mercoledì 16 febbraio 2022

La mia recensione: Current93 - Halo

 La mia recensione


Current 93 - Halo

Live at Queen Elizabeth Hall, London


“Even Death is better than this useless life”


Una sera a teatro, dove il palco, poco illuminato, mano a mano che lo spettacolo avanza, sembra sprofondare nelle viscere di un pianeta troppo sofferente per poter sostenere sentimenti diversi che non abbiano una corda al collo.

Perché non vi è dubbio alcuno che con i Current93 si vada sempre e comunque a Teatro.

Per questo concerto ne hanno scelto uno vero e la scaletta ha confermato  che i 16 atti sono stati prodighi di intensità, dove la trama è stata espletata perfettamente finendo per ingombrare i pensieri, scuotere i nervi, agitare i muscoli seppur non stimolati da delle danze.

La nebbia della civiltà circonda le nostre paure nell’ascolto di queste canzoni, piume sporche di petrolio si appiccicano sempre di più durante questa fiumana esoterica  nella quale non appare una luce, se non la bellezza dell ‘autenticità che il Monsignor Tibet e i suoi discepoli musicanti distribuiscono in questa tragedia.

Un concerto che diventa il percorso artistico di una band che ha sempre avuto poca considerazione, però sempre capace di mantenere saldo l’equilibrio dei suoi forzieri.

Brani come preghiere, con aghi e spine in un involucro sanguigno dove i grumi sono una benedizione e non una maledizione.  

Note musicali come strida continue e con la coda fatta di tremori che impauriscono. Come se il Teatro insegnasse ai film horror come si fa a creare paure senza fine.

Ascoltando questo concerto potresti chiederti come stanno i confini del tempo, come si è arrivati a perdere le energie essenziali. Davvero si entra nel tempio del dolore, non quello accartocciato delle lamiere dei Christian Death, bensì uno più raffinato e sottile.

Tutta la fila nevrotica dei sentimenti più cupi si appiccica alle canzoni, con la sensazione dominante che l’inquietudine sia la vera regina del palco, che scricchiola seppure non manchino atomi di dolcezza e incanto.

Decadenza, battaglie medievali, sonorità gonfie di vibrazioni tenui, la luce tenuta nella gola di una candela sempre più stanca e opaca: questo e altro fermenta nella botte nella quale i brani ci fanno prendere spazio.

David Tibet organizza tutto come se fosse l’ultima replica: sentiamo la sua tensione e, per come certi brani vengono modificati rispetto alle versioni sugli album e per la sua interpretazione recitativa e carica di graffi, non si può che ringraziarlo per averci offerto uno spettacolo che esalta e va oltre le aspettative.

Con lui, certamente, non si perde tempo a sperare nella presenza di alcune canzoni rispetto ad altre: tutto è un rito, definito, e che si conclude con la nostra fragilità nel fondo della notte…

Tutto si fa sulfureo, quasi diabolico, con la sensazione che un temporale camuffato ci stia colpendo, un inganno che dalle viscere ci afferra le caviglie.

I canti Gregoriani, il cello strepitoso di John Contreras a ingrossare di stupore il ventre e la sensazione di una messa di suoni senza Dio ma più severa del giudizio universale a renderci smarriti diventa sempre più reale.

In tutto questo 4 Hypnagogue 4 è la summa, il tutto che si deposita come incenso negli occhi, la drammaticità di parole che fanno spazio all’introduzione di un pianoforte con il sorriso, poi la chitarra a sostenerla e poi David: il palco diventa un sagrato devastato tra pene, peccati e il buio che attende. E il petto che ricorda, in un incendio del tempo. 

Con, ad esempio, la toccante Sleep Has His House, dedicata a suo padre, David ed il piano sono il respiro di pensieri intensi che grattano l’ugola del Monsignore finendo per trasformarci in testimoni di un umore con le unghie nere.

Semplicemente devastante.

È questa atmosfera che attraversa la nostra anima e la conduce alla resa che ci fa non solo testimoni ma complici di quei territori mentali da cui spesso vogliamo fuggire.

La sontuosa The Death of the Corn, con la sua apertura sul filo del rasoio, il suo attenersi al protocollo primordiale della musica Industriale, per poi divenire una classica ballata neo-folk, è una esperienza da farsi, senza freni.

Non voglio però rendere l’idea che l’ascolto di questo album possa divenire traumatico (non sarebbe poi una tragedia vista la qualità delle considerazioni e delle emozioni che vengono fuori come funghi) perché esiste un piano positivo, una bellezza vestita di bianco che riesce a trovare il suo spazio e a diventare la principessa sorridente che cammina tra note con il cappotto nero ed il bavero alzato: dove esistono connessioni tra estremi esiste ad ogni modo una speranza che pianta la sua bandiera.

Fosse anche sui nostri polmoni.

Non ci resta che ascoltare questo spettacolo perché dal Teatro, quando trionfa la qualità, si torna a casa con il cuore che ha trovato il modo di allargare il suo potenziale emotivo.

E quella voce finale di una bambina in “God is love”, sulla nervosa Locust, dimostra che tutto può continuare con un minimo di speranza…

Ci sono  api che sono instancabili…


Alex Dematteis 

Salford

16 Febbraio 2022





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