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mercoledì 5 aprile 2023

La mia Recensione: The Sound - All Fall Down

 The Sound - All Fall Down


“Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l'azione. Ciò si chiama diventare un uomo.” —  Albert Camus, libro Il mito di Sisifo


Il tempo è un confine spesso pieno di miseria, di esagerazioni, di insoluti che schiacciano la ragione e quindi la regione del nostro io, quello votato all’intuizione e alla capacità di essere chiarezza in divenire. Si giunge alle scelte, si spostano i limiti, si sotterra la fiducia e ci si concede allo schianto: Adrian Borland conosce tutto questo e si precipita nei pressi del dolore ormai triturato e lo seduce, lo porta all’interno di un complesso circo di note e parole, come naufragio del sospiro, del respiro, di un volo dentro l’acqua del suo fremito. 

Il risultato è una serie di pillole ingerite, una cura per una tossicità insostenibile: la sua purezza d’animo. Che va distrutta, annientata, condotta per mano verso il baratro. Musica allora, di quella con gli specchi in ogni settore dell’anima, viatico maldestro per una sincerità non addomesticabile, che non corre di certo il rischio di essere contagiosa. Arriva l'arcobaleno della lucidità, con colori onesti, senza olio, senza macchia, gravidi di lucenti verità in fila, come un mantello che vola nell’aria meglio di un tappeto, come terribile scelta di una intelligenza non programmata, trovata, e non per caso, all’interno di un percorso artistico che aveva avuto due palazzi costruiti nello scenario musicale di un momento storico impreparato alla qualità della sua sonda, termometro incivile per molti, che invece portava alla luce il petrolio della vergogna. Non potendo fuggire da se stesso aveva posto fiducia nella altrui accoglienza: un fallimento totale, di cui la sua colpa non è ancora oggi certa…

Con il terzo album inizia la sua depressione. È da questo episodio che divenne chiaro quanto  le cose, così come stavano, fossero per lui insostenibili. Questo lavoro partì da una parolaccia, verbalizzata all’interno della loro sala prove: FUCK OFF!

Rabbia e frustrazione, impotenza e remissione, dolore e convinzione che fosse iniziata la fine della loro fase sognante, della loro giovinezza. 


Era stato individuato il nemico, ciò che non era funzionale alla loro vitalità, innegabile, e nacquero canzoni come rivalsa, vendetta, dimostrazione, un amor proprio con gli occhi segnati da rughe, lacrime copiose e odiose, da lasciar affondare dentro liquidi sonori.

La caduta, già presente sin dal titolo, è in realtà il punto di partenza per una ironia necessaria, dovuta, istruita per ammaestrare le anime: tutte le pillole qui presenti (ben dieci, al limite di una vera e propria dipendenza) sono frutto del laboratorio mentale di Adrian, connesso con l’esercizio di chi affronta il suo nemico più grande, che ancora non è il suo io martoriato, quello che accadrà più avanti, quando le tenebre spegneranno i suoi dolcissimi occhi, perché la sua esistenza non sarà più in grado di vedere la maestosità e l'intensità delle gradazioni dei colori. Ascolti questo lavoro ed entri in una sala di attesa, infinita e lenta, dove le voci non necessitano di esasperazioni urlanti, bensì di un faro che renda sorda la rabbia più cruda, nella quale specialmente il Post-Punk aveva deciso di prendere residenza. Ti ritrovi, così, e non per caso, a dare in affitto il tuo tempo all’ascolto di tracce che seminano sospetto, sfiducia, abbandono e nelle quali ciò che si evidenzia maggiormente è il culto di appartarsi, da soli, nella mappa della fatica quotidiana, una tendina sempre più faticosamente tenuta aperta.

Sono in quattro a produrre, a suonare, a essere membri attivi di un bidone pieno di melma lanciato verso la prepotenza del mercato, di una casa discografica, della stampa, di un Premier avvezzo alla guerra, di una distanza sociale che offre luccichii ma non luci. Un disco di opposizione, dove la chiave di lettura sta nella continuità di una musica come musa della riflessione, delle verità che fuoriescono e prendono aria sul balcone. Sperimentazione, jam sessions, analisi di piccole parti da dover incastrare in un suono votato alla cupezza, a un umore impaurito e che cerca disperatamente il congedo dall’ipotesi del successo perché, ed è evidente, questo album è una bandiera bianca nel nero della volgarità, sventolata con poche forze. Intenso, nudo, crudo, suda e fa sudare i pensieri, portandoli alla deriva di una consequenziale scelta: “con noi o senza di noi, ci ami o lasciaci stare da soli”.


Pesante (chili di glicerina e catrame al suo interno), seducente (grammi sottili di dolcezza lo rendono unico), magnetico (la calamita delle composizioni può condurci al delirio), fa di tutti questi elementi il punto più alto della loro carriera: come è bello tuffarsi nel vuoto con dieci splendide creature e perdere una parte di se stessi.

Il vecchio scriba vi invita a cercare cosa usciva a livello discografico in quei mesi, a pensare a come tutto si fosse allineato verso il concedersi al nulla, il negarsi per poter arrivare al successo. Dimenticata la dignità, tutto accadeva, per la gioia degli stolti. Adrian e soci non si perdevano in queste sciocchezze, perché concentrati a cercare la sanezza della verità, a distinguerla e offrirla. È un dato di fatto che questo All Fall Down sia una bugia, uno schifo totale, un atto vergognoso, una profonda ingiustizia per chi non poteva fare spazio dentro di sé, non obliterando la quotidianità con spruzzi di impavida follia, nel bagno turco delle volgarità, espulse senza ritegno. Quì tutto ferisce, sporca, per la costruzione meccanica dei ritmi, la melodia spolpata, arricchita con sospensioni continue, con i lumi di una ciminiera che lavora senza sosta. Non sono mai stati così attenti alle cellule i The Sound: te ne accorgi dalla forma canzone che per la prima volta viene disturbata da inserti, da arrangiamenti e tentativi di mettere a disagio se stessa per prima, un laboratorio con l’obiettivo di farne l’autopsia mentre nasce…


Si noti come il lato Pop sia volutamente volgare e perennemente bersagliato da pressioni estetiche e morali, con il Post-Punk a fare da inatteso maestro, calmo, riflessivo, per educare il brano a essere “meno semplice”. La formula della composizione si fa volutamente ampia, non è il genere ma il messaggio a essere messo al centro della sala prova, e non quello della scrittura, che mai come in questo disco vive di necessità che coinvolgono l’ascoltatore verso quella devastante situazione che è il prendere coscienza della verità, dove nulla è a contatto con la realtà. Canzoni spugne, lente, alcune invece capaci di trascinarci dentro il sistema collaudato della danza, nella quale le parole disturbano la gioia del movimento, nella quale la serenità non viene chiamata all’appello, per poterci trovare nello spazio di continui stop and go, fisici ma soprattutto mentali. Echi di Ultravox attraverso la spina dorsale di diversi episodi dell’album, mentre tutti cercano e trovano (sarà un caso? Non credo) collegamenti ai Joy Division, perché ci si ferma sempre davanti a ciò che è più vicino, che costa meno fatica. Ma i The Sound giocano in casa, guardano a John Foxx e alla sua magnifica band, e commettono l’imperdonabile errore di voler dare alle creazioni la possibilità di fuggire dalla complicità che offre la banalità. Tutto ciò è motivo di ricchezze non quantificabili, tantomeno intuibili, in quanto la genialità, se lavora a braccetto di una progettualità che vuole stordire l’infame potere del mercato, può solo far planare nel territorio di una ricchezza individuale, senza certezza di corruzione. Questo fa l’album: separa il vizio, e la conseguente perdita di equilibrio, dalla magnificenza di un pensiero sganciato e quindi libero, dove però non sono evidenti felicità da rappresentare. 


L’unico a essere conscio che si era dentro il circuito della resa fu proprio Adrian, in quello che si può sicuramente definire il suo primo album solista. L’atmosfera dei luoghi è in continuo contatto con la luce di un’alba malinconica, presso la quale ogni esplosione di colori diventa sofferenza e motivo di disturbo. Qui si chiude il sogno, si spegne la voglia di creare musica come atto di gioia e di conquista, la si porta invece nel salone dell’anima dove ciò che nasce è già motivo di dolore, per una genialità che lavora su come anestetizzare tutto questo. Proprio per questo motivo il vecchio scriba non esita a definire l’insieme delle canzoni come il più nutriente per chi vuole abbandonare la mediocrità della velocità, dell’egoismo che non contempla il sudore sulla fronte della propria anima. All Fall Down era una missione per Adrian: dare in pasto ai leoni l’inganno, per farglielo masticare, e così avvenne, per una atroce felicità che rese i The Sound la band più coraggiosa degli anni Ottanta. Cosa c’entra poi questa con l’esistenza lo spiegano benissimo le dieci tracce presenti: state lontano dai pruriti e nutritevi del volo, quello cosciente, che vi porterà a fare di questa esperienza la necessità autentica di avere bisogno non di amici, ma di sani pugni in faccia perché dove vive un livido spesso si trova il miglior alleato che poi ti accarezza il cuore…

Ci sono giochi sonori di cui molti perderebbero tempo a cercare la radice. Ma che diavolo: riusciamo a renderci conto che quello che qui ti porta a sorridere in fondo è un urlo, gentile, che rimane tale? Non è Post-Punk, non è Darkwave, non è nulla che possa cadere nelle fauci di un avvoltoio sapiente della provocazione: ciò che ascoltate è l’avanguardia di un futuro che di lì a poco sarebbe accaduto, e Adrian lo aveva previsto e messo agli atti, in tempi non sospettabili…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

5 Aprile 2023


https://open.spotify.com/album/3NoUegvQ2S8fUtLK6bPbUl?si=zgoGykb6R8-Wix_Yny2a7g




My Review: The Sound - All Fall Down

 The Sound - All Fall Down


"There always comes a time when you have to choose between contemplation and action. That is called becoming a man." - Albert Camus, book The Myth of Sisyphus


Time is a boundary often full of misery, of exaggerations, of un resolvable notions that crush reason and thus the region of our ego, the one devoted to intuition and the capacity for clarity in becoming. Choices are made, limits are shifted, trust is buried and we give ourselves over to the crash: Adrian Borland knows all this and rushes into the vicinity of the now shredded pain and seduces it, takes it inside a complex circus of notes and words, as a shipwreck of the sigh, of the breath, of a flight into the water of its quiver. 

The result is a series of ingested pills, a cure for an unbearable toxicity: his purity of soul. Which must be destroyed, annihilated, led by the hand towards the abyss. Music then, the kind with mirrors in every sector of the soul, a clumsy viaticum for a sincerity that cannot be tamed, that certainly does not run the risk of being contagious. Here comes the rainbow of lucidity, with honest colours, without oil, without stain, pregnant with shining truths in a row, like a cloak that flies through the air better than a carpet, like a terrible choice of an unplanned intelligence, found, and not by chance, within an artistic path that had had two palaces built in the musical scenario of a historical moment unprepared for the quality of its probe, an uncivil thermometer for many, which instead brought to light the oil of shame. Unable to escape from himself, he had placed his trust in the acceptance of others: a total failure, for which his guilt is still not certain today

With the third album his depression began. It was from this episode that it became clear how unbearable things, as they were, were for him. This work started with a swear word, verbalised inside their rehearsal room: FUCK OFF!

Anger and frustration, helplessness and remission, pain and conviction that the end of their dreaming phase, of their youth, had begun. 


The enemy had been identified, that which was not functional to their vitality, undeniable, and songs were born as revenge, revenge, demonstration, a self-love with eyes marked by wrinkles, copious and hateful tears, to be sunk into sonorous liquids.

The fall, already present in the title, is in fact the starting point for a necessary, due, educated irony to teach souls: all the pills present here (as many as ten, bordering on a veritable addiction) are the fruit of Adrian's mental laboratory, connected with the exercise of one who faces his greatest enemy, which is not yet his tortured self, what will happen later, when darkness will extinguish his sweet eyes, because his existence will no longer be able to see the majesty and intensity of colour gradations. You listen to this work and enter a waiting room, endless and slow, where voices do not need screaming exasperations, but rather a beacon that deafens the rawest anger, in which especially Post-Punk had decided to take up residence. You find yourself, thus, and not by chance, renting your time to listen to tracks that sow suspicion, mistrust, abandonment and in which what stands out most is the cult of secluding oneself, alone, in the map of daily toil, a curtain ever so laboriously kept open.

There are four of them, producing, playing, being active members of a sludge-filled bin thrown towards the arrogance of the market, of a record company, of the press, of a war-mongering Premier, of a social distance that offers glitter but no light. An album of opposition, where the key lies in the continuity of music as the muse of reflection, of truths that come out and take the air on the balcony. Experimentation, jam sessions, analysis of small parts to be jammed into a sound devoted to gloom, to a frightened mood that desperately seeks leave from the hypothesis of success because, and this is evident, this album is a white flag in the black of vulgarity, waved with little strength. Intense, naked, raw, it sweats and makes thoughts drift to a consequential choice: 'with us or without us, love us or leave us alone'.

Heavy (kilos of glycerine and tar inside), seductive (thin grams of sweetness make it unique), magnetic (the magnetism of the compositions can lead us to delirium), it makes all these elements the high point of their career: how beautiful it is to dive into the void with ten beautiful creatures and lose a part of oneself.

The old scribe invites you to look up what was coming out at record level in those months, to think about how everything had lined up towards indulging in nothingness, denying oneself in order to achieve success. Forget dignity, everything was happening, to the delight of the foolish. Adrian and co. were not lost in this nonsense, because they were focused on seeking the sanctity of the truth, on distinguishing and offering it. It is a fact that this All Fall Down is a lie, a total crap, a shameful act, a profound injustice for those who could not make room within themselves, not obliterating everyday life with splashes of fearless madness, in the Turkish bath of vulgarities, expelled without restraint. Here everything hurts, it dirties, for the mechanical construction of the rhythms, the stripped-down melody, enriched with continuous suspensions, with the lights of a chimney that works ceaselessly. The Sound have never been so attentive to the cells: you can tell by the song form, which for the first time is disturbed by inserts, arrangements and attempts to make itself uncomfortable first, a laboratory with the aim of doing an autopsy as it is born...


Notice how the Pop side is deliberately vulgar and perpetually targeted by aesthetic and moral pressures, with Post-Punk acting as an unexpected master, calm, reflective, to educate the song to be 'less simple'. The formula of the composition becomes deliberately broad, it is not the genre but the message that is put at the centre of the rehearsal room, and not the writing, which never as in this record lives on necessities that draw the listener towards that devastating situation that is becoming aware of the truth, where nothing is in contact with reality. Songs that are sponges, slow, some instead capable of drawing us into the tried and tested system of dance, in which words disturb the joy of movement, in which serenity is not called upon, in order to find ourselves in the space of continuous stop-and-go, physical but above all mental. Echoes of Ultravox run through the backbone of several episodes of the album, while everyone searches for and finds (is it a coincidence? I don't think so) links to Joy Division, because one always stops at what is closest, what costs the least effort. But The Sound play at home, look to John Foxx and his magnificent band, and make the unforgivable mistake of wanting to give creations the chance to escape from the complicity that banality offers. All of this is cause for unquantifiable, let alone intuitable, riches, since genius, if it works hand in hand with a projectuality that wants to stun the infamous power of the market, can only glide into the territory of individual wealth, without the certainty of corruption. This is what the album does: it separates vice, and the consequent loss of equilibrium, from the magnificence of an unhinged and therefore free thought, where, however, no happiness is evident to represent.

The only one who was aware that he was inside the circuit of surrender was Adrian himself, in what can definitely be called his first solo album. The atmosphere of the places is in constant contact with the light of a melancholic dawn, at which every explosion of colour becomes suffering and a source of disturbance. Here the dream comes to an end, the desire to create music as an act of joy and conquest is extinguished, it is instead taken to the salon of the soul where what is born is already cause for pain, for a genius working on how to anaesthetise all this. It is precisely for this reason that the old scribe does not hesitate to define the set of songs as the most nourishing for those who want to abandon the mediocrity of speed, of selfishness that does not contemplate the sweat on the brow of one's soul. All Fall Down was a mission for Adrian: to feed deception to the lions, to make them chew on it, and so it did, to an excruciating delight that made The Sound the bravest band of the eighties. What this has to do with existence is well explained by the ten tracks present: stay away from the itches and feed on the flight, the conscious one, which will lead you to make of this experience the authentic need not of friends, but of healthy punches in the face because where a bruise lives you often find the best ally who then caresses your heart…


There are sound games that many would waste time searching for the root of. But what the hell: can we realise that what brings a smile to your face here is, after all, a scream, a gentle one, that remains so? It's not Post-Punk, it's not Darkwave, it's not anything that could fall into the jaws of a vulture skilled in provocation: what you're listening to is the avant-garde of a future that was soon to come, and Adrian had foreseen it and put it on record, in times not to be suspected…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5th April 2023


https://open.spotify.com/album/3NoUegvQ2S8fUtLK6bPbUl?si=zgoGykb6R8-Wix_Yny2a7g




martedì 4 aprile 2023

My Review: Adalita - Inland

Adalita - Inland


Australia's best rocker returns after nine years with her third album and nothing to say: chapeau!

Her songwriting has become more intimate, the smoothness of the songs has gained, her adult soul has convinced her to think more, and here is the magic and strength that, combined with her voice that, like a feather, knows how to get dirty in black, gives the compositions as a whole a complete demonstration of how the girl from Melbourne knows how to offer rock a new and more complete vision. Everything becomes more musical, complete, it sweeps over the moors of experience with warmth, and the waves of the Pacific Ocean seem to embrace these sonic butterflies that are perfect to be accompanied by an alcoholic beverage. You often get teary-eyed and run happy listening to this work: I would say that even the emotional range proves that Inland is really good. Come on: suitcase and hat and off to Australia once again, happily!


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4th April 2023




La mia Recensione: Adalita - Inland

 Adalita - Inland


La miglior rocker Australiana torna dopo nove anni con il suo terzo album e niente da dire: chapeau!

La sua scrittura si è fatta più intimista, ne guadagna la scorrevolezza delle canzoni, l'anima adulta l'ha convinta a ragionare di più ed ecco uscire dal suo cilindro la magia e la forza che, unite alla sua voce che come una piuma sa sporcarsi di nero, dà all’insieme delle composizioni una completa dimostrazione di come la ragazza di Melbourne sappia offrire al rock una visione nuova e più completa. Tutto si fa più musicale, completo, si spazia nelle lande dell'esperienza con calore, e le onde dell'oceano Pacifico sembrano abbracciare queste farfalle sonore che sono perfette per essere accompagnate da una bevanda alcolica. Si arriva spesso a lacrimare e a correre felici ascoltando questo lavoro: direi che anche il range emotivo dimostri che Inland è davvero valido. Forza: valigia e cappello e si va in Australia ancora una volta, felicemente!


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Aprile 2023




sabato 21 gennaio 2023

My Review: Tide Bends - Your Story

 Tide Bends - Your Story


New York is bad for the skin, good for the heart, it is damaging for the central nervous system, it goes with any colour, but in the end when we talk about music there is no doubt: a lot of it comes and goes from there. And, with a few exceptions, the quality is always enormous.

Then, in front of songs like Your Story, one can only bless the melody, the voice, the music that is born as a result of it, in our enlightened chests, inside the thoughts that become multiple and our thanks fill the river of emotions that gets bigger and bigger, listen after listen. What is the magic that brings pain as you melt into an embrace with the sky?

The answer is in the three hundred and seventy-four seconds of a story that illuminates the morbidity of repeated listening, out of necessity, out of distraction, and it is mostly because of the guitar.

Tide Bends creates a mood imbalance, with this guitar texture that, starting from a marvellous shoegaze matrix, goes off the rails, slips into a psychedelic puddle in the north of the United States and takes us with it to soil us with pure, even if contaminated, beauty.

Everything becomes corrosive but with a smile that leads to abandonment: the rhythm section is perfect, and no, it is not a miracle, Dan Nolan on drums has the psychedelic school in his drumsticks and the salty rhythm of Surf Rock. Gary Zampini on bass is the sensuality of the intelligent force that doesn't press to make noise, but touches his strings gracefully creating a roar in us. Then to conclude, the trio is completed with Dave Hough, guitar and vocals, the magician, the jerk to whom much is owed: a song like this without this guitar would be a good song, not bad right? He makes it perfect, in its minimalism are revealed doses of ocean that arrive in the city of the Big Apple, as in an apocalyptic movie. But what is the song if not a film where the vision provokes upheavals of unexpected peace? There is no joy without tears...

When the guitar takes the shoegaze lanes and lets itself go, we can only surrender, because Your Story becomes our story, that of people lucky enough to be able to enjoy this flow of energy that blows away the superfluous to show us all its mastery...

But if there is a secret, it is that they are guided by an angel who suggests to them not to fossilise in artistic choices and to free the brushes of the heart to capture the mystery...

Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford 

23rd January 2023


https://tidebends.bandcamp.com/track/your-story



La mia recensione: Tide Bends - Your Story

 Tide Bends - Your Story


New York fa male alla pelle, fa bene al cuore, ma è dannosa per il sistema nervoso centrale, si abbina a qualsiasi colore, ma alla fine se si parla di musica non ci sono dubbi: moltissimo passa da lì e parte da lì. E, a parte poche eccezioni, la qualità è sempre enorme.

Davanti poi a canzoni come Your Story si può solo benedire la melodia, la voce, la musica che nasce di conseguenza a questa, nel nostro petto illuminato, dentro i pensieri che si fanno multipli e i grazie riempiono il fiume di emozioni che si fa sempre più grosso, ascolto dopo ascolto. Cos'è la magia che reca dolore mentre ti sciogli in un abbraccio con il cielo?

La risposta è nei trecentosettanquattro secondi di una storia che illumina la morbosità dell'ascolto che si fa ripetuto, per necessità, per stravolgimento, ed è soprattutto per colpa della chitarra.

I Tide Bends creano un disequilibrio umorale, con questa trama di chitarra che, partendo da una matrice Shoegaze meravigliosa, esce dai binari, si infila in una pozzanghera psichedelica del nord degli Stati Uniti e ci porta con sé per sporcarci di bellezza pura anche se contaminata.

Tutto si fa corrosivo ma con un sorriso che conduce all'abbandono: la sezione ritmica è perfetta, e no, non è un miracolo, Dan Nolan alla batteria ha la scuola psichedelica nelle sue bacchette e il ritmo salato del Surf Rock. Gary Zampini al basso è la sensualità della forza intelligente che non preme per far rumore, ma sfiora le sue corde con grazia creando un boato in noi. Poi per concludere, il terzetto si completa con Dave Hough, chitarra e voce, il mago, il sussulto a cui si deve molto: un brano così senza questa chitarra sarebbe una bella canzone, non male vero? Lui la rende perfetta, nel suo minimalismo si rivelano dosi di oceano che arrivano nella città della grande mela, come in un film apocalittico. Ma cosa è la canzone se non una pellicola dove la visione provoca turbamenti di pace insperata? Non c'è gioia senza lacrime...

Quando la chitarra prende le corsie Shoegaze e si lascia andare ci si può solo arrendere, perchè Your Story diventa la nostra storia, quella di persone fortunate per il fatto di poter godere di questo flusso energetico che soffia via il superfluo per mostrarci tutta la sua maestria...

Ma se esiste un segreto è che si fanno guidare da un angelo che suggerisce loro di non fossilizzarsi in scelte artistiche e di liberare i pennelli del cuore per catturare il mistero...


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford 

22 Gennaio 2023


https://tidebends.bandcamp.com/track/your-story





giovedì 19 gennaio 2023

La mia Recensione: Dead Myth - Shores

Dead Myth - Shores


Tre normanni di istanza a Parigi, artefici di una canzone meravigliosa come Love Awakts, dall’Ep #1, arriva all’Lp Shores con dosi massicce di garage psichedelico, noise e spiragli di luce Shoegaze per un risultato che gratta e graffia il cuore con devastanti incursioni piene di acidi e sparatorie sonore, un incubo che conosce e si appropria di trame melodiche in frenetiche agitazioni motorie. A tratti si evidenziano fascinazioni  Rockabilly che ispessiscono i territori delle loro scorribande. Come dei  New Model Army dall’accento francese, con legami evidenti con una ricerca sonora che guarda alla Germania e che ridefinisce la spettacolare nuova stagione alternativa Francese, questo disco è un miracolo vista la fatica che molte band compiono nell’agglomerare stili musicali e periodi diversi. Loro ci riescono benissimo diventando una eccellenza, una novità da cui apprendere. Il rumore qui è una donna spavalda, elegante ma sempre potente nel creare gittate di fango, dove sporcarsi è un privilegio. Fate posto all’intelligenza: ascoltate questo album e la stagione del tumulto splenderà dentro il vostro stupore…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Gennaio 2023

https://timeroomrecords.bandcamp.com/album/dead-myth-shores



domenica 15 gennaio 2023

La mia Recensione: Zephiro - Baikonur

 Zephiro - Baikonur


Roma, la capitale del pettegolezzo, dei circuiti dello spreco del tempo, della moda ritardataria che non porta a nulla, ha ancora però la capacità di conservare il bisogno di differenziarsi, di presentare al mondo esigenze e modalità diverse. Il vecchio scriba pone l’attenzione nei confronti di una band che con l’ultimo disco Baikonur l’ha convinto a parlarne. No, non è un ritardo clamoroso il suo: certe cose abbisognano di studio. E poi si deve considerare un problema reale: questo gruppo e questo album meritano di stare molto lontano dalla città, di arrivare dentro verginità e curiosità ancora vive e in attesa. Occorre quindi capire quando sia il momento giusto per discuterne ed è arrivato ora, quasi un anno dopo la sua uscita. Il luogo ideale per ascoltarlo sarebbe una biblioteca, migliaia di persone sedute, con il cd sul tavolo, le cuffie e il giro cosciente nel Tempo con gli occhi chiusi, cogliendo dentro le note e le parole la fiumana di agganci letterari.

La musica bisogna imparare a vederla e a leggerla, in un insieme che doni come risultato la capacità di coglierne tutto il senso. Tornando al lavoro, è un macroscopico cannocchiale sul mondo, un occhio che lavora e maneggia con sapienza la grandezza del globo terrestre addensando, musicalmente parlando, le preferenze del fondatore del gruppo Claudio Todesco, che si manifestano in uno shaker dove gli ingredienti Post-Punk e un Alternative lieve sono amalgamati, conferendo ai brani la possibilità di non essere fruiti solo da appassionati specifici dei due suddetti generi musicali. Perché la carta vincente è una sensibilità pop che si incolla felicemente, senza però mai prendere la luce del palco. Un disco che per molti è la summa della stagione italiana alternativa degli anni ’80 (no, dallo scriba la parola new wave non verrà mai pronunciata), con la scena Fiorentina su tutte, ma anche qui esiste un dissenso. Queste composizioni sono l’effetto di una realtà che vince, che ha il coraggio di guardarsi dentro, di non annettersi a un percorso limitato dalla nostalgia o da antiche passioni: va ben oltre. Del passato, casomai, vive il riferimento della scrittura, di quella letteratura che consegna testi capaci di ponti, di appigli, come punti di riferimento per tornare a testa bassa a capire il “qui et ora”, senza sprecare nemmeno un secondo. 

Diventa un esercizio elegante e fruttuoso andare oltre l’incanto sonoro che investe l’ascoltatore, perché al di là del fatto che ci si affezioni alle canzoni si può incominciare a intraprendere un lavoro di fruizione di elementi che sono parte integrante del tutto. Ecco, la verità non sta nella bellezza, nella gioia dell’ascolto, bensì nell’utilizzo di questo percorso che spalanca consapevolezze. Il rischio evidente è che in molti si fermeranno a definirle belle, forti eccetera eccetera.

Certamente il suono potente, il mixaggio eccelso di Fabrizio Simoncioni, l’ordine equilibrato delle tracce rendono evidente un contatto immediato, un bisogno e una fedeltà nell’ascolto che diventa una firma nel cuore prima e nella testa poi. Da aggiungere anche lo splendido concept grafico dell’ artwork di Francesca Radicetta.

Quello che occorre sottolineare è la sostanza  delle canzoni che spostano continuamente il bisogno di affossarsi nella ricerca delle loro radici: in questo gli Zephiro precedono pure se stessi e come un’unica anima bisognosa lanciano nei loro dintorni grammi di poesia da una parte (per mantenere lo sguardo dritto verso il futuro) e una manica della camicia arrotolata (segno della consapevolezza che c'è tanto su cui lavorare) dall'altra, finendo per divenire una carta di identità che conosce l'aggiornamento.

E mentre si entra in questo flusso sonoro, nascono esigenze profonde, alcune salgono in superficie (la danza e il canto) e altre invece scorrono nei corridoi della mente e dei battiti, per una manifesta capacità di un disco adulto in cerca di uno sguardo e di un ascolto appropriato.

Baikonur è una goccia dell'oceano che non perde tempo a guardare le altre e avanza, onda su onda, sulla pelle del suo bisogno nomade di correre, volare, respirare il proprio presente per legittimare la sua essenza, sapendo che dove c'è lei esiste possibilità di manovra. Ora andiamo a vedere le nove particelle di questa goccia effervescente e che una nuova possibilità di saper ascoltare in modo profondo non sfugga a chi avrà la grande fortuna di possedere questo album...


Song by Song


1 - Amelia


Il giro del mondo inizia su una nave, l'America è lì di fronte e già dentro di noi, con notevoli giochi di prestigio, di alternanze degli strumenti che permettono di iniziare l'album con la sensazione dell'acqua sulla pelle. Ed è turbolenza Alternative con il suo sapore pop e gli schemi Post-Punk a reggere il tutto.


2 - Crisalide


Il rischio che i primi secondi conducano un italiano a pensare a un nuovo brano dei Litfiba è enorme, ma d'altra parte la mediocrità dell'ascolto è parte integrante del paese dello stivale. Piuttosto, se proprio si cerca un riferimento si dovrebbe guardare a ciò che accadeva in Inghilterra tra il 1979 e il 1980, momento storico verso cui la band di Pelù ha gettato lo sguardo e dal quale ha preso a piene mani. Ma Crisalide è una splendida vipera pop che sfugge, che manda a quel paese chi la vorrebbe come paladina di quel percorso musicale preciso. Lei è impeccabile nel rappresentare solamente se stessa con pennellate di azzurro della chitarra, il basso di Claudio Desideri che è benzina elegante e la batteria emozionante e Indie di Leonardo Sentinelli.


3 -  Khan


Le parole sono il diamante che cattura e ci fa tornare a essere studenti, con la voce di Claudio che le rende sognanti e al contempo credibili. Musicalmente, è un festival di cambiamenti e di capacità nel renderla generosa, imprevedibile, con la chitarra di Todesco che si intrufola sapientemente nel cantato e la volontà di stare lontano da cliché che la rimpicciolirebbero. 


4 - Berlinauta


Il pop nordico degli anni ’90, sconosciuto ma dirompente, si affaccia dentro questo brano, dalla trama evocativa data da un meraviglioso controcanto, dai suoi quasi stop and go, dalle chitarre brillanti che sanno essere ritmiche ma anche circolari, con la benedizione del drumming che riesce a renderla accattivante.


5 - Cosmorandagio


La punta di diamante dell'album arriva e ci fa capire il percorso di crescita della band, l'abilità di non buttarla sul ritmo bensì sulla dimensione dell'architettura degli strumenti, una pianificazione straordinaria che rende perfettamente compattati e omogenei tutti i brillanti di cui sono composti questi minuti di ascolto. Adorabile il fatto che gli Zephiro non si vergognino di essere in grado di scrivere un brano che può essere ascoltato da chiunque, alla faccia delle preferenze del genere. Poesia pop che vi aspetta.


6 - La colpa


Si corre, si rallenta, la voce prende il volo e diventa la bussola del nostro ascolto, sino a quando la band si compatta e sferra un bel colpo nello stomaco, con questa perla rock che entra nel percorso della memoria imprigionata ed ecco il miracolo: la canzone la rende libera...

E la coda del brano è la maturità della band che sulla chitarra sanguigna e aggrovigliata porta se stessa nel futuro, dimostrando la sua indipendenza.



7 - Se scavo più a fondo


Si sta dentro un abbraccio in questa canzone, un trovare se stessi grazie alla volontà di capire e per farlo il pezzo mostra le varie identità sonore e ritmiche, la capacità di entrare nella zona mista di riferimenti pop e rock, che siano italiani o stranieri non importa, è uno specchio pulito che scorre e rende visibile la verità. Una composizione che potrebbe rendere possibile l'intimità anche sul prato di un campo da calcio, in quanto è questo il suo merito più grande...


8 - Fino alla fine


Esistono canzoni eleganti che liberano le persone da tossine conclamate ed è proprio questa a rendere evidente la sua funzione: prima di essere belle, di piacere, devono essere utili e questa lo è, nel renderci coscienti di cosa sia la libertà, nel portare le ombre prima dentro il basso cupo che sarebbe da abbracciare, con la sezione ritmica che diviene evocativa, i canti, i controcanti e i cori che aprono i pori della pelle e ci rendono più leggeri. Tra Indie, Alternative, fiamme di Post-punk educate e Pop qui si fa il pieno di luce...


9 - Di Nostalgia (ft. Miro Sassolini)


È la voce più potente e poetica del panorama italiano ad arrivare qui, a dare la sua stretta di mano alla band capitolina, quel Miro Sassolini che difende la sua attualità e non il suo mito lontano, mostrando come si possa e si debba cantare al giorno d'oggi. Questa unione artistica, posta alla fine dell'album, conferma e approfondisce la convinzione del vecchio scriba che agli Zephiro non sia possibile mettere il bavaglio, che la loro classe arrivi ovunque. Miro non offre la sua collaborazione tanto per farlo: ha letto nel cuore della sostanza del trio romano e ha firmato secondi magnetici e generosi come è nella sua natura. Che è la stessa del gruppo. Si balla col piedino all'inizio e poi ci si alza, si segue la generosità e l'evoluzione del brano, un albero Post-Punk che muta la pelle e cammina nel futuro, e si danza a occhi chiusi e sogni aperti, con il ritmo sincopato che poi saluta e ci costringe a inseguirlo. Chiosa magnifica per un album che farebbe bene a salutare Roma e andare a vivere nel cuore del mondo…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Gennaio 2023

https://zephiro.bandcamp.com/album/baikonur

https://open.spotify.com/album/2Lk0UEtxvptllO1hnePJSZ?si=gI_BrexySZaasvMNkH5ojA





domenica 6 novembre 2022

La mia Recensione: Duramadre - Lato B

 Duramadre - Lato B


La strada dell’avvolgimento conosce peripezie e disgrazie, frutti di sorrisi improvvisi e allodole fuori tempo che resistono. Nell’epoca delle estinzioni in massa c’è una meteora sempre in orbita terreste ed è la Grazia Artistica, quella che arriva e pacifica i terremoti e le zone solitarie di anime perse.

In questa vi è anche il percorso di cinque persone piene di polvere di vita mentre con la loro musica indossano un mantello di verità, a cui non ci si può opporre: parole e musica come pugni pieni di seta, dove si stabiliscono contatti necessari.

Tornano per completare l’identità del loro sentire: dopo il Lato A, con le sue pulsioni piene di sabbia, arriva il Lato B, quello che rivela ciò che normalmente si tiene nascosto, per un risultato di un fiume pieno di autenticità e coraggio. La band è cresciuta moltissimo, si è indurita nella forma musicale arrivando dove avevo immaginato: nel luogo dove i fulmini temono il loro sguardo.

È così: quattro canzoni dove il rock non chiede sincerità bensì la offre, nelle quali non è l’originalità a essere inseguita ma si dona autenticità, e in tutto questo i difetti si assentano, per ammirazione.

Coraggiosi, spavaldi, arcigni, consapevoli: la loro identità si completa con il loro lato migliore, in cui tutto si stabilisce dentro la spiaggia del tempo che conserverà la memoria di questo percorso di crescita indiscutibile. Guidati dalla voce da Dio Greco di Evangelos Voutos, i binari musicali presentano canzoni come treni veloci e capaci di arrivare in tempo, se non in anticipo, con la bellezza e il godimento. Costituiscono anche una tavola di colori dove la tristezza e la preoccupazione risiedono dentro storie e immagini che semplificano un sentire profondo. La parte elettronica guidata dal camaleontico Alberto Sempreboni conferisce freschezza e la continuità di quello che avevamo sentito in Lato A. E quando suona il basso sa far tremare il sole.

La chitarra di Stefano Savarese è semplicemente perfetta: ritmiche e assoli potenti, intuitivi, riusciti e travolgenti trasportano la band di Roma direttamente sul palco della grande qualità.

Piero Motta, con la sua tastiera, ha dita delicate e magnetiche, contribuendo a conferire un senso di compattezza ed elasticità all’interno di un suono e un atteggiamento sempre più rovente: il suo strumento stabilisce la coesione e la coerenza di una band che osa.

Di Francesco Cassano posso dire che il suo cuore allarga le sue capacità tecniche: le sue bacchette scrivono poesie ritmate con grande gusto e e propensione magnetica.

Evangelos: bello e vero come il cielo, notturno, diurno, sempre sveglio per poterci far sentire amati. Le sue parole sono cresciute in modo che ora sono donne adulte dal fascino irresistibile, volenterose di creare smottamenti e grande dipendenza attraverso uno stile che agguanta il passato e lo seduce nel presente. Tecnicamente in grado di riconoscere doverose e necessarie migliorie, l’uomo di Pomezia è ora un vigile della verità, regalando parole come pallottole alle quali affezionarsi, senza aver paura: direi che come miracolo sia davvero enorme.

La band ha messo nel suo ventre una disciplina e volontà di fare del loro tempo qualcosa di generoso: donare se stessi in questo modo è certificare il rispetto di intuizioni, progetti e verità che rendono il tutto spaventosamente concreto. A loro non piace fingere, scrivere canzoni come calamite per nascondere mancanze e falsità.

Quattro esempi di come la storia del mondo possa essere rappresentata, dove il genere musicale non è la propria identità ma dove sono le canzoni a esserlo come loro testimoni di luce. 

Lo scriba decide che può solo invitarvi all’ascolto che, ne è certo, diverrà assimilazione e una vorace propensione a nutrirsi di questi pugni che, nella prima e ultima traccia, vedono due voci femminili donare con stili diversi il tocco dell’incanto. Non era facile integrarsi e sviluppare eventuali apporti personali, ma sia Marilina Vanni sul brano “Misericordia e fango”, sia Thalatta Alternaif su “Regina della fine” hanno dato segnali di luce baciati da classe immensa.

Si respirano profumi epici con “Misericordia e fango”, uno specchio che cerca di formare l’identità con una valanga di fango pieno di voli, dentro una attitudine rock capace di contaminarsi nella nebbia elettronica.

“Distante”: quando melodia e potenza salgono sul cavallo che trotta con la bava alla bocca si assiste a uno spettacolo che sa essere amaro, un sentirsi fuori posto con la sola consolazione di un dialogo. Una frustata dove le distanze si parlano, cadendo, in totale sincerità.

Tutto il mondo nevrotico degli anni 80, rimbalzati nel rock di “Lei non c’è” dove il canto di Evangelos sorprende, stupisce per la sua modalità che nel ritornello rivela la capacità di uscire dagli schemi. E la sezione ritmica schizza nel cielo sino a un meraviglioso assolo psichedelico.

Siamo alla fine della corsa, con l’aurora candida di “Regina della fine”, l’ultima meraviglia, a donare lacrime e sangue, con la sua struggente propensione al martirio, alla condanna consapevole. Giochi di cambi ritmo, di strumenti che si alternano nel ruolo di scrivere una canzone potente, dinamitarda, che quando rallenta si mostra ancora più scorticante.


Cosa aggiungere? Sono ossessionato dalla loro schiettezza, dal fragore suscitato nel mio petto, da una manifesta capacità di andare coerentemente nel non luogo, perché non ho dubbi che non troveranno il riscontro che meritano dal momento che il Paese della Cultura sa come offendere e dimenticare se stesso, uccidendo di solitudine una band così talentuosa come i Duramadre.

Ma confido nell’intelligenza di chi non si stanca di cercare qualità: Lato B ne è uno splendido esempio…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

6 Novembre 2022

https://duramadreband.bandcamp.com/album/lato-b









venerdì 28 ottobre 2022

La mia Recensione: Lalli - Tempo di vento

 Lalli - Tempo di vento


Carcassonne

“L’unico castello costruito
 verso l’orizzonte è quello degli uccelli.

L’altro è un rifugio per i poveri
 che sempre esigono autorità

mettendo in scena il teatro delle cameriere
 nelle voci nascoste della sera.

Il trovatore inzuppava il pane nelle fontane,
nelle taverne più nascoste,

beveva da quell’altro campo,
 prelibato come la merda dei re.”

Juan Arabia


Esistono anime protette, perché non possiamo infierire su di loro. Per volontà celeste. 

Anime pregne dell’essenza del tutto cosmico che hanno avuto il compito di illuminare gli stolti, di seminare la verità degli abissi, di glorificare i doni avuti.

Uno di quelli è la voce, la prima porta di comunicazione. 

Poi la scrittura che passa attraverso quella voce.

Lalli è piccola, come Samira (una sua canzone), di quella statura che ti porta a guardarla dall’alto verso il basso vedendone i piedi per primi, la radice di ogni gravità. Lei ti porta alla genuflessione della coscienza, particella siderale il cui destino è quello di abitare le anime profonde. 

Lalli.

L’inizio di un canto che è preghiera pagana, spirituale, generosa, calda, scuote e abbraccia e genera il bisogno di abbandono.

Donna dalla carriera immensa ma poco nota, ha sbeffeggiato il successo sin dalla tenera età: altri erano i cieli a cui lei ambiva e ancora li segue, raggiunge, descrive.

E dopo la formidabile palestra di vita dei Franti e alcuni passi in altri progetti, eccola aprire i suoi forzieri, metterci le mani e pilotare l’arcobaleno verso la perfezione. In una fascina dove i colori della temporalità vengono accesi, sparsi verso acute osservazioni, riportati dentro il suo cuore e poi direzionati verso Lei, la sua voce, impianto al di fuori di ogni definizione.

Lo fa con un album che continua a sconquassare, a nutrire, un uragano che con la sua maestosa bellezza concima mentre straripa nel cuore, nella mente circondata da una umanità unica e quindi intoccabile.

Perché non si tocca il vento.

Lalli lo prende e lo incolla dentro noi con canzoni come fiori di assalto, una sommossa per far scongelare le nostre pochezze. Sono undici folate atte a svegliare i sentieri fatti di diverse guerre e dove uguaglianze e mancanze di rispetto attraversano la sua penna per erudirci, informarci, svegliarci.

Perché il tempo non dorme mai e lei sveglia il vento per farcelo sapere.

Un album scritto da un’adulta con la saggezza di una bambina, una scrittura che mostra tutte le diramazioni che un sole nasconde solitamente, per desolata complicità di esseri umani così lontani dalle vicende quotidiane che loro stessi causano.

Lalli mastica e sputa pallottole, la forza delle donne che hanno rughe più marcate perché chi partorisce la vita soffre di più. Lalli cammina e lascia orme, mentre Pollicino mangia la sua maturità che viene sparsa dal vento…

E allora la sua potente propensione a non disperdere le gravità dell’animo umano la conduce ad abitare dentro la responsabilità di essere un respiro che alza per un attimo lo sguardo con testi che, tra poesia e mistero, arrivano alla nostra mente, sperando che il tempo del vento sia in grado di far nascere una scintilla intelligente.

Canzoni come bombe, che finiscono sulla neve che nulla può fare se non testimoniare la follia lasciando tracce di sangue sulla sua pelle. 

E poi l’amore.

Sceglie e prende Marlene. 

E basterebbe già questo.

Invece lei cammina lenta, dentro ogni rosa, per mostrare l’orgoglio e il diritto di esseri con identità mai davvero conosciute del tutto.

Racconta la vita con storie antiche dentro questa attualità violenta e ossessionata, dove ogni contrasto sembra generare entusiasmo e perdizioni. Come sempre, l’artista Astigiana si oppone, come una fiaccola dentro una bufera, destinata allo spegnimento, ma lei ha la forza di riaccendersi ogni volta, in ogni canzone, in ogni nota che la sua voce permette. Ed è un delirio di incanto struggente, la consapevolezza che in quella donna dalla bassa statura fisica esiste un infinito di concreta capacità di analisi che la rende vasta e immensa come la volta celeste.

"Tempo di vento" è il miracolo che la canzone italiana quasi quasi non merita: dove tutto è fatto per stupire, per portare consensi, qui invece abbiamo la maturità che vive da sola e si dissolve nel silenzio dell’indifferenza generale. Talmente potente che viene abbandonato sui pochi scaffali dove faticosamente è arrivato, al limite ascoltato e poi lasciato nella polvere, che mangia l’anima. Ma di cosa è fatto questo viatico?

Degli elementi della natura che si stringono dentro la necessità di una convivenza con l’unica bestia che ha distrutto il sogno, quell’uomo capace di creare catastrofi non necessarie. E lo spirito anarchico di Marinella continua a esistere, per una necessità che la rende sempre più piccola, sempre bella, sempre ostinata nel non cedere di un passo, malgrado quegli elementi sempre di più cancellati dal vento umano.

Simboli, immagini, racconti, memorie, l’amore che fa impazzire, la crudeltà: lei ne rimarca la validità, la presenza, per seminare speranze che arrivano solo dopo attente riflessioni. 

La musica di questo album è un vestito di perle, di scorie, di arpeggi, di arrangiamenti celesti, di schegge che lacerano la pelle, di generi musicali che attraversano i versi per portare la sua interpretazione verso l’eternità, in un matrimonio artistico che ha l’appuntamento con l’autenticità e la speranza. Ogni nota entra chiedendo permesso, un gran lavoro di limatura trasferisce un’unicità dentro il nostro abbraccio, tra oriente, occidente e il sud del mondo. La storia parte con la guerra e la musica non fa che evidenziarne le gravità, le bassezze. Quando è il futuro che necessita respiri, ecco che l’apparato sonoro dipinge l’atmosfera e le giuste propensioni per donare agli occhi di Lalli il terreno che si fa ancora più fertile. La luce e l’ombra entrano nell’aria dagli strumenti che sanno perdonare i nostri fragori illuminati dalla violenza, per riuscire a perfezionare ogni intenzione che l’ex cantante dei Franti cerca di fissare.

Gradevolissimo l’ascolto anche quando le lacrime accendono gli occhi e i battiti si fanno irruenti e spaventati, ma tutto di questo album profuma di amore, perché capire come vanno le cose è l’atto più grande che lo riveli. 

Lalli sa come fare, ci sa fare per davvero, e i suoi pugni sono poesie che cercano un orecchio, perché la sua voce, vellutata come un tuono che seduce invece di creare timore, ha il compito di spalancare l’anima. 

Non si può negare come gli argomenti trattati, la modalità, siano la legittima conseguenza di uno spirito indomito, e anche questo è l’insegnamento che ribadisce la sua forza. Non spreca un centimetro della sua esistenza, continua con l’elmetto e i fiori a calpestare le chiavi dei nostri guai, per farci vedere oltre lo specchio, che non va usato per riflettere una identità che non viene mai discussa seriamente. Lei lo fa con parole come sequoie, resistenti al vento, al tempo, alle banalità. Vocaboli attaccati a esigenze comunicative che hanno una scadenza, perché tutto precipita, e in queste undici tracce lo evidenzia perfettamente, mettendo gentilmente fretta ad ogni nostro gesto sbagliato, tracciando nella mappa dell’insistenza l’appuntamento con un agire diverso.

Genitori, donne in attesa perenne di un cambiamento che non arriva, bambini impolverati dalla violenza adulta, città squartate, bombe che precipitano senza sosta , giardini che si spengono tra quindici e più pietre, i sorrisi e i gesti che lei immortala meglio di un fotografo.

Questo è solo un milionesimo di ciò che si trova in questo album, terremoto allucinante per gli egoisti, l’opportunità di accendere il sole del futuro per altri, per un viaggio che cambia l’identità, un passaporto morale che va rivisto, mentre la sua ugola vibra di pioggia e polvere da sparo, esempio unico di un sentire universale condannato a essere privilegio per pochi. Nel tempo in cui i petali sono senza profumo, lei ci porta l’odore del vento, testimone di quello che accade in questo pianeta sempre più brutto. Lalli, guardiana della verità, scrive ciò che va assolutamente scritto, con il groppo alla gola e lo sguardo sempre vigile. Nulla cambia dentro la sua anima attenta e queste canzoni confermano che la sua abilità non possa avere un sorriso largo, debba divenire un fiume in piena in punta di piedi, con la fragilità che giocoforza deve trasformarsi in una proposta che scombussoli il gioco delle prepotenze.

Lei non è alla finestra per vedere il tempo passare: sale sul vento e ci porta tutto ciò che vede, dove sono certo che non vorrebbe parole ma un abbraccio silente, il migliore dei pentagrammi possibili.

La cosa che l'autrice evidenzia maggiormente in queste tracce è la necessità di vocaboli che consentano la convivenza tra l’agio e il disagio, per un processo di impegno che possa dipingere le brutture di colori colmi di sole, con la temperatura che veicola respiri morbidi e agili.

Da quel processo si arriva alle canzoni che devono essere preferite, basta che nascano al mattino anche se impazzite, ma con l’intenzione da parte di chi canta di vederle volare serene.

Indubbiamente un lavoro che farà fatica ad avere l’ingresso facilitato, dovrà alzare i gomiti delle persone che cercano nella musica il territorio del conforto, del disimpegno, di benedizione del vuoto. L’arte della musica per Lalli è cultura, opportunità di messaggi viandanti che devono atterrare, e il suo vento è proprio questo che fa. Ce li porta, tutti.

Abbiamo post-punk, alternative, respiri sudamericani, parvenze pop, jazz e blues sapientemente mascherati e incrociati a tutto il resto, echi di musica classica tra le pieghe del vento di note bisognose di essere un mappamondo stilistico senza bavagli. Del Rock si sente l’urgenza e il sudore che finisce sulla sua pelle consumata da fatiche alle quali Lalli ci dà l’accesso, e in certi momenti è proprio lui che sembra il guardiano del tempo e del vento che lei descrive perfettamente con canzoni che odorano come un incontestabile raccolto di frutti che dobbiamo saper masticare.

Ma, ancora una volta: tutto questo costituisce solo una parte, perché gli ascolti qui vanno ripetuti e precisati, senza dispersioni.

In alcuni frangenti però giunge qualcosa di morbido, di sostenibile senza dover gocciolare tensioni e paure.

E tutto questo è posto in modo vistosamente leggero, per consentire alla sua voce di volare dentro “cieli più sottili”…


Song by Song


1 Brigata Partigiana Alphaville (A mio padre)


È subito magia, tra violoncello, chitarra, basso e batteria, per un incrocio stradale di melodie e parole piene di riconoscenza. Un grazie per una memoria che costruisce rispetto e identità, dove la Storia va imparata e codificata attraverso un contatto umano che renda le anime vicine.


2 Tempo di vento


Buia, quasi cupa, la parte iniziale del secondo brano è una finestra rotta che lascia entrare panorami esistenziali pregni di fatica e abitudini che svelano il cuore mentre impazza. Quasi trip-hop, dal vestito mutante, la voce delinea la faccia triste della poesia quotidiana, per un’immersione intima che, attraverso la modalità cantautorale, ci fa ascoltare il tutto con grande partecipazione.


3 Aria di Buenos Aires


Le civiltà si incontrano sebbene esistano distanze pesanti e ingombranti. Lalli unisce Torino e Buenos Aires in un gemellaggio intellettivo attraverso arcobaleni fermi, la musica sottile, chitarre accennate e la storia che lei disegna tra le nuvole. Ci penserà quello che potrebbe essere un desueto lungo ritornello o, meglio, una strofa che cambia pelle, a dare un nerbo improvviso a un brano che gridava già dentro la testa.


4 La mia faccia


Leonard Cohen anticipa la cover che più avanti prenderà posto nell’album e lo fa per via di una brano proprio di Lalli: è magia cupa che inonda le strade, quelle delle identità che soffocano dentro i giorni. Per farlo bene la musica è un ronzio, un sibilo, con la batteria che batte pesantemente sulle verità che escono fuori dalla poetica della cantante. E la voce è una richiesta di aiuto, per scacciare la solitudine, in una modalità dirompente e raffinata. La perfezione esiste e dura duecentosettantuno secondi.


5 Fuochi I


Rintocchi di piano che galleggiano sul fiume e sui coralli, un cerchio drammatico, intimo, un canto quasi Navajo, una invocazione che diventa evocazione, sino a divenire una corsa che coinvolge gli strumenti, come una sciabolata progressiva, con il compito di amalgamare il terremoto emotivo che Lalli descrive con incredibile precisione.


6 Mostar


Quando la crudeltà sanguina sul bianco della neve…

È ipnosi che fagocita l’ascolto, tra un organo, un suono soffocante e la storia di una guerra che graffia il confine tra la gente e i potenti. Un frastuono che ghiaccia la nostra resa davanti all’inesorabile per una canzone che disegna ombre e orme in cui sprofondare. Una marcia che stanca ogni euforia, mentre la neve si ingolfa di macchie rosse e i suoni penetrano l’anima. 


7 Famous Blue Raincoat


Lalli prende il cantautore dalla penna più eccelsa e interpreta, canta, piange sul microfono dentro la poesia che veste la malinconia e la nostalgia. Ed è jazz camuffato, pieno di un'anima blues che si nasconde pure lei, mentre il sax di Stefano Giaccone viaggia sornione tra note sensuali. Si chiudono gli occhi, si viaggia dentro ciò che non si può catturare ma solo avvertire: è la poesia che dal suo trono ci guarda e racconta ciò che non siamo pronti a perdere.


8 Fuochi II (Occhi lucidi nella notte)


Il secondo tempo di fuochi che stavolta conoscono la modalità di un crooning che ci solleva dalla percezione verso la conoscenza di una storia che si conficca negli occhi nostri, pesti. Magnetica, gravemente pregna del connubio tra poetica sublime e una storia fatta di sofferenza. Tutto pare accennato, sul piano musicale, con la convinzione che l’ascolto ci porti dentro il Virus, centro sociale chiuso e che determina l’ennesima sconfitta.


9 L’uomo col braccio spezzato


Una chitarra quasi perversa lascia posto a una melodia che si ingentilisce per far entrare gli occhi di Lalli che viaggiano nell’abisso del mare. Poi accenni di arpeggio, le bacchette della batteria che battono quasi gentilmente sui tamburi sino a quando tutto si fa tempesta, per pochi, interminabili secondi. Il registro della voce sale nel cielo e noi davanti a questa bellezza ci facciamo piccoli.


10 Le donne quando restano sole


Una delle canzoni più belle di sempre arriva con l’amarezza ai lati della bocca, per sprofondare dentro la pochezza maschile e la sua violenta propensione a spegnere la lealtà. Una donna nasce e cresce con consapevolezze che la rendono estranea davanti ai giochi di potere dei maschi, e l’amore nasce proprio lì, nello stringersi senza aver bisogno di loro. Musicalmente siamo davanti ai soffi, ai sussurri di note che sanno aggravarsi al momento giusto per meglio definire certe pesanti precarietà. Un alternative rock efficace e perfettamente cucito addosso a parole che sono di piombo solo per chi è insensibile con uno dei lati della identità umana…


11 A Donatella


Questo capolavoro trova la perfetta conclusione con una ninnanna disegnata da un pianoforte essenziale, comprendenti il cantato caldo di Tommaso Cerasuolo e Rosalma per un finale toccante e profondo. Tenco  entra nella sensibilità di Lalli e l’abbraccia, consentendole l’ennesima prodezza stilistica con una interpretazione sicura, che salda l’amore mancante.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/2WgWu9df1Wu4Cldrj8Ai7W?si=Eh6i-aO3T2mpgckINMsqeg





My Review: Duran Duran - The Chauffeur

  Duran Duran - The Chauffeur  When fairy tales are tinged with black, burdened with drama, sinking their hands into the sacrilege of pain, ...