giovedì 8 settembre 2022

La mia Recensione: Portishead - Dummy

 La mia recensione 


Portishead - Dummy


La maternità: un mistero assoluto, malgrado di tempo se ne abbia avuto moltissimo per studiarla.

Un processo che forse ben presto ha smesso di avere forza perché davanti all’immensità si è sconfitti in partenza.

Così accade anche per certi fenomeni che hanno a che fare con l’arte della musica.

E nello specifico con alcuni album, che rimangono assolutamente capaci di non svelare tutta la propria identità.

Si è parlato di scena di Bristol e del Trip-Hop, si sono fatti collegamenti, ipotesi, comparazioni.

Ma non vi è dubbio che l’album dei Portishead sia proprio una madre, la scintilla di un molto, l’apoteosi di miscele musicali che comprendono il fare compulsivo della Techno, la seduzione del Jazz, le nebbie di un Postpunk quasi timido, la leggerezza del Lounge, la veemenza dell’hip-hop, la dolcezza del Soul migliore, il Blues con la maschera e molto ancora che, appunto, non si può spiegare.

Ma rimane la certezza che con il suo ascolto viviamo l’unicità, diventiamo partecipi di un evento che, quasi a fine millennio, ha visto per la registrazione del loro esordio discografico l’utilizzo delle migliori tecnologie, conferendogli ancora di più lo status di un album seminale.

Quello che poi, più o meno in modo corretto, è stato definito trip-hop, è stato il genere musicale che ha saputo sostituire nell’attenzione di molti il fenomeno grunge che aveva, rispetto a quello di Bristol e dintorni, i giorni contati, per una minor capacità di evolversi.

Parlando di questo album rimane inalterata la convinzione che la sua peculiarità più grande sia il suono, sempre moderno ed efficace, capace  di insidiare i graffi del tempo.

E poi le atmosfere: tutte le band che ne sono rimaste folgorate hanno vanamente cercato di riprodurle.

Una magia che contamina e fa arrendere.

Riesce a diventare facilmente “adoperabile” per molti usi, dall’ascolto approfondito, a colonna sonora di un viaggio, all’intimità di un momento d’amore, come mezzo per una ricerca spirituale, per divenire facilmente una colonna visiva di immagini infinite.

Loro hanno deciso di prendere la bellezza del suono analogico utilizzando il sistema dello scratch dei vinili, buttando spruzzi di Hammond per scaldarci il cuore, il theremin che incanta, facendo girare accordi di chitarre che evocano le colonne sonore di Morricone, sapendo anche inserire sezioni di archi capaci di far stendere sul letto i sogni, conferendo al tutto un tappeto di romanticismo avvincente, convincente, dove non c’è spazio per la freddezza e la rigidità.

Un lavoro che scalda la mente ancora prima che il cuore.

Al suono è conferito il ruolo di essere un sibilo addomesticabile, di condurre all’estasi e al senso di una concezione nuova della potenza.

I ritmi, spesso sincopati e ribelli, conoscono la perfezione di uno stop and go che con l’elettronica è capace di affascinare per le nuove possibilità che offre.

C’è un senso di un lunghissimo abbraccio temporale che tiene saldo il sodalizio tra il passato ed il presente, quel presente del 1994 che sarà eterno, destinato a non conoscere invecchiamento.

Ascoltarlo è ipnosi beata e benvoluta, come entrare senza paura nella macchina del tempo inventando il futuro.

Di Bristol erano anche i The Pop Group che seppero già negli anni 70 coniugare le differenze stilistiche dell’Europa e degli Stati Uniti con giochi di prestigio per dare alla musica nuove possibilità, nuovi slanci, nuove trame.

È da quel Dna cittadino che i Portishead hanno attinto per rifare quel gioco, per manifestare ancora la medesima necessità con nuove carte, approdando a determinare la possibilità di considerare che la musica poteva nuovamente trarre giovamento da tutto questo.

Dummy è la Bibbia, la coscienza del nuovo che sa esercitare fascino, il passo di danza che con nuovi ballerini prima confonde gli occhi e poi li rende estasiati.

Ed è un pozzo infinito di richiami e di innovazioni, un respiro di 49 minuti che ora andrò a visitare, sapendo in anticipo che per l’ennesima volta non saprò capire la sua profondità, ma che in regalo (perché è un album molto molto generoso) mi donerà il suo ossigeno rendendo felici i polmoni dei miei battiti…

Ma non è finita qui: per ultima cosa dobbiamo saperci inchinare a Beth Gibbons, che come un angelo timido, da questo lavoro ha compiuto regolarmente scorribande dentro il nostro stupore, con un range espressivo che attraversa generi diversi, esaltandoli e migliorandoli, con una classe che diventa la luce su cui hanno trovato suggestione  non solo centinaia di interpreti femminili, ma anche decine e decine di cantanti maschili.

La sua modalità espressiva è una calamita: capace di attirare antiche muse, lei le ha rielaborate rivelando che la sensualità nel canto non aveva forse mai raggiunto queste vette.

Tutti i sentimenti che conosciamo gravitano nella sua gola, nel suo diaframma che esplode lentamente dentro di noi.

Assolutamente una regina senza epoca che ha inchiodato il tempo per renderlo migliore.

Ora mi butto dentro gli undici brani con i brividi che già saltano dalla gioia…


Canzone per canzone


Mysterons 


Il viaggio inizia con la tensione malinconica che si appiccica subito con il rullante della batteria e da un basso tenebroso aI quale la chitarra si aggiunge come accenno laterale per consentire al cantato di esaltare la sua voce malinconica.

Ed è subito catarsi per chi ascolta: nei secondi di questo brano si accende la fede nella bellezza e nella paura che echeggiano come dune che trasportano la sabbia di notte. La musica si sente, e non si vede, ma ci trascina dentro immagini che sono nel chiuso delle nostre pupille.

Maestosa.


Sour Times


Il ritmo si alza, il cantato accelera ma sembra aspirare dentro di sé la miscela vorticosa di strumenti in tensione.

I volumi perfettamente centrati consentono a tutti di trovare il loro momento di gloria. È tutto si fa luce, come il misterioso quadro L’Isola dei Morti di Arnold Böcklin: un’onda blu che si associa al verde e al giallo per rendere le pupille un’antenna ricevente senza sosta. Tutto nel brano è un perfetto mix di sensualità dove il tempo vivacemente mostra la sua stanchezza.


Strangers


Canzone come monitor: ci mette a conoscenza dei nostri battiti in una Harlem degli anni trenta imbevuta di jazz e swing. Che afferra il tempo e compie un balzo notevole sino a considerare gli anni 90 salutando i Massive Attack di Lines del 1991.

Nei tre minuti e cinquantotto secondi si è come centrifugati da un mantra che sa essere messo a tacere dalla voce di Beth. Poi tutto riprende fiato e ritmo, dando alla canzone il ruolo di elettrificare il fianco sensuale dell’ugola: Beth sa calibrare i nervi trovando una linea musicale che ci riporta negli USA di Sarah Vaughan, e tutto diventa poesia, moderna e credibile.


It could be sweet


Una fiaba, una musica che sembra costruita per essere tale sino a quando pare scomparire davanti alla voce. Beth interpreta modificando l’interpretazione, le tonalità sembrano ventagli che spazzano via il calore delle emozioni per spostarle, tutte dentro il cuore.

Velocemente si entra dentro le creature notturne fumose degli anni 60 del Northern Soul, non dimenticando la fase sperimentale del jazz, ma poi tutto viene assemblato da quel cantato che sembra sorpassare ogni tentativo di concentrarsi nell’ascolto della musica.

Che però è clamorosa: riesce nella sua complessità a permettere al cantato di essere un soprano dolcissimo, mentre la malinconia si presenta truccata, per accoglierci tutti.


Wandering Star


Si danza, ognuno con la sensualità che gli compete, ognuno trascinato dal basso che scava imperterrito, Beth che con questo brano influenzerà anche la Björk più adulta.

Un battito del cuore con la spina elettrica per accendere le tenebre e permettere un incontro fatto di sensi che si annusano.

Lentamente, avviene la crescita che si rende evidente da piccolissimi frammenti che si aggiungono donando un arrangiamento di pura classe.

Gli strumenti sono elettrodi scordati in incroci e sovrapposizioni che conferiscono al brano una continua serie di sorprese.


It’s a fire


Cosa sono i Portishead se non un guardaroba perfetto che a seconda dell’occasione ci offrono i giusti abiti musicali? Su un organo che rende morbida l’aria, il ritmo sincopato si accosta alla sensazione di sacralità sino a giungere agli archi che come una veloce  comparsa semina bellezza anche se solo per pochi secondi.

Beth mette i guanti nella sua ugola per approcciarsi al fuoco e sedurlo sino a farlo spegnere. 

Incendiando però le nostre lacrime intense e veraci. 

Ogni armonia raggiunge l’Everest e la canzone diventa una bandiera di raso che si appoggia sul nostro cuore sognante.


Numb


Brano che è una pellicola, un film che da muto diventa sonoro, con una storia che ha la capacità di sedurre, di incantare attraverso il bisturi vivace, delizioso, quasi tremante della voce di Beth che qui porta la sua abilità interpretativa oltre le stelle.

Piccole sciabolate di suono, sul drumming polveroso: tutto sembra lontano, inavvicinabile, con Beth che prende appunti da Sinéad O’Connor per poi ammaliare con il suo respiro, i suoi denti che mordono le parole senza ferirle.

Tutto assomiglia ad una frustata addomesticata dove gli strumenti, pochi ma intensi sino allo sfinimento, confondono decenni di sperimentazione sino a creare un nuovo approccio minimalista.


Roads


Forse qui potremmo decidere di desiderare l’infarto, di congedarci e di chiudere le persiane.

Perché costa tanta fatica trovarsi di fronte ad un capolavoro, indiscutibile, così evidente che ci consegna un sentimento pregno di vergogna: non siamo degni di così tanta bellezza. La perfezione che si mostra e avanza per avvolgerci in un ascolto sconvolgente.

Tutto è un silenzio sacro che adopera gli archi per sedarci; un basso tondo che sembra il mondo, la batteria che per una volta opta per una semplicità non preventivata dati i precedenti brani.

Nell’essenzialità sonora, che è una sala di mille candele spente, Beth diventa la Regina, senza dubbi, senza ma: il suo regno incomincia con l’ingresso al cinquantaduesimo secondo e già siamo suoi sudditi felicemente ubbidienti.

La sua voce è il dramma della solitudine di Marylin, la forza di Diamanda Galas nel nascondere l’inspirazione, mentre il suo canto diviene una lacrima di ghiaccio all’equatore.

E noi con lei.

La chitarra non si agita, si concede un leggero riverbero ed eco, una nota e basta, chè non vi è nulla da aggiungere alla perfezione.


Pedestal


Il talento di Geoff Barrow è innegabilmente riconoscibile per tutto l’album, ed in questo brano probabilmente si fa più evidente: la canzone offre tutta la sua debordante classe attraverso un fare misterioso con le sue programmazioni che mette in risalto l’amore per gli anni 30 come se fosse la colonna sonora di un film giallo, offrendo ad Andy Hague la possibilità di stravolgerci con la tromba epilettica e raffinata, per lasciare una patina sulla nostra pelle che profuma di un temporale ammaestrato.

Su Beth meglio tacere: si è increduli e probabilmente oltre ad arrendersi non si può fare nulla…


Biscuit


Ci vuole un amore smisurato ed una capacità enorme per poter unire una propria composizione con il perfetto timing per inserire campionamenti di Burt Bacharach e Hal David e la loro I'll Never Fall in Love Again.

Alla fine però il brano non suggerisce nulla che si avvicini al musical di “Promises, Promises” bensì un territorio desertico su cui si è montato un palco con il piano di Geoff Barrow libero di incantare la sabbia con i suoi movimenti brevi ma efficaci e sui quali il cantato di Beth sembra una preghiera notturna.


Glory Box


Un album meraviglioso può arrivare alla perfezione? Certo!

Prendiamo la canzone che conclude l’esordio dei Portishead e potremmo affermarlo senza timori.

Adrian Utley conferma tutte le sue capacità dando alla sua chitarra l’abilità di farla divenire un diamante bagnato nell’acido, una bolla nervosa con un arpeggio che circonda il respiro ed un Hammond che spiazza e ci porta nella Francia semi sconosciuta.

E Beth diventa un’attrice da premio Oscar: la sua interpretazione non è umana, siamo inginocchiati davanti a questa Dea che con il suo cantato trasforma i sentimenti in una processione di talento che lasciano il suolo terrestre, voce come l’argomento preferito degli angeli, il suo tremore aspirato, con un cantato che sa divenire nasale, quasi robotico ma al contempo contenitore di una dolcezza spaventosa e disarmante.

Quando un brano isola il mondo dal caos per crearne uno suo per ipnotizzarci notte giorno ecco allora che diventa una guida per ogni luogo della nostra sentire.

Di spaventosa bellezza.


Conclusione: la droga migliore è quella che sgombra la violenza per dar spazio alla bellezza e Dummy lo è, non importa come la si consumi, perché alla fine entra totalmente in noi…


Alex Dematteis

Musicshockworld- We love music

10 Febbraio 2022





https://music.apple.com/gb/album/dummy/1440653096


https://open.spotify.com/album/3539EbNgIdEDGBKkUf4wno?si=vwhnh1KuSByKXCd9x90THw

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