domenica 23 aprile 2023

La mia Recensione: Gene - Olympian

 Gene - Olympian 


“Nessuno è inutile in questo mondo se è capace di alleggerire i pesi di un altro uomo.” Charles Dickens 


“Se avessimo una forte visione e percezione di tutta la vita umana quotidiana, sarebbe come sentire l’erba che cresce e il cuore dello scoiattolo che batte, e moriremmo di quest’urlo che esiste dall’altra parte del silenzio.” George Eliot


Una stella fatica a guardarsi: nel cielo non esiste nessuno specchio e l’idea che si ha di sé rimane tale, un vagare senza certezza. Questo accadeva nei primi anni Novanta nella musica Inglese: la capitale europea stava cedendo lo scettro, la Regina era morta da anni…

Arrivò la stupidità del giornalismo inglese che inventò la dicitura Britpop e fu la continuazione di un delirio che creava schieramenti inutili.

E poi Londra.

I Gene.

Emerse un palo della luce dentro il caos di quella città e aveva sin dagli esordi mostrato le rughe della bellezza, dell’intensità dello sguardo, aveva ossigenato l’aria con la poesia di immagini che avevano consentito la nascita di due singoli strepitosi, non inclusi nell’album. Non una meteora, non un inganno, non una metafora, non un affanno, bensì la necessità di una scrittura che ponesse quelle quattro anime distanti dalla confusione dello Star System. 

Matt James (il batterista, il più fantasioso di quegli anni) e Kevin Miles (il bassista, quello con il tocco più delicato) passeggiavano nel tempo con i sogni e le pinte di birra, in attesa, in frenata, senza aver paura di sprecare la prima occasione che sarebbe potuta arrivare. Una sera, a un concerto, Steve Mason, giovane di una bellezza sottile e quasi nascosta, senza la sua amata chitarra, incontrò i due in un locale: l’inizio di un delirio con le rose sul capo trovava una fisicità che di lì a poco avrebbe manifestato un talento enorme. Nacquero gli abbozzi, i tavolozzi, i respiri senza parole, senza immagini. La storia, si sa, aspetta sempre un lampo, in questo caso biondo e timido, e il suo nome era Martin Rossiter, l’angelo della pianura, quella dove i palazzi e i ponti creano immagini potenti. Nacque la band, e nacque Olympian, il primo folle freno, l’anticipo di quello che poi sarebbe stato il secondo album, meglio strutturato e prodotto, senza però il sudore sulla schiena.

Inquadrare le strutture di questa collezione di gocce di sudore è semplice: il pop aveva trovato un dolore giusto, la penna, non miracolata ma vera, per dettagliare lo sconforto e la solitudine cadere insieme alle lancette del Big Ben. Ma c’era tanto da fare, in quanto esisteva un mondo nel circuito Londinese che si opponeva: i Blur e i Suede dettavano legge e si doveva passare da loro per avere il lasciapassare. Ma Steve, il guerriero, il diavolo vestito di marrone chiaro, che aveva tra i denti melodie inarrivabili, cambi ritmo che, con l’immenso intuito di Matt, potevano sublimare l’arte senza tennamenti, aveva deciso di affrontare a muso duro le due band. 

Tutto parte con una canzone nata ascoltando un festival, presentato da John Peel. Da quell’istante la musica, per i quattro ragazzi dalla risata facile, non sarebbe più stata un gioco.

Il vecchio scriba ha visto la genesi di quelle undici luci di candele, e mai avrebbe immaginato che sarebbero entrati degli strumenti e si sarebbero presentati degli arrangiamenti a disarcionare le prime impressioni.

I violini, il cello, la tastiera del vicino di casa di Martin: queste tre situazioni avrebbero sconvolto per sempre i primi pianti di queste tenere e fragili discese di pioggia. Pieni di dubbi, con la malsana convinzione che il mercato li avrebbe respinti, i ragazzi londinesi non cercarono di promuovere l’album più di tanto, vista l’armata britannica che era scesa in campo: troppi i dischi, le storie, le mode, la confusione da dover affrontare per avere la certezza di una anche misera attenzione.

Olympian è un trattato di economia domestica della riflessione, di emisferi in contatto, un calvario educato, con il presente che è indice di tensione e il passato che non riesce a svanire: nessuna fuga possibile, per far così divenire la penna stilografica di Martin in grado di far scendere, liofilizzate per la maggior parte dei testi, storie dove il capriccio di un desiderio non poteva che durare per pochi minuti. Si spiega così la rabbia del vecchio scriba davanti alla stupidità di chi ha sempre paragonato questa band a una di Manchester: non ci vuole poi molto per sentire che ciò che suona all’interno del disco è Londra, solo Londra, il Nord non riesce proprio a entrare. Prendete i ritmi delle chitarre acustiche ed elettriche di Mason: i Jam sono lì. Sorridono, applaudono e possono stare muti: i nipotini hanno la loro forza, la scorza e la volontà per divenire qualcuno senza somigliare a nessuno.

Non vi basta? Ascoltate Matt James: sembra pure lui scrivere le parole, giocare con Martin per far cantare le sue bacchette, anticipare l’ugola col fumo dentro di questo cantante potente, che sfiora le emozioni prendendole a ceffoni sorseggiando del buon Brandy.

Già, l’alcol: le canzoni fanno l’effetto di una ubriacatura in un giorno di nebbia, togliendo i punti di riferimento, spostando i punti cardinali a piacimento, per un insieme che dura meno di un’ora.

Il tempo, questo nemico della stupidità, amico della sensibilità, scombussola la scrittura di Martin: deve giostrarlo, deve batterlo, e cosa fa per raggiungere questo obiettivo? Lo seduce, gli dipinge, nei versi, tratti che lo rendono quasi sereno, con inganni straordinari, riusciti, facendolo cedere. Fu alla fine delle registrazioni di Olympian che Rossiter capì di avere il grande male dell’anima, e quello gli piegò le gambe, ancor prima di iniziare il tour…

Leggere i testi di questa testimonianza, unica, di una dolce ribellione, e di una già matura propensione al cedimento, fa nascere immediatamente la convinzione che questo fascio di tossine non l'avrebbe portato tanto lontano, e così avvenne. I temi, le vicende, le storie vissute dai personaggi di questo disco sono tutti con la voce debole o piena di raucedine, mai limpida: i loro giorni sono storti e contorti, e ogni inizio di giornata è uno schianto. I quattro trovano il sistema di sembrare distanti dall’attualità: non sono attaccati morbosamente agli anni Settanta come i Suede, non sono così dinamici come i Blur, non sono così stupidi come gli Oasis, o frivoli come gli Elastica, bensì più inclini a mediare come i Mancuniani Mansun, dentro territori leggeri dove i riferimenti non lasciano troppo le orme.

Il rock graffia senza necessitare di eccessivi distorsioni, il Northern Soul è più nell’ugola di Martin che negli strumenti, il blues è quello americano, obliquo, con i colori di una sei corde che non esita mai, e che conosce la storia ma sa inciderne una nuova. Si danza con il taccuino degli appunti, le lenti del cantante diventano le nostre, scompare la moda di Carnaby Street e si entra nei Docks con gli anfibi, di notte, confusi e infelici: non è il sole che può servire a una città che,  sin dagli anni  Sessanta, ha inventato luci false…

Ecco la similitudine con gli Small Faces: l’eleganza dell’opposizione, sempre. Dal punto di vista climatico, si hanno oscillazioni d’umore, non si può negare l’evidente bisogno di mostrare e nascondere la realtà, partendo dal linguaggio, sia musicale che letterario. Ci si sposta, quindi, più verso l’inizio del secolo scorso che non negli ultimi tre decenni. Viene spiegato in questo modo la necessità di Mason di spaziare nel blues e nel country, non quello degli anni Novanta di sicuro. Il basso spesso decide la direzione, illumina la voce, mentre gli accordi sono sempre in attesa di morire, sorridenti…

C’è un episodio, in Olympian, che da solo potrebbe portarvi lontano dall’ascolto che, onestamente, è quello che vorrebbe il vecchio scriba: questo lavoro deve morire prima o poi nel suo petto o in quello di pochi altri.

L’episodio si intitola To The City, la trasgressiva, la maleducata, la meravigliosa forma di capriccio che porta l’album sulle onde del Mississippi: non più armonia, ricerca di colori tenui, ma una aggressione, iniziale, nei confronti di ogni gentilezza. Ma, se ascoltate bene, noterete come poi i Gene siano capaci di far arrivare atmosfere Francesi, i Byrds bussano, i Rolling Stones pure, sino alla veemenza di Steve che porta la canzone nel suo bacino pieno di fili elettrici scoperti.

Olympian non esiste, è un piano onirico nel bel mezzo degli anni Novanta, un’oasi nel tempo degli Oasis, una incanto senza medaglie, ma con quella unicità che fa sì che a ogni ascolto si muoia un pò di più…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23 Aprile 2023


https://open.spotify.com/album/63pLihcr6nXOYNy0mzUWdV?si=9nlAjmv8Tk2yFOqpAJhUQA






La mia Recensione: Debris Discs - Losing the Matriarch

Debris Discs - Losing the Matriarch 


Si prepari un monumento a James Eary: basterebbe ciò che ha fatto con i My Sides of the Mountain e con i Coves & Caves per tributargli il merito della sua classe. Lui continua imperterrito e con la nuova formula Debris Discs ha trovato il modo di deliziarci con una canzone che fa parte dell’imminente album, costruito su lettere della seconda guerra mondiale. Ma ciò che si ascolta è una musica effervescente, leggera, voluminosamente sognante, allegra e dotata davvero di un notevole buongusto. È un Electro-Pop che accoglie tra le sue braccia un Dreampop sottile ma efficace, con un organo che ci fa compiere un tuffo nella gloriosa attitudine degli anni Sessanta. Abbiamo davvero bisogno di connetterci ai movimenti delle nuvole in cerca di un bacio…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23 Aprile 2023


https://debrisdiscs.bandcamp.com/album/losing-the-matriarch






My Review: Debris Discs - Losing the Matriarch

 Debris Discs - Losing the Matriarch 


Let a monument be prepared for James Eary: what he has done with My Sides of the Mountain and Coves & Caves would be enough to give him credit for his class. He continues undaunted and with his new formula Debris Discs he has found a way to delight us with a song that is part of the forthcoming album, built on letters from the Second World War. But what we hear is music that is effervescent, light, voluminously dreamy, cheerful and truly endowed with remarkable good taste. It is Electro-Pop that takes subtle but effective Dreampop into its arms, with an organ that makes us take a dip into the glorious attitude of the sixties. We really need to connect to the movements of the clouds in search of a kiss....


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23rd April 2023


https://debrisdiscs.bandcamp.com/album/losing-the-matriarch








sabato 22 aprile 2023

La mia Recensione: Citrus Clouds - Spacing Out

 Citrus Clouds - Spacing Out


Le parole viaggiano in un percorso conflittuale, disperdendo il pensiero. Il vecchio scriba non ha dubbi a tal proposito. E quando deve recensire una canzone come questa si rende conto che il proprio vocabolario ha subito un lifting: occorre cercarne uno antico.

La band Americana è un portento, un vascello nelle acque della vita, le purifica e fa brillare i battiti del cuore con la sua formula che prevede un rock che è composto di inclinazioni Shoegaze (come impronte leggere, ma capaci di lasciare tracce immense) e una attitudine Dreampop che riesce a manifestarsi sebbene vi siano chitarre robuste. Un miracolo veloce, un insediamento nel cratere cranico che dona la propensione a una gioia matura, incominciata con il basso e proseguita poi con le stratificazioni di chitarre piene di brio e morbidezza. Se bastasse una sola canzone per descrivere la gioia dell’esistenza sarebbe questa, Vecchio Scriba dixit…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23 Aprile 2023


https://citrusclouds.bandcamp.com/track/spacing-out




My Review: Citrus Clouds - Spacing Out

 Citrus Clouds - Spacing Out


Words travel in a conflicting path, scattering thought. The old scribe has no doubt about this. And when he has to review a song like this, he realises that his own vocabulary has undergone a facelift.

The American band is a marvel, a vessel in the waters of life, purifying them and making the heartbeats shine with its formula of a rock that is composed of shoegaze inclinations (like light footprints, but capable of leaving immense traces) and a Dreampop attitude that manages to manifest itself even though there are sturdy guitars. A quick miracle, a settlement in the cranial crater that gives the propensity for mature joy, which began with the bass and continued with the layering of guitars full of brio and softness. If one song were enough to describe the joy of existence, this would be it, Old Scribe dixit...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23rd April 2023


https://citrusclouds.bandcamp.com/track/spacing-out




La mia Recensione: Morgersten - Hass ihn

 Morgersten - Hass ihn


I muscoli Svizzeri scendono dalle montagne e con fare preciso si mettono quintali di Industrial Metal sulle spalle, proseguendo un cammino che rivela la classe: non ci sono solo i Rammstein a produrre questo tipo di musica, e che diamine! Il brano è infestato, violento, crudele, con le mani piene di tagli, e le ferite sono un dono degli Dei del metallo. Sorprendente il breve cantato in italiano, che, insieme a quello in lingua tedesca, imprime al testo una maggiore fascinazione.

L’elettronica avanza, installa un dominio senza esagerazione, in cui tutto è equilibrato, portando, come risultato, un senso di profondo attaccamento al connubio ritmo/evocazione, che raggiunge qui vette elevatissime…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino 

23rd April 2023


https://morgensternndh.bandcamp.com/album/hass-ihn






My Review: Morgersten - Hass ihn

 Morgersten - Hass ihn


The Swiss Muscle come down from the mountains and with a precise manner put quintals of Industrial Metal on their shoulders, continuing a path that reveals class: it's not only Rammstein who produce this kind of music, and what the heck! The track is haunted, violent, cruel, with hands full of cuts, and the wounds are a gift from the metal gods. Surprising is the brief singing in Italian, which, together with the one in German, imparts a greater fascination to the lyrics.

The electronics advance, installing a domain without exaggeration, in which everything is balanced, bringing, as a result, a sense of profound attachment to the combination of rhythm/evocation, which here reaches lofty heights…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino 

23rd April 2023


https://morgensternndh.bandcamp.com/album/hass-ihn






My Review: DeathFauna - Solita

DeathFauna - Solita


Pure love for the Los Angeles band should never be lacking: once again we are faced with a composition that reveals its class and power, in a sonic attack on melancholy, which here is surrounded by a powerful bass and synths that sketch tears in the sky. We note the marriage of Post-Punk and Coldwave, and at lunchtime we find ourselves dancing around the table, as an act of love for these atmospheres steeped in an autumn on the verge of a nervous breakdown. No vocals, the music is the queen, the melody manages to stay afloat while the wild rhythm throws the guests to the floor: an endless thank you to them...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino 

23rd April 2023


https://open.spotify.com/track/5DV7A4Da7C77lltpJd4dxr?si=e8375e3909cc4ff3






La mia Recensione: DeathFauna - Solita

 DeathFauna - Solita


L’amore puro per la band di Los Angeles non dovrebbe mai mancare: ancora una volta siamo di fronte a una composizione che ne rivela classe e potenza, in un attacco sonoro alla malinconia, che qui viene circondata da un basso potente e da un synth che tratteggia lacrime nel cielo. Notiamo che si sposano il Post-Punk e la Coldwave, e nel pranzo ci si ritrova a danzare attorno al tavolo, come un atto d’amore per queste atmosfere intrise di un autunno sull’orlo di una crisi di nervi. Nessuna voce, la musica è la regina, la melodia riesce a stare a galla mentre il ritmo, selvaggio, scaraventa gli invitati per terra: giunga loro un grazie infinito…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino 

23 Aprile 2023


https://open.spotify.com/track/5DV7A4Da7C77lltpJd4dxr?si=806cfa6a94374db3




venerdì 21 aprile 2023

My Review: Excutioner’s Mask - Despair Anthems

 Excutioner's Mask - Despair Anthems


This album was, in 2020, considered by the old scribe to be the most granitic and dense one of that year, and he comes back to it, willing to write about it, so that its traces are not lost, because it is so extreme, generous, tenebrous, a tepid wave of malaise with a crucifix of breaths tattooed on its skin without any more power. The route provides an impressive gothic backdrop, a journey between genres without getting lost, with a robust manner that gives the measure of a sublime quality. The years of human lament always have a dim light, a shyness that can, however, know the muscles and anger that in all tracks show their face. The singing cannot fail to remind one of Rozz Williams, while the musical part is an ocean of references that finds a way to evolve, and this is a truly remarkable aspect. Deathrock is an inevitable hint, as is Gothic Rock, not to mention Darkwave and Post-Punk. But it is not a confused act, a free-for-all to prove who knows what. Instead, the American band has a strategic plan and achieves it, giving us the chance to live on an altar, running around its perimeter, to make us bats in worship...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

 21st April 2023


https://executionersmask.bandcamp.com/album/despair-anthems-2





My Review: Mogwai - The Bad Fire

  Mogwai - The Bad Fire A desert finds its source in the sonic bridge of a time spent leaving traces of vibrations in the hope of a landing ...