello gemello di una dinamite educata a esplodere con morbidezza, e la batteria che trascina si prende la canzone sulle spalle e la conduce nel bel mezzo dell’oceano…
Il rock si toglie le paillettes, le unghie dipinte di stupidità e si tramuta in un serpente che bacia i primi anni Settanta, quelli della sponda americana, con le note acute e graffianti della chitarra.
2 - Your Love, It Lies
La magia è una prostituta che si stende spesso nella ingenuità dei talenti inconsapevoli. Il brano è un gioco di luci e umori, di scorribande e di diverse frenate: la melodia conosce diverse possibilità e riesce a salire al cospetto dei fulmini, facendo piangere ogni sogno. Il blues che Steve accenna è un miracolo intimo che viene subito spodestato da una irruenza gravida di necessità, in un matrimonio angelico che permette agli stacchi di batteria di salire in cattedra. La voce di Martin è un nastro che soffoca l’inutilità, e lo fa con fermezza e un lieve vibrato nel registro basso, per un risultato che è un grido di Munch senza tempo, senza aver alcun bisogno di spalancare la bocca…
3 - Truth, Rest Your Head
Ecco cosa mancava alla musica inglese: l’incanto che risiede tra onde melodiche in cerca di uno schianto, di una carica elettrica che segua una serie di morbidezze ammassate. Come per i primi due brani, pure questo utilizza lo stratagemma del dualismo, della diversificazione, di facce che ruotano dentro l’anima promiscua di soluzioni effervescenti. La voce è un cilindro romantico, le parole molto meno, e in questa convivenza nulla appare forzato perché la struttura, di matrice Alternative, finisce in un jingle-jungle perfetto, nel quale gli anni Sessanta della Swingin London tornano nel pieno della loro decadente lucentezza…
4 - A Car That Sped
Si piange, in educata lentezza, su questo oceano con le mani tremanti: A Car That Sped è una scudisciata, una fluorescenza improvvisa che piega la notte e imbavaglia la voglia di vivere. Tutta la tradizione delle strade di Marble Arch sembra darsi appuntamento in questo racconto poetico, nevrotico, un condensato di erba gramigna (la chitarra di Steve è un graffio che stordisce il cuore) che sembra tagliarci fuori da ogni possibilità di trovare il fazzoletto di seta asciutto. Il piano all’inizio e il synth alla fine sono gli interruttori logistici di questo apparato per lo stordimento, dove il ritmo, il clap-handing, i giochi degli effetti degli strumenti sono come l’impasto che deve lievitare…
5 - Left-Handed
I New York Dolls cercano nipoti e li trovano: come una scossa del cielo, nella parte iniziale del brano, tutto sembra indicarci che i quattro sappiano come rovesciare del petrolio nei loro movimenti e attitudini. Ma poi vira, come una scalata inevitabile, verso i territori dove loro possono dimostrare che la coesione, l'architettura sonora deve avere sempre la meglio.Abbiamo la limpida sensazione che questo gioiello pieno di nevrosi sia solo l’anticipo di un futuro che verrà…
6 - London, Can You Wait
Eccolo il passato (evidente sin dalle parole desuete scelte da Martin) proseguire in questi tocchi delicati, in un'atmosfera grigia che cerca il sole e che invece ne perderà subito le tracce, perché ruota intorno al mistero, al buio, a una richiesta che non sarà esaudita.
Quando si giunge al ritornello la progressione degli accordi e la splendida sporcizia di semi-distorsioni diventano una stretta al collo che uccide il sogno, per far morire ogni indirizzo nella perdita fisica inevitabile…
7 - To The City
Cavi ad alta tensione ci sbattono in faccia un'urgenza che pilota lo stupore verso i canali di una modalità imprevista: legare il fragore degli Who, dei Kings, dei Jam più arrabbiati, per arrivare a far tremare quella solidità che sino a qui avevamo riscontrato. Il brano vive di piccole zone di pacatezza, ma poi, quando il basso, la batteria e la chitarra decidono di essere un treno, risulta evidente che nulla può essere fermato.
Senza dimenticare un finale che odora di una band che non dovrebbe mai essere citata a caso…
8 - Still Can’t Find The Phone
Immaginereste mai questa band capace di mostrare raggi di luce, di finanziare i sogni del ritorno dei clamorosi corridoi musicali degli anni Sessanta? Ecco un nuovo trattato di non belligeranza, usando la cortesia di pennellate, sia con la chitarra che con la batteria, per poi concedersi qualche chilo elettrico, ma senza mai esagerare. È poesia con il ritmo, con la voglia di assaggiare la capacità di arrangiamenti che qui sono mostrati con leggeri tocchi di pianoforte…
9 - Sleep Well Tonight
Questo secondo lato è gravido di sorprese, si abbattono cliché, si dipinge la storia con eleganza e distorsioni accennate, per portare la fase onirica a contatto con galassie più gentili della realtà. La penna di Martin qui invade ogni corsia, non la si può paragonare a nessuno, e sfreccia sul foglio dove il dolore e la tensione diventano gemelli di un parto in cui la poesia regna nel suo respiro dormiente. E l’organo regala quella sacralità che ogni sogno deve avere…
10 - Olympian
La vita muore, il battito è un ricordo lontano, che appartiene agli altri, e il bisogno di Rossiter diventa una richiesta che cede, sui tasti bianchi del pianoforte, sul basso pulsante quasi con timidezza, per poi trovare attraverso la chitarra di Steve, una zona dove far atterrare ogni frustrazione. Notturno, epico, lento, sognante, in realtà questo brano è la stufa che riscalda ogni tentativo di dare alla musica l’estrema unzione, in quanto l’armonia e la melodia sono sposi che escono di casa per giocare a carte con il ritmo, secco e teso…
11 - We’ll Find Our Own Way
La magia è uno sgarbo, nelle mani dei Gene, che decidono di terminare questo album di esordio con una palma piena di vento in caduta lenta dentro la Swinging London, per farci sentire la nostalgia del tempo, delle pulsioni, e per farlo gioca sui cambi ritmo, su una impalcatura classica dove l’iniziale chitarra acustica trova, lungo il percorso, compagni di chiacchiere e vapori, una dolce tensione che conosce l’implosione, per sconfinare dentro un’attitudine blues pur avendo invece atomi psichedelici più evidenti, ma sempre nel contesto di una canzone pop che mostra con fierezza la sua fragilità.
Sembra che Martin voglia concedersi metri e metri di positività ma, come ben constateremo, saranno sconfitti presto da una evidente depressione che renderà i suoi versi degli splendidi cimiteri…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
21 Maggio 2024
Martin Rossiter - Vocals, Keyboards
Matt James - Drums
Kevin Miles - Bass
Steve Mason - Guitars
Phil Vinal - Producer
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.