martedì 16 luglio 2024

La mia Recensione: Chokeberry - Afterglow


 

Chokeberry - Afterglow


Si dovrebbe, prima o poi, fare un viaggio e visitare San Francisco di notte, piazzare dei radar nei suoi movimenti collinari e intravedere, tra la nebbia, i coriandoli magici e potenti del terzetto che con questa nuova canzone raccoglie eredità pesanti, cavandosela alla grande: un nubifragio di colori, di suoni, di variazioni su una struttura che tende a essere accomodante senza rinunciare alla forza. Una manipolazione estasiante di sospiri shoegaze e tensioni grunge, rese ubbidienti e funzionali ad abbracciare la fantasia, la curiosità e una sperimentazione leggera, sino a culminare nel territorio della dipendenza, per via di una dolcezza regalata da un cantato paradisiaco. Il rock che compatta chitarra voce e basso qui mostra la capacità di spaziare tra le possibilità, di collegarsi a distorsioni e riverberi che solo in apparenza paiono provenire dalla metà degli anni Novanta. Aggiungono, in modo inesorabile, una ricerca sonora che dipinge le pareti sino a terminare in modo quasi acustico per completare un range davvero impressionante di soluzioni. Mentre all’inizio la semplicità sembra la carta vincente, con il passare dei secondi tutta una serie di immissioni stimola l’ascoltatore a scegliere uno strumento, una parte, credendo di vincere la sfida. Però è inutile: è proprio l’insieme dell’evoluzione a certificare il successo di questo brano, un maremoto tra i sogni ed energetiche e energiche movenze che rendono Afterglow un esempio e uno stimolo. Accattivante, sensuale, sognante, libera le tossine all’interno di un abito mentale che consente di fruire di queste sollecitazioni colme di sfere emotive, in una gabbia che, sganciando il suono, lo mette a disposizione di sentimenti che non mancano di rivelarsi.

Se vogliamo vedere le stelle mentre cercano il cibo, ecco, basta scendere nei movimenti di questa gemma e aprirsi in un sorriso: a volte bastano quattro minuti per saziarsi in vigorosa bellezza…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
16 Luglio 2024

My Review: Chokeberry - Afterglow


 Chokeberry - Afterglow


One should, sooner or later, take a trip and visit San Francisco at night, put some radar on its hilly movements and catch a glimpse, amidst the fog, of the magical and powerful confetti of the trio who, with this new song, pick up heavy legacies, doing great: a cloudburst of colours, sounds, variations on a structure that tends to be accommodating without renouncing strength. A rapturous manipulation of shoegaze sighs and grunge tensions, made obedient and functional to embrace imagination, curiosity and light experimentation, culminating in the territory of addiction, due to a sweetness given by a heavenly singing. The rock that compacts guitar, voice and bass here shows the ability to range between possibilities, to connect with distortions and reverberations that only seem to come from the mid-1990s.  


They add, inexorably, a sound research that paints the walls to an almost acoustic end to complete a truly impressive range of solutions. While at first simplicity seems the trump card, as the seconds go by a whole series of entries stimulates the listener to choose an instrument, a part, believing he is winning the challenge. But it is useless: it is the whole of the evolution that certifies the success of this track, a tidal wave of dreams and energetic, energetic movements that make Afterglow an example and a stimulus.   Captivating, sensual, dreamy, it releases toxins within a mental garment that allows one to enjoy these solicitations filled with emotional spheres, in a cage that, by releasing sound, makes it available to feelings that do not fail to reveal themselves.

If we want to see the stars looking for food, all we have to do is descend into the movements of this gem and open up in a smile: sometimes four minutes are enough to be sated in vigorous beauty…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16th July 2024


https://chokecherry4ever.bandcamp.com/track/afterglow

domenica 14 luglio 2024

La mia Recensione: The Cure - Seventeen Seconds


 

The Cure - Seventeen Seconds 


“Il Tempo vola e noi no. Strano sarebbe se noi volassimo e il tempo no, il cielo sarebbe pieno di uomini con l’orologio fermo”.

Alessandro Bergonzoni


L’inverno è un accadimento importante, non una stagione bensì l’insieme di elementi umorali, percettivi, mentali, in una malsana conformazione fisica solo per chi lo teme. Nella musica ha dato modo all’arte di perlustrarne i confini, di nascondere la sua magnitudine, di scherzare con la pochezza della gioia, di scritturare inganni che potessero sostituire la realtà. I dubbi, le indecisioni sembrano mettere radice e fiorire velocemente, per poter convivere, perfettamente, in una situazione tra il drammatico e il comico, con scelte radicali e doverose.

C’è chi, come i Cure, ha chiuso un decennio e ne ha aperto un altro facendo credere che il tempo sia uno scherzo poco serio, non credibile, costringendo chi li ascoltava a scegliere se fosse meglio quel luna park confuso di Three Imaginary Boys (con qualche bella giostra di sicuro) o il cielo ingrigito da sostanze di difficile descrizione e, soprattutto, assimilazione del secondo album.

Seventeen Seconds è l'incubo di una vicissitudine personale del leader della band, mentre fa della sua vita sentimentale lo specchio per i suoi spettri.

Seventeen Seconds è un mare che nasconde le gobbe delle sue onde per rivelare uno stato febbrile che paralizza gli arti ma non i sensi, gettando ogni impeto in uno stato perenne di misura: del tempo, dello spazio, delle catarsi obbligatorie, dei suoni che anticipano la melodia e gli accordi, e della paura, che in questi solchi veste la maschera desueta della sincerità.

Seventeen Seconds è uno stratagemma per nascondere i colori della vita laddove il punk ne aveva garantito l’assoluta mancanza, per sostenere invece, attraverso un impianto malinconico, il diritto di appartarsi. 

Seventeen Seconds visita le possibilità che diversi generi musicali provavano a materializzare, per sfuggire all’incubo della definizione, ossequiando il passato, e per dare al presente un sorriso sghembo.


Il vocabolario e l’enciclopedia della vita viaggiano sempre insieme, non nella musica ed è bene precisarlo. Basterebbe infatti notare, ascoltando il secondo lavoro del gruppo, come le parole e i suoni profumino di antico, ma non riescano a generare qualcosa di davvero nuovo. Lo è invece l’insieme di una prospettiva che indica come il laboratorio delle idee passi solamente attraverso l’uomo di Blackpool e che gli altri membri siano la perfetta manovalanza, gli esecutori di quei limpidi grigiori attitudinali che hanno fatto improvvisamente di un ragazzo di quasi ventuno anni un uomo con tutte le discese impazzite di frammenti da ricomporre per dare alla dignità una resistenza.

Seventeen Seconds è il lampadario offuscato di quegli anni Ottanta che nei primi due saranno preda, da una parte, di musiche disimpegnate, frivole, agglomerati di nullità perfette per impedire al pensiero di essere solido. Dall’altra di una massa impotente che, persa l’opposizione sociale, si avventura nel cataclisma di una interiorità inevitabile.

I quattro scrivono la storia di un universo mai attraversato prima dalle indagini, dalla paura dello scorrere dell’esistenza, del perdersi senza fiato, del sentire la schiuma della rabbia divenire un grumo di segreti da tenere nella propria casa, quella della mente che non conosce ancora il terreno esatto per nascondersi.

Un insieme musicale che pare fare l'occhiolino al concetto di un agglomerato che racconti il momento della maturità, delle scelte obbligate, di un gioco che vale solo per pochi secondi, per poi, invece, atterrare in una nube tossica figlia di intuiti massaggiati in fretta.

Diverse le novità che faranno di questo secondo episodio artistico la prima lettera dell’alfabeto di una nuova necessità, quella che in grembo non ha i candori pop dell’esordio bensì il freno a mano tirato con stanchezza e con fretta al contempo. 

La rustichezza dei tappeti sonori è di fronte al nostro stupore e, quandunque l’album è nelle nostre mani, si ha la sensazione di perdere sempre qualcosa nella sua breve durata, in quanto il genio svela la bellezza ma non la modalità attraverso la quale si rende visibile. La produzione finisce tra le dita di Robert Smith e di Mike Hedges, in una collaborazione che ha il sapore di un breve armistizio, data la propensione al controllo da parte del strumentista e cantante che piazza alle tastiere Matthieu Hartley, consapevole che l’operazione avrà vita breve. Ma, indubbiamente, quello che si ascolta non è un lavoro di chitarre o di qualsiasi altro strumento: è un corollario, più che onesto, di una scelta che sacrifica ogni virtuosismo (due soli assoli di Robert Smith in tutto il lavoro) per donarci una lastra piena di vibrazioni, di crepuscolo e affanno che si stringono, in lentezza, nel tentativo di proteggere la vita senza per forza doverla adorare. Ed è qui che abita il vero capolavoro dell’album…

Il punk e il post-punk vivevano di estremi urlanti, di roboanti manifestazioni pelviche, di trambusti esibiti senza alternativa. Il genio che lavora nella cantina della propria paura attiva risorse diverse, si apparta col tempo, lo misura e poi lo indossa su canzoni come abiti, appunto, invernali.

Spicca il metallo arrugginito in cerca di un eco vocale, di rarefazioni che conducano a un riverbero cognitivo senza bavaglio, in sezioni ritmiche quasi robotiche, vicine all’impeto menefreghista tipico della drum-machine, che è priva di sentimenti. Gli accordi (antichi intrugli che spaziano dai vomiti Velvettiani di Lou Reed) a quelli più asettici di avamposti progressive, allineano la fluidità della morte contro la durezza della vita, in una ipnotica forma di assemblaggio che spaventa: non esiste traccia in questa opera che non abbia il lato sporco della notte sulle sue spalle…

Il boato che si avverte è quello dei pensieri e non delle parole: queste ultime sono calibrate, lasciano spesso spazio alla parete musicale su cui loro appiccicano l’intenzione di palesare la loro esistenza, ma non si accollano la responsabilità di essere indispensabili. Infatti, seguendo questa logica, tutte le composizioni permettono, nel silenzioso e tremante ascolto, di verificarne la struttura, la solidità, e così facendo l’intero progetto diviene una capanna di cemento costruita nella landa di ogni tremore. Diversi sono i momenti in cui l’assenza del cantato ci induce a riflettere: non è una poderosa vittoria questa?

Il basso di Gallup non è niente altro che la catena di montaggio di melodie che potevano appartenere al canto: niente di tutto questo, il buon Simon distribuisce lapidi dorate, ritornelli già nelle strofe, per un qualcosa di poco sentito in precedenza. Il suono è privo della sollecitazione frenetica degli effetti: a lui non servono e già per questo ci ritroviamo basiti e immobilizzati dalla bellezza di questa manifesta forma di coraggio.

Per quanto riguarda Lol, lui rimane sempre lo stesso del primo album: un non-batterista che diventa indispensabile, riconoscibile e sul cui lavoro tutto il resto prenderà le luci, ma è impossibile negargli il merito di dare al suono dei Cure qualcosa di inconfondibile.

Dieci venti invernali spaccano il cielo in una ferita poco evidente: Seventeen Seconds vive di supposizioni, di accenni, dove il viaggio non è fatto da luoghi, da persone, ma da una sana paura su cui, volente o nolente, si definisce il futuro. Ecco, in questa dimensione umana, i Cure seminano per non ritrovarsi mai più negli stessi labirinti ed era già ipotizzabile che tutto nella loro carriera sarebbe stato costruito sugli opposti e sui loro satelliti.

Infatti, sia questo che Faith ma anche Pornography presentano, chiaramente, il rapporto tra la vita e la morte, dimostrando, in ognuno dei tre episodi, quegli elementi che faranno sembrare la loro musica l’anticipo della consapevolezza.

Però.

Però qui abbiamo il pudore, la timidezza, l’ingombro della realtà che urla e tocca a questi suoni addormentarne l’impeto. Gli accenni dell’ombra, nella mente acuta di Smith, riescono a pilotare l’orchestrazione del tutto verso un piano dove ascoltare è soprattutto afferrare prima e spiegare dopo una infinita percezione.

Altro momento magico e portentoso di questo insieme bollente nel ghiaccio atmosferico, in cui la coldwave sembra aver scelto di mettere le ali ma nascondendo il proprio volo.


Un racconto, un esame, un inchiostro tra le mani piene di colla, nel sudore del cemento che rimanendo fermo ribadisce il suo ruolo: si parte da qui per capire l’enorme validità di questa oscena bellezza che dura da quarantaquattro anni.


Si inizia senza parole, con accordi come un atto funebre in corso, echi di lamenti giovanili sotto la tensione di un basso e una chitarra che sembrano giocare con la luce. Come si definisce la fragilità dell’età, i silenzi che interrogano la paura? Scrivendo A Reflection, l’avamposto che crea il timore della solitudine, dopo un terremoto che ha lasciato in dono accordi secchi, che scandiscono il tempo senza aver bisogno della batteria. 

La tensione di Sheffield nella caotica Londra: ecco cosa sono i primi secondi del brano di apertura, un manifesto attitudinale in cerca di un nascondiglio emotivo. Tutto qui è incline alla nevrosi priva di balbettamenti ritmici ma straordinariamente potente.

Si entra nella lapidaria affermazione contenuta nella prima strofa per capire che con Play For Today ci si ritrova con pennellate morbide ma non romantiche, con il quattro quarti che ci incanala nel suono di una chitarra che circonda gli anni Settanta e li fa arrendere: l’approccio allo strumento con uno stile primitivo da parte di Robert Smith è un chiaro schiaffo dato a chi quando lo impugnava cercava di stupire. Qui, ciò che strega è l’ardore di un circuito che non può privarsi del basso e della batteria, dove la tastiera vince anche se nei pochi secondi nei quali le si concede la libera uscita. La seconda traccia è una chiara boccata di ossigeno per i pensieri di un ragazzo che si ritrova adulto nel dolore: l’unico scampo è giocare con la vita, in un giorno soltanto…

Atomi post-punk baciano la pelle dei sogni pop che mai potrebbero avere quella forma cosciente. Eppure, ancora oggi, questo brano avvicina forme diverse di ascoltatori. Della serie: la magia non si spiega ma si vive…

Arriva Secrets e la purezza della paura manifesta l’intenzione di usare due voci fuori sincrono, su registri diversi, per ammorbidire i giochi di chitarre minimaliste, cupe, frenetiche e il basso che accarezza il brano, quasi con timore. Gli accordi del pianoforte sono teatrali, vistosi, semplicemente imbevuti di drammaticità e il mini-solo spagnoleggiante della chitarra acustica lo ritroveremo poi in The Head On The Door

Come una candela in cerca di riparo, così la canzone sembra attivare la memoria dei vagiti del glam, nelle ballate che accennavano al suono senza renderlo dirompente. 

Giunge la sublime In Your House a ricordarci di tre ragazzi immaginari: qualcosa dell’album di esordio vive nell’arpeggio della sei corde ed è soltanto la tastiera, con due soli accordi, a spostare il tutto verso il regno della novità. Il mappamondo esistenziale qui restringe i confini: partendo dall’ampiezza (dovendo quindi escludere il mondo esterno) per afferrare l’unicità della brevità, lungo il terreno della pochezza e della approssimazione. Irresistibile è il fatto che la forma canzone, in questo caso, diventi scheletrica, utilizzando un bridge, che si rivela più efficace del ritornello. Attesa, tremore, tasti della tastiera che sembrano rendere mute le parole di un testo minimalista ma estremamente efficace nell’inchiodare l'attenzione verso la cantina della riflessione.

Quella che sembra una drum-machine è invece la spina dorsale di una musica che ruota, come un carillon che se ne sta in piedi lungo i corridoi di una casa che non sa come sfuggire a se stessa. Tutto è microscopico, indagatore, come se l’acqua in cucina non potesse mai bollire…

La medesima struttura di Three la troveremo in A Forest: con il basso che qui fa le stesse cose che farà la tastiera nel singolo più famoso dell’album, quattro accordi in successione su cui il brano trova forza, intimità e coraggio, oltre che il senso. Solo apparentemente strumentale, questo gioiello ospita la voce lontana di Robert Smith, per una situazione che pare uscire da un film di Mario Bava: far intuire procura molta più tensione di un urlo… Ecco le carezze di chitarre che evocano i Suicide all’inizio e poi via, nel teatro delle note che cadono come se avessero imparato il gioco da Bela Lugosi Is Dead: accennare per poi strutturare il suono in un magnete su cui piccoli e rudimentali marchingegni cercano un arrangiamento che renda sottile il tutto.

Ed è evocazione pura, il teatro drammatico di Oscar Wilde che entra nel cinema di Kurosawa: ardore e lentezza nella danza del sospetto.

L’assurdo dura poco ma è una catapulta nevrotica: poche note per pochi secondi creano il disagio con la spaventosa The Final Sound, l’addio a ogni forma canzone, il tentativo di far collimare gli incubi e di darli in pasto ai suoni, per generare una corrente balbuziente, nella giostra che non concede una nuova corsa…

Quella arriva con A Forest, il sigillo di un suono, di una storia adolescenziale che viene investita dalla realtà che non fa sconti, dove l’amor proprio mette in fuga quello collettivo, e i confini vengono scompaginati da immaginari alberi in movimento. 

Il corpo pare nascere da occhi in picchiata, mentre le gambe cercano ossigeno nelle metalliche movenze di una chitarra che circonda il buio per consegnarlo ai colpi vellutati del basso. La struttura è semplice: l’alternanza di un testo con la mimica sonora, che non adopera orpelli e tantomeno esagerazioni, ma si nutre della polvere alzata da una corsa confusa, che troverà l’apice in un eco pieno di riverbero dell’“Again and Again” del finale, dove il terremoto adolescenziale amoroso non conosce la morte ma qualcosa, forse, di ancora più frustrante: la paura che non cessa di correre insieme al sogno.

La canzone sarà l’inizio della fine: gli epigoni nasceranno come funghi, e, al giorno d’oggi, sicuramente velenosi. L’aurea piena di mistero è incline alla scena coldwave di Sarajevo, ma è proprio la chitarra a spostare le coordinate, a farci credere all'ultimo urlo di un post-punk senza ossigeno…

La luce dei Cure del 1980 era ingannevole: cercava la nuova Three Imaginary Boys mettendoci più ritmo: eccola, la M che confonde prima e fa accasciare poi, nel suo altalenante movimento tra la ricerca di una forma pop e la sua perfetta negazione. Ci si ritrova da soli, smarriti, di notte, con questa fionda sonora, che abbatte le illusioni e le cristallizza, per vestirle e attaccare, il prima possibile, il desiderio della morte attraverso la vita di queste note impetuose, quasi come fossero delle cortigiane al servizio del piacere della depressione di fare quattro passi in compagnia…

La prima canzone di Pornography avrebbe potuto essere At Night, il ghigno ottocentesco del marasma di una mente in debito di ossigeno: suoni meno pesanti rispetto al quarto album, ma la stessa, magnetica capacità di incupire i respiri e di inchiodare i nervi. L’episodio in questione è il perfetto armistizio tra quello che chiude l’album e Siamese Twins: in un riff si nasconde il cielo e si aprono le gocce per irrigidire la mente, creando uno spazio dove la consapevolezza ci riporta alla nascita, alla residenza (la nostra casa) e il momento in cui il tempo ingrossa le paure (la notte).

La tastiera, quasi nascosta, sarà quella che abiterà il palco in Faith e la cantina in Pornography: un mantra assassino che toglie ogni sogno allo scorrere del tempo…

Quello che parrebbe avere una misura: Seventeen Seconds è l’armadio che chiude il fiato, quello che puoi abitare per duecento e quarantuno secondi, per poi lasciarti vedovo di ogni speranza. Catatonico, rigido, porta le note nell’imbuto di una paralisi che eccita, per via del suo approccio a raccogliere gli altri strumenti sino ad aumentare la velocità, come un lento tornado pieno di sé…

La voce di Smith è un candelabro nel vento del tempo: senza paura, emette suoni codificati che si appiccicano alla sua chitarra in un binomio letale, con le due note della tastiera a saldare il tempo e il senso incompiuto dell’esistenza, dando al drumming il potere di apparire e scomparire come se tutto non avesse più senso.

Se la morte ha un inizio ecco che troviamo la sua carta d’identità nel brano conclusivo, in cui, come un grido silente, tutto volge al termine…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Luglio 2024

My Review: The Cure - Seventeen Seconds


The Cure - Seventeen Seconds 


"Time flies and we don't. Strange would be if we flew and time didn't, the sky would be full of men with stopped clocks".

Alessandro Bergonzoni


Winter is an important event, not a season but a set of humoral, perceptive, mental elements, in an unhealthy physical conformation only for those who fear it. In music, it has given art a way of scouring its boundaries, of hiding its magnitude, of joking with the paucity of joy, of writing deceptions that could replace reality. Doubts, indecisions seem to take root and bloom quickly, to be able to coexist, perfectly, in a situation between the dramatic and the comic, with radical and dutiful choices.


There are those who, like The Cure, closed one decade and opened another by making time seem like an unserious, unbelievable joke, forcing their listeners to choose whether it was better confusing fairground of Three Imaginary Boys (with some nice rides for sure) or the sky greyed by substances of difficult description and, above all, assimilation of the second album.

Seventeen Seconds is a nightmare of a personal vicissitude for the band leader, as he makes his love life a mirror for his ghosts.

Seventeen Seconds is a sea that hides the humps of its waves to reveal a feverish state that paralyses the limbs but not the senses, throwing all impetus into a perpetual state of measurement: of time, of space, of compulsory catharsis, of sounds that anticipate melody and chords, and of fear, which in these grooves wears the outdated mask of sincerity.

Seventeen Seconds is a stratagem to conceal the colours of life where punk had ensured its absolute absence, to instead uphold, through a melancholic implant, the right to seclude oneself. 

Seventeen Seconds visits the possibilities that different genres of music tried to materialise, to escape the nightmare of definition, to pay homage to the past, and to give the present a crooked smile.


The vocabulary and the encyclopaedia of life always travel together, not in music, and it is good to point this out. Indeed, it is enough to note, listening to the group's second work, how the words and sounds smell of antiquity, but fail to generate something truly new. Instead, it is the whole of a perspective that indicates that the laboratory of ideas only passes through the man from Blackpool and that the other members are the perfect labourers, the executors of those limpid attitudinal greynesses that have suddenly made a boy of almost twenty-one into a man with all the maddening descents of fragments to be reassembled in order to give dignity a resistance.

Seventeen Seconds is the dimmed chandelier of those eighties, which in the first two years will fall prey, on the one hand, to disengaged, frivolous music, agglomerates of perfect nothingness to prevent thought from being solid. On the other of an impotent mass that, having lost its social opposition, ventures into the cataclysm of an inevitable interiority.


The four write the story of a universe never before traversed by investigations, by the fear of the flow of existence, of losing oneself without breath, of feeling the foam of anger become a lump of secrets to be kept in one's own home, that of the mind that does not yet know the exact terrain to hide in.

A musical ensemble that seems to wink at the concept of an agglomerate that tells of the moment of maturity, of forced choices, of a game that is only worth it for a few seconds, only to land in a toxic cloud of hastily massaged intuitions.

There are several novelties that will make this second artistic episode the first letter of the alphabet of a new necessity, one that does not have the pop candour of the debut in its lap, but rather the handbrake pulled with tiredness and haste at the same time.  The rusticity of the sound carpets is in front of our amazement and, whenever the album is in our hands, there is always the feeling of losing something in its short duration, as genius reveals beauty but not the manner through which it is made visible. The production ends up between the fingers of Robert Smith and Mike Hedges, in a collaboration that has the flavour of a brief armistice, given the propensity for control on the part of the instrumentalist and singer who places Matthieu Hartley on keyboards, aware that the operation will be short-lived. But, undoubtedly, what we are listening to is not a work of guitars or any other instrument: it is a corollary, more than honest, of a choice that sacrifices all virtuosity (only two solos by Robert Smith in the whole work) to give us a slab full of vibrations, of twilight and breathlessness that clench, in slowness, in an attempt to protect life without necessarily having to adore it. And it is here that the album's true masterpiece dwells...  Punk and post-punk lived on screaming extremes, on bombastic pelvic manifestations, on hustle and bustle exhibited without alternative. The genius working in the cellar of his own fear activates different resources, appears in time, measures it and then wears it on songs like, precisely, winter clothes.


Rusty metal stands out in search of a vocal echo, of rarefactions that lead to a cognitive reverberation without gagging, in almost robotic rhythmic sections, close to the uncaring impetus typical of the drum-machine, which is devoid of feelings. The chords (ancient concoctions that range from Lou Reed's Velvettian vomits) to the more aseptic ones of progressive outposts, align the fluidity of death against the harshness of life, in a hypnotic form of assemblage that frightens: there is no trace in this work that does not have the dirty side of the night on its shoulders...  The roar that can be heard is that of thoughts and not of words: the latter are calibrated, often leaving space for the musical wall on which they affix their intention to manifest their existence, but do not take on the responsibility of being indispensable. In fact, following this logic, all the compositions allow, in the silent and trembling listening, to verify their structure, their solidity, and in this way the entire project becomes a concrete hut built in the heath of every tremor. There are several moments in which the absence of singing induces us to reflect: is this not a mighty victory?  Gallup's bass is nothing more than the assembly line of melodies that could have belonged to the song: none of this, the good Simon distributes golden tombstones, refrains already in the stanzas, for something little heard before. The sound is devoid of the frenetic solicitation of effects: he doesn't need them, and for this reason alone, we find ourselves stunned and immobilised by the beauty of this manifest form of courage.

As for Lol, he remains the same as he was on the first album: a non-drummer who becomes indispensable, recognisable and on whose work everything else takes the spotlight, but it is impossible to deny him the merit of giving The Cure's sound something unmistakable.

Ten Winter Winds cleave the sky in an inconspicuous wound: Seventeen Seconds lives on suppositions, on hints, where the journey is not made by places, by people, but by a healthy fear on which, willy-nilly, the future is defined. Here, in this human dimension, The Cure sow seeds never to find themselves in the same labyrinths again, and it was already conceivable that everything in their career would be built on opposites and their satellites.  In fact, both this and Faith but also Pornography present, clearly, the relationship between life and death, demonstrating, in each of the three episodes, those elements that make their music sound like the anticipation of consciousness.

However.

But here we have modesty, shyness, the encumbrance of reality that screams and it is up to these sounds to numb its impetus. The hints of shadow, in Smith's acute mind, manage to steer the orchestration of the whole towards a plane where listening is above all grasping first and explaining after an infinite perception.

Another magical and portentous moment of this ensemble boiling in atmospheric ice, where the coldwave seems to have chosen to put on wings but hiding its flight.  A tale, an examination, an ink between hands full of glue, in the sweat of the cement that stands firm reaffirms its role: it starts here to understand the enormous validity of this obscene beauty that has lasted for forty-four years.


It begins wordlessly, with chords like a funeral act in progress, echoes of youthful laments under the tension of a bass and guitar that seem to play with light. How does one define the fragility of age, the silences that question fear? By writing A Reflection, the outpost that creates the fear of loneliness, after an earthquake that has left a gift of dry chords that mark time without the need for drums. 

The tension of Sheffield in chaotic London: that's what the first few seconds of the opening track are, an attitudinal manifesto in search of an emotional hiding place. Everything here is prone to neurosis devoid of rhythmic stuttering but extraordinarily powerful.  One enters the lapidary statement contained in the first verse to realise that with Play For Today one finds oneself with soft but not romantic brushstrokes, with the four-quarter that channels us into the sound of a guitar that surrounds the Seventies and makes them surrender: Robert Smith's approach to the instrument with a primitive style is a clear slap in the face to those who, when they wielded it, sought to amaze. Here, what bewitches is the ardour of a track that cannot deprive itself of bass and drums, where the keyboard wins out even if only in the few seconds in which it is given free rein. The second track is a clear breath of fresh air for the thoughts of a boy who finds himself an adult in pain: the only escape is to play with life, in just one day...

Post-punk atoms kiss the skin of pop dreams that could never have that conscious form. And yet, even today, this track brings different forms of listeners together. Of the series: magic cannot be explained but is lived...  Secrets arrives and the purity of fear manifests the intention to use two out-of-sync voices, on different registers, to soften the play of minimalist, sombre, frenetic guitars and the bass that caresses the track, almost fearfully. The piano chords are theatrical, showy, simply imbued with drama, and the acoustic guitar's Spanish-style mini-solo is later found in The Head On The Door. 

Like a candle seeking shelter, so the song seems to activate the memory of the vagaries of glam, in ballads that hinted at sound without making it disruptive. 

Here comes the sublime In Your House to remind us of Three Imaginary Boys: something of the debut album lives on in the arpeggio of the six-string and it is only the keyboard, with only two chords, that moves everything into the realm of novelty. The existential world map here narrows the boundaries: starting from breadth (thus having to exclude the outside world) to grasp the uniqueness of brevity, along the terrain of paucity and approximation. Irresistible is the fact that the song form, in this case, becomes skeletal, using a bridge, which proves more effective than the refrain. Waiting, trembling, keyboard keys that seem to render mute the words of a minimalist but extremely effective lyric in nailing the attention towards the cellar of reflection.  What looks like a drum machine is instead the backbone of a rotating music, like a music box standing along the corridors of a house that doesn't know how to escape itself. Everything is microscopic, probing, as if the water in the kitchen could never boil....

We find the same structure as Three in A Forest: with the bass doing the same thing here as the keyboard does in the album's most famous single, four chords in succession on which the song finds strength, intimacy and courage, as well as meaning. Only apparently instrumental, this jewel hosts the distant voice of Robert Smith, for a situation that seems to come straight out of a Mario Bava film: hinting provides much more tension than shouting... Here are the caresses of guitars that evoke Suicide at the beginning and then away, in the theatre of notes that fall as if they had learnt the game from Bela Lugosi Is Dead: hinting and then structuring the sound in a magnet on which small and rudimentary contraptions seek an arrangement that makes the whole thing subtle.  And it is pure evocation, the dramatic theatre of Oscar Wilde entering Kurosawa's cinema: ardour and slowness in the dance of suspicion.

The absurd lasts for a short time but it is a neurotic catapult: a few notes for a few seconds create unease with the frightening The Final Sound, the farewell to any form of song, the attempt to make nightmares collide and feed them to the sounds, to generate a stuttering current, in the merry-go-round that does not concede a new ride.

That arrives with A Forest, the seal of a sound, of an adolescent story that is invested by the reality that does not make concessions, where self-love puts the collective one to flight, and the boundaries are disrupted by imaginary moving trees.   The body seems to be born from swooping eyes, while the legs seek oxygen in the metallic motions of a guitar that surrounds the darkness to deliver it to the velvety strokes of the bass. The structure is simple: the alternation of a lyric with the sound mimicry, which does not use frills, let alone exaggerations, but feeds on the dust raised by a confused race, which will find its climax in a reverberating echo of the finale's 'Again and Again', where the adolescent love earthquake does not know death but something, perhaps, even more frustrating: the fear that does not cease to run together with the dream.

The song will be the beginning of the end: epigones will spring up like mushrooms, and, nowadays, certainly poisonous. The aura full of mystery is inclined to the Sarajevo coldwave scene, but it is the guitar that shifts the coordinates, to make us believe in the last scream of a post-punk without oxygen...  The light of The Cure in 1980 was deceptive: it sought the new Three Imaginary Boys by putting more rhythm into it: here it is, the M that first confuses and then makes you collapse, in its swinging movement between the search for a pop form and its perfect negation. One finds oneself alone, lost, at night, with this sonic slingshot, which demolishes illusions and crystallises them, to dress them up and attack, as soon as possible, the desire for death through the life of these impetuous notes, almost as if they were courtesans at the service of the pleasure of the depression of taking a walk in company...

The first song on Pornography could have been At Night, the nineteenth-century sneer of a lot of confusion of a mind in debt to oxygen: less heavy sounds than on the fourth album, but the same, magnetic ability to darken the breaths and nail the nerves. The episode in question is the perfect armistice between the one that closes the album and Siamese Twins: in a riff, the sky is hidden and drops open to stiffen the mind, creating a space where awareness takes us back to birth, to residence (our home) and the moment when time swells with fears (the night).

The keyboard, almost hidden, will be the one that inhabits the stage in Faith and the cellar in Pornography: a killer mantra that removes all dreams from the passing of time...  What would seem to have a measure: Seventeen Seconds is the wardrobe that shuts out your breath, the one you can inhabit for two hundred and forty-one seconds, only to leave you widowed of all hope. Catatonic, rigid, it brings the notes into the funnel of a paralysis that excites, because of its approach to picking up the other instruments until it increases its speed, like a slow tornado full of itself...

Smith's voice is a candelabra in the wind of time: fearless, he emits coded sounds that cling to his guitar in a lethal pairing, with the two notes of the keyboard welding time and the unfinished sense of existence, giving the drumming the power to appear and disappear as if everything no longer made sense.  If death has a beginning, here we find its identity card in the concluding track, in which, like a silent cry, everything comes to an end...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14th July 2024

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