giovedì 27 ottobre 2022

La mia Recensione: Alice Cooper - Love It to Death

 

La mia Recensione:


Alice Cooper - Love It to Death


Bettie David e Anita Pallenberg.

Dee degli anni 60 che hanno fecondato bellezza e importanza, gravitando nei pruriti fisici e mentali di uomini in cerca di ossessioni.

Poteva mancare di fare lo stesso Vincent Furnier, da Detroit, anima nascosta dal credo cattolico genitoriale? Certamente no!

Come una lumaca che sale su uno skateboard, il ragazzo baldanzoso forma un gruppo e scrive singoli, cerca attenzioni dando in cambio stratagemmi visivi uniti a percorsi mentali demenziali, farciti di bolle di pazzia ad alto voltaggio.

Crea la band Alice Cooper e fa di tutto per disintegrare il talento con dischi confusi e approssimativi, seppur macchiati qua e là già di  bellezza e di vibrazioni metalliche. Questo vale per i primi due lavori.

Poi Frank Zappa vende la sua Label alla Warner e tutto cambia per la formazione Statunitense. C’è bisogno di chiarezza, disciplina, di quella incisività mancante ma che con un buon lavoro può essere ottenuta. Arriva un musicista, arrangiatore, giovane e inesperto alla produzione, il cui impegno (non privo di scazzi e tensione) darà però al terzo album una forma e un valore immensi.

Bob Ezrin è colui che sfiora il vaso Alice Cooper e il serpente che esce questa volta, seppur addomesticabile, si rivela velenoso e letale, stravolgendo la sfera musicale per creare uno spartiacque che risulterà decisivo.

Arriva Love It to Death e finzione, realtà, mistero, crudeltà e una forte immaginazione daranno al rock dell’epoca una lezione, sapendo succhiare linfa contemporanea per ampliarla e inocularla in quella scena rock americana così desiderosa di un passo avanti.

Eccoci: Glam Rock, Psichedelia, semi Garage, presi e liofilizzati, dentro papà Rock che mette su muscoli, adrenalina, entrando a teatro e al cinema con cambi di abito, una scrittura che rispolvera la poetica decadente ma alla quale viene data una sferzata con i fervori giovanili. Si crea uno shock totale che accerchia i fianchi mentali di persone consumate dagli abusi ma senza più coscienza.

Vincent non ci sta e coinvolge i membri nella scrittura dei brani (metà saranno totalmente suoi, gli altri dei 4 funamboli) più una cover meravigliosa.

Manicomi, insicurezze, favole gotiche col trucco sbavato e colante, grumi di terrore: tutto compattato per portare in scena non il disagio bensì una presenza che desidera acculturare, diversificare e ampliare il raggio di azione della potenzialità delle giovani leve che vogliono fare qualcosa di più decisivo.

Gli Alice Cooper scavano nel torbido e trovano uno scettro dal quale escono raggi che sprigionano paura ma soprattutto curiosità e senso di novità più che mai necessario.

E qui la maestria di Bob si rivela la mappa del tesoro e non il tesoro stesso: lui indica le coordinate per trovarlo e disciplina la truppa di pirati musicali verso il target, che viene raggiunto pienamente.

La voce è una Toxicodendron radicans (edera velenosa) che graffia le nostre orecchie per creare ferite, come ugualmente fanno le chitarre: un modo selvaggio di assestarsi e di poter dominare, senza rinunciare a una forma estetica che conosce eleganza e dolcezza.

Ma saranno semi che si allargheranno dentro il tempo che verrà e che li consacrerà come tra i più validi e importanti maestri non solo di generi musicali, bensì di attitudini.

Su queste corde vocali le melodie sono più ordinate e coordinate rispetto al passato: tutto ne beneficia e lo spettro allarga il suo macabro sorriso all’interno di un meccanismo perfettamente oliato con erbe magiche che si rivolgono agli spiriti del ventre terrestre.

La vita diventa un pretesto per oscenità da nascondere con la pia illusione che la musica sia un messia, un viandante che insegna la forza del sole.

Si percepisce invece il contrario: le divagazioni e le dilatazioni degli anni 60 qui sono un piccolo riflesso che viene tramortito per essere schiacciato da una veemenza espressiva che tende a fagocitare l’inesplorato. 

Prendi i Doors, gli Stones più sfrenati e ti sembreranno poppanti al confronto: l’età adulta incomincia con il constatare che non si può scegliere ma inondare ogni particella frustandola, facendola sanguinare per finire con il regalarla.

Strafottenza ma anche gusto artistico convivono, perché la polvere che esce dagli amplificatori va dritta nelle narici della mente, come un complotto ordito da chi non si può discutere, per renderci passionali a nostra volta, ebbri di sregolatezza ed euforia.

Un album che anticipa generi musicali, fotte il passato mostrandosi superiore e un nuovo modus operandi viene conosciuto ed esplorato per contaminare luoghi comuni e ascolti ormai a rischio di essere démodé.

Si entra come serpenti assatanati nel fiume delle droghe, deglutendo liquidi fangosi, quintali di sesso scrutandone le devianze, e altri argomenti che giocano contro la mentalità benpensante che li definisce tabù.

I quali, invece, per Vincent sono pane quotidiano, un alimento che fagocita e di cui, siamo certi, nell’album trovano posto solo le briciole, in quanto sarà nella dimensione Live che tutto troverà l’ampiezza, rivelando in toto dimensioni enormi.

Non più patologia ma uno stato d’essere, legittimato da una volontà forte come un credo biblico.

C’era da sostituire il power flower, non più credibile, sostenibile, incapace di determinare comunione e pacificazione. Lo scenario era cambiato e Vincent lo sapeva bene, perché crea uno spirito umoristico notevole e si addentra con intelligenza, in lirismi oscuri e nella volontà di non essere asservito all’establishment che invece formava soldatini ubbidienti, con escamotage che parevano dare libertà.

Quella che invece gli Alice Cooper realizzarono con sapienza, dinamicità e spruzzi di cattiveria che approdavano alla derisione di alcune forme di potere. Bisognava parlare alla giovane generazione con inni rock, con immediatezza e senza rimbambire i cervelli di sostanze dal potere anestetizzante. La musica come trampolino di lancio di nuove psicosi, chiaramente liberate da ogni pastoia mentale. Tutto questo vive nei solchi di un album che a 51 anni mostra ciò che ha generato con grande orgoglio.

La sfacciataggine dei riff è eloquente, programmata, finendo per inoltrarsi nei bisogni di semplicità che il rock stava perdendo. Il combo ritmico, asfissiante e poderoso, conferma l’intenzione che la musica, affinché possiamo subirne il fascino e diventarne dipendenti, debba partire dai brividi, dall’immediatezza che fa scattare i corpi in piedi e correre e danzare come cavallette senza ordini precisi di lavoro. La musica contenuta in queste nove tracce sarà educativa malgrado ossessioni e maleducazioni evidenti, perché un nuovo linguaggio doveva produrre l’omicidio del già noto. Nessuno inventa nulla, nella totalità del termine, ma sicuramente qui si trovano miniere evidenti di nuovi metalli, diamanti e oro da estrarre e da mostrare per creare un nuovo principio di appartenenza. Il futuro, grazie a questo album, diventa l’improvviso parto che genera una creatura che trucca il senso della vita, sconquassa, illumina e sin da subito schernisce la realtà con stilettate seminascoste. Non più canzoni di protesta, di rifugio psichico, di benessere perché assenti da ciò che crea disagi, bensì l’universo dell’incerto che ha nuovi nomi e cognomi da studiare, da capire, nuove eccentricità da far spostare, nuovi sensi da scoprire.

Musica come omicidio del conformismo, elemento patogeno da indossare con fierezza per sconfiggere il senso di salute che, attraverso il capitalismo, aveva affossato anche i musicisti, sicuramente vittime dell’industria musicale così devota alla forme di controllo. 

Troviamo quindi una galoppata di cliché usati per essere derisi, ammirati, lasciati in un angolo, adorati e odorati, in una giostra contraddittoria che affascina e porta allo stordimento, facendo in modo che alla fine dell’ascolto ciò che avrà generato sarà stupefacente e nutriente. Si sentiranno riferimenti parziali, diretti (David Bowie su tutti, in un paio di episodi), Jimi Hendrix, la psichedelia inglese delle vie eleganti dei quartieri chic di Londra e tutto il caos statunitense che, mettendosi un mantello e appesantendo un pò il corpo di ferraglia, si trascina con leggiadria fra ritmi sostenuti, ballads ipnotiche e divagazioni che risultano in questo trambusto sonoro perfettamente sensati.

Geniale nella sua esagerata energia, nei suoi fiumi fumosi degli anni 30 a cui sono stati tolti polvere e grasso, ecco che Love It to Death è un capolavoro ineccepibile di cui oggi pare difficile capire il senso. Ma molto proviene proprio da queste canzoni, dai suoi autori, da quel produttore e dal fato musicale che concede sempre spazio alla ricchezza, sotto forma di una genialità senza tempo…


Song by Song


1 Caught in a Dream


È un Glam che sembra essere pulito, ma che contiene croste maligne al suo interno, mentre viaggia spedito nei suoi riff brevi e precisi. La forma Rock nella sua veste più semplice, apparentemente, ma preparatoria per il suo proseguo. Trova motivo della sua presenza un solo di chitarra che regala adrenalina e melodia per un brano che diverte e fa riflettere.


2 I’m Eighteen


La traccia che spalanca il successo è costruita su un arpeggio accattivante, una chitarra solista bella in modo osceno e il cantato di Vincent che farà nascere imitazioni a non finire. Accordi Power sul ritornello creano la semplice unione tra esaltazione e liriche critiche di un mondo adulto che genera sconquassi. Una rullata di batteria sul finale e la tastiera di Michael Bruce concludono un vero e proprio inno ipnotico, ma con le stigmate di un brano vivace.


3 Long Way to Go


Se rallenti Ziggy Stardust di David Bowie nei primi secondi, ti pare di immaginare il Duca Bianco vestito di nero. Ma quella canzone nacque dopo questa. Andiamo avanti e vediamo i prodromi di un futuro che sta nascendo dentro queste note, tra il rock ’n roll incatramato e i trucchi ritmici del Glam, che sanno utilizzare un piano ritmico su chitarre piene di pioggia pesante.


4 Black Juju


Si entra in una processione con i sensi pitturati di catastrofe, tra psichedelica propensione a seguire i Black sabbath dell’album di esordio e il teatro che scompone il tutto per generare una piacevole confusione. Poi i Doors fanno capolino, ma il cantato qui è lontano da quello di Jim Morrison. Piuttosto: tutto pare intenzionato a generare timori, paure, in un viaggio lavico dove il basso scivola con agilità sul manico mentre il drum continua il suo lavoro tribale. La chitarra pizzica le corde come in un viaggio nella parte nord-orientale dell’Africa. Poi Vincent prende la modalità vocale di Jim e battezza un crooning nero e perfetto.


5 Is It My Body


La dolcezza vive nella modalità del canto iniziale (pur sempre insanguinato), per poi trovare prototipi hard Rock che prendono ritmo e robustezza per scivolate sonore dove tutto è perfettamente connesso grazie al lavoro di Bob Ezrin, nel raggiungimento evidente di un piano conoscitivo che esalta e comprime, attraverso la perfetta sincronia tra chitarra e basso, che permettono ascesa e discese, mantenendo elevato il senso di seduzione.


6 Hallowed Be My Name


Ennesimo capolavoro di sintesi dalla propensione futura: fraseggi Hard-Rock lasciano spazio a dettami psichedelici chirurgici, per una composizione che pare seguire i fumi dei Deep Purple e dove il contagio dei generi può favorire un divertissement inaspettato ma geniale. Per brevi secondi (dal quarantesimo al quarantacinquesimo) sentiremo in anticipo una chitarra amata poi molto dai Sex Pistols e da molte punk band. Ma sono i 60’s i genitori della strofa, mentre il bridge è pura follia del gruppo che registrò l’album a Chicago. Brano essenziale per capire la drammaturgia e il filone di questi cinque cavalieri del gioco d’azzardo


7 Second Coming


È il cabaret che apre lo scenario del pezzo per poi proseguire su chitarre graffianti e stacchi continui di batteria, come un veleno che segue ordini di uccisione, cercando e trovando uno stile che si rivela essere piacevole almeno alla vista… Palestra per il futuro da solista di Vincent, la canzone conosce attimi di approcci alla musica classica (sempre Bob…), per fare di questo brano un capolavoro assoluto, spesso incompreso. E il colpo di teatro finale della voce del bambino alla ricerca del padre è davvero esaustivo per definire la fiumana inventiva.


8 Ballad of Dwight Fry


Bela Lugosi (dal film Dracula del 1931), attraverso il suo schiavo Dwight Frye, entra nell’album e non poteva mancare per il brano più suggestivo. Una lacrima che si schianta in un dialogo, dove frustrazione, rabbia e tristezza consentono a Vincent una interpretazione strabiliante, tra chitarre e la trovata di una tastiera che paralizza, come se fosse giunta improvvisamente, per far detonare completamente il brano. La voce, beffarda, secca, graffiante (caro Stiv Bators so quanto hai amato l’artista di Detroit), nuota nei circuiti chitarristici per poter volare rancida e scostumata.

L’indefinito viaggia nel mistero e qui ne troviamo il perfetto esempio.


9 Sun Arise


Bisognava trovare un contrasto per l’atmosfera di questo album e la canzone giusta non era annoverata tra le proprie della band. Ecco in aiuto quella splendida di Rolf Harris, per l’ennesimo colpo di teatro. Realizzata dieci anni prima dall’autore Australiano, i cinque trovano una forma ludica efficace e fenomenale, per scintillii nevrotici di chitarre su un gran lavoro ritmico del duo basso-batteria e la voce di Vincent che si alleggerisce e mostra ottime capacità nel volare su una melodia allegra e scanzonata.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/6p7jHbG5Bd6z2JgfKx0um7?si=C-HPda24SwmKZUFoElMTig






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