Sacred Legion - The Silent Lineage
“Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti”
Jean-Paul Sartre
Una corsa corsara, le vie buffe di un passato che flirta con le ferite si catapulta nel groviglio nevrastenico di musiche col rossetto, perfettamente fissato al mistero che resoconta se stesso, nell’impermeabilità assordante che frattura attese e pretese.
Dalla provincia di Frosinone tre figure adulte lavorano al tornio, circondano i fianchi dei luoghi comuni che vorrebbero avere sempre la certezza che ogni definizione non possa essere scorretta. E allora la fantasia povera al potere parla di “Death-Rock, Dark-Wave, Post-Punk”, come impeto di volgare approccio. Ma la band ciociara non ha nel repertorio la necessità di viaggiare con l’identità definita dagli altri: il terreno di manovra è assolutamente improntato su una libertà obbligatoriamente limitata perché necessaria a descrivere le derive umane, dove la consolazione e la cultura, di derivazione letteraria, favoriscono confini maggiormente precisi. Il sacro spazio temporale governa gli spasmi liturgici di composizioni che fanno arrendere ogni circolo vizioso. Sono molto distanti quei gruppi di riferimento ai quali la band di Fabiano, Mirko e Tony vengono associati. L’album è uno scatto da centometrista (data la brevità dei suoi ventiquattro minuti) ma vive della propensione del maratoneta, visto che l’ascolto, quello ripetuto attentamente, mostra l’attraversamento della storia, con la geografia che costruisce fattezze fisiche, sino a dare ai volti una luce che rivela complessità. Tutte le otto canzoni preconizzano un futuro da marchiare nei loro percorsi intellettivi. I tre puntano le proprie raffinate abbondanze stilistiche per accerchiare la realtà, frenando i postumi della sbornia stilistica di diversi generi musicali. È attesa orgasmica, è precipizio di un raffinato combo abrasivo, con le chitarre che martoriano il vascello di impulsi nati nella ricerca. Fabiano articola i pensieri con impeto luculliano, scartavetrando le banalità.
I suoni curano la strafottenza, si dipanano nella scuola di una modalità che favorisce una strana forma di “orecchiabilità”: alcuni ritornelli sembrano favorire l’espressione di “pop gotico in cerca di sbavature imprecise”, una modalità che può far avvicinare anche chi è meno avvezzo a queste inclinazioni climatiche e sensoriali, a questi testi che sondano e portano alla luce un bisogno famelico di congelare le verità.
Cinque parole si ripetono due volte, generando una planimetria degli indirizzi mentali.
Heart - Eyes - Life - Back - Dream.
Eccole, queste regine mastodontiche, che pilotano nel marasma di un lieve cut-up un ordine preciso di intenzioni.
La musica non compie panegirici, non potrebbe: rivela, rappresenta, seduce, martella, graffia, collega l’umore e gli odori di quella scrittura con cui dialoga, combatte, stabilisce patti sanguigni. Il basso di Tony, con fare querulo, riesce ad avvicinare l’apparato uditivo al martellamento con il fiato grosso. La batteria di Mirko è scaltra, usa toni di lancette impervie, caparbie, dove la fantasia di contro-ritmi, stop and go e percuotimenti indagatori stabiliscono l’effervescenza di un tutto che sembra sfuggire a se stesso. Allora si riscontra la notevole dose di spazi che si concedono i musicisti, le pause, gli ingressi e le uscite che fanno da colla alle intenzioni.
The Silent Lineage non segue il pellegrinaggio di band vedove del passato, non torna indietro a rovistare tra le stelle e i rifiuti, né tantomeno salta nel futuro come un canguro ubriaco. Definisce l’immediatezza, documenta, sapendo molto bene che gli stupidi cercano riferimenti, impedendo di individuare la verità e la realtà.
Ed è qui che la band evidenzia la propria lealtà, la capacità di cadere nell’imbuto restrittivo dei generi musicali, preferendo adottare il sudore, il silenzio, il caos che unisce le anime nei territori famelici delle sessioni di prova. Assistiamo, dunque, all’uscita del seme della loro grandezza, quella unicità che collega la ricerca e che sodomizza l’indifferenza.
La brevità delle composizioni offre la possibilità di meglio storicizzare i graffi, gli urti, gli inchini ai sogni, fraudolenti, tiepidi, che si tuffano nella vita con poco fiato.
Giocano, dipingono, pastrocchiano con la storia indirizzandosi verso una modalità restrittiva: non abbisognano di ridondanze, di effetti boriosi ad annullare i sentimenti. Ecco, sottolinerei che la compattezza nasce dal cancellare l’ipotesi che la loro musica sia una passeggiata sonora, come abiti in cerca di applausi.
Assolutamente no: chi ascolta queste otto canzoni vede pochi raggi, ma nella loro potenza la verità viene colta ed esposta alle torture, che sono magie (non bianche, tantomeno nere), permettendo all’apparato artistico di essere una profilassi precisa di una ricerca che cura il dolore.
Quando ciò che si sperimenta è privo di istruzioni lo sbandamento diventa la gioia più sublime: perdersi diventa una risorsa e i Sacred Legion sanno come raggruppare i sensi, nel disarmonico e meraviglioso peregrinare notturno, con sottili ma potenti intuizioni. L’album interroga, esorta, non pretende, offre sciamaniche propensioni al rifiuto della storia nella sua manifesta violenza e per meglio indicizzare l’ascolto struttura la musica nei pressi di stagioni che miscelandosi, cadendo, diventano irriconoscibili. L’inverno è la stagione di queste perlustrazioni. Andiamo ora a seguire le loro impronte e le spine, una ad una…
Song by Song
1 - Flower Phantoms
L’ingresso di questo vulcanico processo è lento (il brano con il minutaggio maggiore), come una strategica mossa nucleare, incanta con un arpeggio della chitarra e una marcia marziale della batteria, per ossequiare il suono nei tintinnii che circondano le percezioni. Poi, come una scimitarra che scivola nelle vene, si assiste all'accelerazione ed è un salto nel ventre. Si gettano i semi, nel ritornello, di una modalità che prevede due voci nel canto, quasi a gonfiare l’ascolto per una migliore accoglienza. Pilastro, piombo, indice di una direzione che amplierà la propria energica propensione ai suoni roventi.
2 - Back to Nowhere
I tre diventano corsari, la chitarra e il basso sposano l’elettrica danza, con il tappeto ritmico che riduce le rullate e offre battiti potenti e secchi. Sono graffi epidermici che creano una collisione, frantumando lo spazio cognitivo, tornando, alla fine, in un luogo capace di disperdere ogni punto cardinale.
3 - Purify
La ricerca melodica, iniziale, presenta un avvicinamento alla cortesia, alla facilità di chi patisce questo tipo di propensioni sonore. Ma la band si rifiuta di risultare semplicistica e scaraventa via l’inizio nel turbinio di suoni famelici, feriti, mentre perdono la gravità. Proprio qui, in questi pochi secondi, il drumming torce i passi del ritmo e diventa il sovrano che governa la chitarra e il basso. Il cantato conosce la discrezione, si tuffa nella disgrazia con eleganza, senza urlare, seguendo il piombo delle parole…
4 - Dig Me No Grave
Centimetri e metri di glam rock precedono la progressione, consentono al basso di struggersi in una distorsione epica e poi via, come in un giorno di dolore senza termometro, nei confini esponenziali di un rock orrorifico che martella le caviglie.
5 - A Taste of Turmoil
Scivola la gravità, il brano diventa una recita post-mortem, un calvario di sbalzi, che portano alla memoria i graffiti del secondo album dei Killing Joke e i primi vagiti dei Southern Death Cult, ma niente si stabilizza in quei pesanti macigni e, come scelta obbligata, i tre marinai decidono di inventare onde sonore che li conducano nel sottosuolo terrestre: la velocità, che pare il pilota di questo naufragio, in realtà è data dalla scrittura di un testo pieno di miracoli radioattivi.
6 - Black Sun Ritual
Echi di Punk Islam dei CCCP aprono le danze, mettendo distanze tra loro e la band emiliana. Tutto diventa mistero, il sangue esce scosso, la lentezza, il crescendo sonoro stabilisce un piano strategico: tutto deve arrivare come un’ipotesi e divenire preciso come una forma di preghiera. Un sibilo pilota il fare impetuoso e la rarefazione sonora scende sino a incontrare il basso che scoperchia il passato di questo impeto sonoro. Invece della chitarra, a essere grattuggiato è proprio lo strumento di Tony che marchia la pelle. Come una sfida, per essere decisiva, la canzone offre ampie sfide musicali, con il cantato di Fabiano che scompare verso la fine, come risucchiato in uno strano e mefistofelico rituale.
7 - Hole In The Heart
Il botto sopra il cielo di Frosinone: con l’attitudine di un grappolo di centimetri hard-core, il brano presenta la coesistenze tra l’ardore e il rifiuto, con i suoni che circoscrivono perfettamente le parole. Nella ricerca stilistica, si noti come il brano si autosospenda, per tornare al graffio del giro armonico iniziale sino a ospitare una brillante voce femminile che spiazza e conquista.
8 - Shards
Si giunge alla fine di questo affresco maledetto in stato di grazia con la canzone che offre i propri fianchi a diversi, probabili e scontati accostamenti, ma il Vecchio Scriba li rifiuta. I tre non cercano originalità, vette dalle quali guardare con boria eventuali colleghi sconfitti. Si gettano, invece, nel labirinto lavico per lasciare la scia di ruvidità sibilanti, per stordire, non di certo per ammaliare conferendo così alla composizione un brillio, che la distingue dalle altre. Esperimenta, coglie la chance di un divenire e scrive il futuro di questa band che ha esordito facendo tremare la notte…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
6 Marzo 2024
https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-silent-lineage