Visualizzazione post con etichetta Bela Lugosi’s Dead. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Bela Lugosi’s Dead. Mostra tutti i post

lunedì 18 luglio 2022

La mia Recensione: Bauhaus - Bela Lugosi’s Dead

 La mia Recensione:


Bauhaus - Bela Lugosi’s Dead


Quando la giovinezza consegna un gioiello all’eternità: la brevità di questo periodo della vita di un essere umano rispetto a ciò che non muore mai, che non ha fine.

Questa è la canzone dei Bauhaus. C’è già tutto.

Esageriamo e forziamo la mano: proviamo a dire anche altro.

Non è difficile avere la mente che, pulsante, ci spinga a considerare tutti questi nove minuti e mezzo come la dimostrazione di un post-punk sperimentale, innovativo, efficace, col suo nugolo  di trame  striscianti e malate, su un ritmo balbettante, nevrotico e ticchettante.

Se sono le definizioni che vi servono potrebbero già bastare.

Come basterebbe pensare a questa chitarra feroce, dub, con le unghie scivolose e nerastre, il suo mantello inquieto e minimale, il suo tagliare il pentagramma con i sui graffi dagli echi vistosi e tentacolari, magnetici, gli accenni, i ripensamenti, le accelerate a grappolo di inquieta attitudine.

La batteria che sembra l’esaltazione della scuola tedesca e russa la cui caratteristica è di partire dalla semplicità e di rimanere in quei luoghi.

Si ascolta un basso con effetti di eco nell’anima più che nel suono, una definizione del tutto con poco lavoro sui polpastrelli: dove c’è l’ipnosi il resto è superfluo.

Evidente rappresentazione di una creatività senza catene e con la bava alla bocca, il brano nasce per non morire, avendo trovato nella sua partitura una complessa adunata di misteriose gemme che si sono inserite per evolvere l’ispirazione che sostiene e sosterrà sempre la convinzione dello scriba che solo la perfezione abiti nel cuore della notte che si coniuga con l’infinito.

In fondo la canzone è il palco di un teatro e anche l’esaltazione di un film, che sono gli esempi di come l’eternità appartenga solo alle arti rappresentative.

La morte non morte di un personaggio come Bela Lugosi.

Lui che aveva portato la sua eccentrica presenza in una pellicola che, pur nella sua essenza colma di imperfezioni, aveva reso il vampiro Dracula figlio dei luoghi diabolici destinato a vivere per sempre, sul palco e fuori dallo schermo di una sala cinematografica.

Ciò che questa canzone ha fatto nell’immaginario di molte persone (riuscendo spesso a invadere anche la corsia della realtà) non trova spiegazione logica seppur sia evidente che sveli originalità, innovazione, che sia l’esempio di come si potesse creare qualcosa di magico miscelato al mistero, all’inafferrabile.

Ancora una volta: basterebbe tutto questo.

Considerato come l’inizio del movimento gotico musicale, il vero start di una moltitudine espressiva che ancora oggi pulsa, anche se faticosamente, Bela Lugosi’s Dead è stata capace di offrire al post-punk una risorsa piena di gemme nuove, di sbeffeggiare la musica che sembrava essere alternativa.

In queste note si scavalcano i passi dolomitici, le onde del mare e si vive dentro un terremoto senza spegnimento. La foresta cerebrale dei quattro di Northampton trova un campo magnetico, sistematico, sovversivo e paralizzante dove far convergere follia e magia, dove dare al teatro il coraggio del cabaret che scende nelle note musicali come tempesta ormonale, malata, un latrato che fa morire solo chi l’ascolta.

Le parole del testo non sono certo un esempio di classe, di tecnica sublime, di manifesta superiorità letteraria, però evidenziano come, unite al cantato, all’interpretazione e alla musica diventino intoccabili, perfette, suggestive, madri, figlie e nipoti di un vestito che avvolge ciò che gli potrebbe essere anche superiore. Ma sono sillabe collegate alla notte, buie e spettacolari, e rendono gli occhi vittime di un sequestro ineludibile.

Divenuta la canzone iconica per eccellenza della loro intera carriera, dimostra anche la distanza da tutto il loro proseguo: l’unicità che non poteva duplicarsi, nemmeno in laboratorio.

Rimane anche il loro respiro migliore, quello che, oltre a influenzare generazioni su generazioni, renderà anche evidente come il tutto sia stato un fatto isolato. 

La presenza di una intimità che vuole uscire dal guscio per specchiarsi nella potente immagine di Lugosi è resa speciale minuto dopo minuto dal suo incedere verso una finta eruzione perché, magistralmente, i Bauhaus capiscono che dove c’è una esplosione muore tutto. Loro invece esaltano l’incedere senza dargli fuoco, tenendoci appiccicati agli amplificatori, come schiavi ubbidienti.

Quello che nacque dopo questo gioiello cavalcò il bisogno dei ragazzi di perseguire mutamenti Art-Rock e di segnare, sin dal successivo album di esordio, una notevole distanza da queste atmosfere e modalità di espressione: sono partiti da uno scheletro per arrivare a descrivere, nel loro diritto artistico, la pelle della loro arte.

Ed è vocazione, inchino, estasi, rispetto e attrazione quello che l’insieme di questo gioiello nero propone, offre, spalancando lo spazio per tremori, balbettii, passi incerti, sino ad immedesimarsi nello spettrale palcoscenico che è stato registrato in una sola sessione: nulla si poteva aggiungere alla perfezione macabra che aveva sequestrato già gli stessi autori.

Daniel Ash viene folgorato dalla chitarra di Gary Glitter del brano Rock and roll part. 2 e partendo da alcune sue parti fece un lavoro intenso e particolare sino poi a trovare una sua strada, lastricata di tempeste e ruggiti vaporosi, sciabolate oblique a ferire quegli accordi originali. Con l’incipit iniziale di David J, unito proprio a questa fase generata da Daniel, la canzone ebbe un punto di partenza che poi si allontanò per far nascere il mito di brano guida per nuove generazioni visionarie ed estreme.

Tutto ciò in una forma horror che elettrizza le cellule dell’ipnosi in una decadente manifestazione di delirio collettivo, nessuna delle parti risulta essere dominante ed è in questa compattezza che tutto trova il modo di dare al senso della coralità proprio la magia più grande.

Indubbiamente le capacità tecniche di ognuno dei quattro sono evidenti, dando però al sottoscritto la convinzione che Peter Murphy sia senza dubbi il miglior cantante di sempre per diverse qualità davvero particolari, specialmente perché unite in un unico contesto.

Con tale dimensione immaginifica, la sua propensione a compattare le parti, la tendenza a generare l’entusiasmo su un argomento che divertente non è di certo, ecco che si sono generate tutte le condizioni per divenire ascoltatori inebetiti, convogliati nei pressi di una proiezione che inchioda sulle poltrone di un cinema-teatro, dove la danza sepulcrea viene esibita e protetta per generare dipendenza.

La natura selvaggia e raggelante della struttura compatta modalità diverse, ma manciate di polvere magica hanno unito le parti per un combo che ha mischiato le carte di diversi generi per impastare il tutto con una stratificazione e il lusso di avere dato in quelle sei ore della registrazione del brano la certezza che una nuova entità aveva guadagnato lo status di intoccabilità, che dura da decenni. Può una sola canzone condurre una band su un trono? Può tutto questo generare seguaci e distribuire il dovere di rispettare la genialità che guarda alla morte e non alla vita?

Nessun dubbio nella risposta.

Il loro primo brano è stato sicuramente il vertice assoluto e purtroppo loro sono scesi da quel palco per la qualità compositiva che non è stata più a quei livelli di creatività e magia.

L’ascolto deve essere compatto, mai cedere alla tentazione di considerarlo troppo lungo, perché l’intenzione dei quattro è quella di sfibrarci, decomporci, entrare dentro la bara del Conte e aspettare nuovi eventi su cui sbavare.

La versione originale del singolo rimane nettamente la migliore di tutte: il rito viene congelato, stratificato, compattato, ogni influenza risulta presente come piccole ombre e gli aspetti originali dei quattro trovano risalto. E possono andare all’assalto ogni volta rimanendo fedeli a loro stessi. 

Tutto si fa vapore acqueo in un mare di sudore cupo, con i confini dei sentimenti presi a calci sui denti, dove la follia viene concessa per partito preso, in un delirio atomico che non genera conflitti esteriori e interni bensì conforto, rifugio, esaltazione.

Può esistere una sola perfezione per ognuno di noi e per i Bauhaus è proprio questa sciabolata che ci rende cuccioli e imbalsamati, nella giostra di una fascinazione che crea il mito e lo conserva.

Quando la bellezza ferisce gli argini delle nostre difese le diventiamo devoti, saldando i nostri debiti verso le caverne che custodiscono ogni atomo di questo flusso elettrico, ancestrale, polposo. 

Molto probabilmente è l’inno di ogni castello infestato di storia e cadaveri aggrappati a fantasmi ansiosi di risorgere: saranno le rose nelle mani dei quattro a benedire i loro sogni su queste note propense alla beatificazione gotica.

Tutto ciò che precede il canto di Peter al minuto sei e venti secondi è la sanificazione delle nostre menti impaurite: poi ci pensa il cantante scheletrico ma voluminoso di schegge ansiogene con la sua “oh Bela” a far deflagrare ogni timore per inglobarci nei cunicoli della sua maestosa potenza, non solo vocale, ma anche  sensoriale. Se l’estasi, l’orgasmo, la perdita di ogni rifugio mentale è possibile, questo è il momento perfetto per individuarlo. 

Se esiste una canzone in bianco e nero, come una statua sulle polveri commosse dei nostri ascolti, è sicuramente questa, con le punture velenose di chitarre paranoiche, il basso che sembra minacciare la caduta nel sepolcro e il canto di Peter a far alzare in volo ogni grido di voluttuosa remissione a ciò a cui è impossibile negarsi: la morte qui diventa il luogo della pace e della adorazione, niente di più artistico e credibile per un viaggio nelle corsie spiritate di menti soggiogate.

È un concorso di ego spaventosi che legano l’essenza dei quattro di  Northampton per una volta su un mantello di microchip funzionali ad una scarica elettrica/motivazionale senza possibilità di contestazione, e dove, come un miracolo temporale, riesce a divenire l’unica manifestazione di altruismo, perché con questo inno siamo tutti investiti da una generosità che, alzatasi da una cripta, infetta ancora i nostri desideri. Per fare del nostro ripetuto ascolto un sacrificio accettato sin dalle cellule più refrattarie, provocando sinapsi angeliche dal volto tumefatto ma felice…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Luglio 2022


https://open.spotify.com/track/1wyVyr8OhYsC9l0WgPPbh8?si=OMKDYtkNQjOsjFN_GinoCg









La mia Recensione: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

  Sinéad O'Connor - The Lion and the Cobra In un mondo che cerca la perfezione, i capolavori, lo stupore garantito senza dover fare fati...