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venerdì 31 marzo 2023

La mia Recensione: Art Block - Stones and Fire

 Art Block - Stones and Fire


Un volo sulla città che sta a sud di questo sogno, un cammino nelle scarpe di un bisogno svelto, una carezza da parte di un ragazzo al suo esordio discografico, una storia in mezzo all’acqua corrente di fragilità in disuso continuo, nella Londra sconfitta da giovani vite senza più ambizioni.

Art, bella creatura dalla voce con il vetro appiccicato, ci porta sulle rive di un fiume intossicato da cadaveri, da anime perse nel circondario del pensiero di una lotta continua. Ha scelto il chitarrista di Amy Winehouse, l’ha messo dietro il banco della saggezza e l’ha lasciato libero di ascoltare con le orecchie piene di sogni.

Perché questo fa il giovane Londinese: canta dentro la fascia onirica, semina sospiri e arpeggi infiniti, sussurra e lascia andare il suo dolore, senza sosta. Frammenti vari della sua infanzia, piccoli vascelli di viaggi, entrano come formiche, abitano la frenesia che riesce a educare, per far divenire il tutto un suono, una canzone, un respiro sonoro che, seducendo lui per primo, gli consente di estraniare l’infinito senso di smarrimento.

Come una terapia, come una gita dei sensi, queste composizioni sostengono la responsabilità di un passatempo con le mani sui fianchi. Struggente, ammaliante, con il sudore continuo sui brividi, tutto in queste dieci farfalle color nostalgia, dal profumo di inchino: si celebra l’esistenza e il suo dannato finire…

Sceglie l’art folk come guida, l’istinto di un uomo che matura con le ballate, la lentezza, l’identità di un Paese che ha inventato questo genere per non dimenticare i cantastorie. Cosa fa Art se non essere una mano su una piuma, intinta nell’inchiostro?

Lacrime calde, salgono su al nord, nel nostro cuore, poi più su, sino al nostro cervello, per definire il contatto che ammalia e abbatte al contempo: se esiste  una via di fuga, se mai vorreste scappare da questo album, darete ragione al suo istinto, alla sua amarezza, in quanto certi silenzi sono figli di note con la calamita. 

Trovare un luogo, un senso, dirigersi verso il futuro per Art non è una scommessa o tantomeno un bisogno: è un precipitare senza freni, perché il cielo lo spinge verso quella conoscenza che gli consente di afferrare il respiro di ogni granello di tristezza che gli abita il cuore.

Accostarsi.

Accogliersi.

Raggomitolare ogni paura.

Questo fa Art e non c’è lacrima più bella di una autenticità che  non rinuncia a se stessa.

Il momento della visita è giunto, saremo con ognuna di queste scintille, a luce spenta, con la voglia, accesa, di essere un sogno dentro l’ascolto…


Song by Song


1 The Basement


Dita che pizzicano, la voce che stimola il pianto, il fuoco dell’ignoranza che accende ogni banalità: Art parte per il suo viaggio, con frammenti Trip Hop, l’atmosfera di un synth accordato alla tenerezza e un arpeggio assassino di chitarra che ci porta nei confini di Tom McRae. Si perde un pezzo di sé sul terreno, e si riceve, gratuitamente, la prima poesia. Il brano ha una chiosa psichedelica, un sussurrare mentre la sua anima combatte…


2 Infinity


Ali di un sorriso planano su un piano e ci riportano alla città del blues morbido, Houston, in quanto si è all’interno del nero di una America fratricida, e la chitarra sembra accompagnare quei tasti verso un pomeriggio di lacrime. Il ritmo si piega, si ferma, Art chiede un abbandono, la casa diventa la tragedia che può rasserenare, e il coraggio di quegli archi fa sì che la melodia muti la pelle, come il protagonista…


3 Saviour


Arriva l’inverno del cuore, la pioggia entra nei fiocchi di neve, e la vita diviene un albero coi rami rotti, senza opposizione. La voce, qui un esercito graffiato dal tritolo, prende la chitarra acustica e va a scambiare due chiacchiere con un artista che è stato il suo Everest…

La depressione può avere un sorriso, e ogni fallimento, se raccontato da Art, può divenire una sequenza di abbracci. 


4 Brother


Un brano come rabdomante, in cerca di angeli notturni che spengano la luce della paura: c’era una volta il New Acoustic Movement, e un sacco di confusione. Il Londinese no, non si perde, e guarda molto indietro nel tempo per questa sberla con gli archi: è la Parigi dei primi anni Cinquanta quella che prende in affitto, per capirlo basta sentire l’arrangiamento degli archi e il gioco di prestigio continuo della chitarra e del piano. Se esiste un fremito, esce di sicuro da questi minuti per morire sulle vostre spalle…


5 Seagulls


Per la prima e unica volta, Art racconta la storia d’amore di due anime alla ricerca di un piano visivo, da cui ammirare i gabbiani e gli animali del mare cercare un sorriso. Bacharach sarebbe orgoglioso delle soluzioni adottate, il ritmo che con la slide guitar si concede del romanticismo è un capolavoro, l’intimità che diventa uno stormo lento.


6 White Horses (Alt version)


Metti una sera a cena con Joseph Arthur, una scena che si prospetta intrigante. E via, parole che abbandonano la tavola e cavalcano una musica che proviene dal palco di un concerto degli Stones dei primi anni Settanta. Ma in queste note esiste una quota di consapevolezza, un vivere l’ambiguità del tempo che Jagger e soci non hanno mai sperimentato. Ed è l’arcobaleno che prende la voce di Art, lo spinge al registro più alto, convincendolo a depositare ogni contrarietà dentro una melodia barocca nelle intenzioni e pop nella realtà.


7 Pilgrim


Dio aiutaci: se c'è un vuoto che abbiamo creato, di sicuro lo capiremo in queste parole e in queste note, non si può sfuggire alla verità. La voce lavora come se avesse paura di disturbare il quartetto d’archi, forse scesi improvvisamente da un film muto degli anni Venti del secolo scorso. Quando essa si assenta, la musica pare avere l’intenzione di aprire le tende del cielo ed è pura commozione, una lezione continua di come certe dinamiche Art le conosca molto bene, riuscendo a colorare il suo respiro. Vortice, vertice, questa canzone è complice della magnificenza…


8 The Sea


C’era una volta Jeff Buckley. Bastano i primi secondi e non vi sono dubbi: la mente accenderà l’amore per quel fiore americano non ancora pronto ad appassire. Ci pensa il Londinese a tenere la sua luce accesa, sul comodino parole piene di sogni e di oscurità, dita veloci pizzicano la melodia e tutto si fa luce, mentre Jeff sorride dal suo fiume…


9 Hollow


Cambia lo scenario, le prime note ci avvisano che il talento di questo ragazzo può condurlo a sperimentare un Art Folk che si fa un tuffo nell’Alternative americano, per essere una danza senza tempo. Rumori registrati per strada e poi campionati fanno sì che l’arte e la realtà vivano un compromesso, sino a far scomparire la voce in un cammino fatto di foglie in volo. 


10 Stones and Fire


Questo magnifico viaggio non poteva non concludersi con un racconto, sistemando le cose con una storia che raccogliesse gli amici caduti in disuso, le stelle dei giorni che hanno perso brillantezza, perché Art non scherza. Tutto parte come un soffio a tre, voce, piano e violino, poi il dramma di parole consapevoli gonfiano il brano e il tutto si distende.

Il piano racconta la voce, la voce stende il violino, il violino accoglie parole che andrebbero uccise, mentre questo album ci concede la magia di un sospiro, e la certezza che abbiamo conosciuto un talento che siederà a lungo sulla schiena del vento…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
31 Marzo 2023






My Review: Art Block - Stones and Fire

 Art Block - Stones and Fire


A flight over the city that lies to the south of this dream, a walk in the shoes of an unhurried need, a caress from a young man on his recording debut, a story in the midst of the running water of fragility in constant disuse, in London defeated by young lives with no more ambition.

Art, a beautiful creature with a sticky glass voice, takes us to the banks of a river intoxicated by corpses, by souls lost in the surrounds of the thought of an ongoing struggle. He chose Amy Winehouse's guitarist, put him behind the bench of wisdom and left him free to listen with ears full of dreams.

Because that's what the young Londoner does: he sings within the dreamy band, sows sighs and endless arpeggios, whispers and lets go of his pain, relentlessly. Various fragments of his childhood, small vessels of travel, enter like ants, inhabit the frenzy that he manages to educate, to make it all become a sound, a song, a sonorous breath that, by seducing him first, allows him to extricate the infinite sense of bewilderment.

Like a therapy, like an outing of the senses, these compositions bear the responsibility of a pastime with hands on hips. Poignant, bewitching, with continuous sweat on the chills, all in these ten nostalgia-coloured, bow-tie-scented butterflies: they celebrate existence and its damnable ending...

He chooses art folk as his guide, the instinct of a man who matures with ballads, slowness, the identity of a country that invented this genre so as not to forget the storytellers. What does Art do but be a hand on a feather, dipped in ink?

Hot tears, they rise up north, in our hearts, then higher, up to our brains, to define the contact that bewitches and frightens at the same time: if there is an escape route, if you ever want to run away from this album, you will agree with its instinct, its bitterness, as certain silences are the children of notes with a magnet. 

Finding a place, a meaning, heading towards the future for Art is not a gamble or even a need: it is a precipitate without brakes, because the sky pushes him towards that knowledge that allows him to grasp the breath of every grain of sadness that inhabits his heart.

To approach.

Embracing.

Curling up every fear.

This makes Art and there is no more beautiful tear than an authenticity that does not renounce itself.

The moment of the visit has come, we will be with each of these sparks, with the light off, with the desire, lit, to be a dream within the listening...


Song by Song


1 The Basement


Fingers that pinch, the voice that stimulates weeping, the fire of ignorance that ignites every triviality: Art sets off on his journey, with Trip Hop fragments, the atmosphere of a synth tuned to tenderness and a killer guitar arpeggio that takes us to the confines of Tom McRae. One loses a piece of oneself on the ground, and receives, gratuitously, the first poem. The track has a psychedelic coda, a whisper as his soul struggles....


2 Infinity


Wings of a smile glide over a piano that take us back to the city of soft blues, Houston, as one is inside the blackness of a fratricidal America, and the guitar seems to accompany those keys towards an afternoon of tears. The rhythm bends, stops, Art asks for an abandonment, the house becomes the tragedy that can soothe, and the courage of those strings makes the melody mutate the skin, like the protagonist...


3 Saviour


The winter of the heart arrives, the rain enters the snowflakes, and life becomes a tree with broken branches, unopposed. The voice, here an army scratched by TNT, picks up the acoustic guitar and goes to chat with an artist who has been his Everest...

Depression can have a smile, and every failure, when told by Art, can become a sequence of hugs. 


4 Brother


A track as a diviner, looking for night angels to extinguish the light of fear: once upon a time there was the New Acoustic Movement, and a lot of confusion. The Londoner doesn't, he doesn't get lost, and he looks far back in time for this slapstick with strings: it's early 1950s Paris he's renting, you only have to hear the string arrangement and the continuous sleight of hand of the guitar and piano to understand that. If there is a quiver, it certainly comes out of these minutes to die on your shoulders...


5 Seagulls


For the first and only time, Art tells the love story of two souls in search of a visual plane from which to admire the seagulls and sea animals looking for a smile. Bacharach would be proud of the solutions adopted, the rhythmic slide guitar indulging in romance is a masterpiece, the intimacy becoming a slow flock.


6 White Horses (Alt version)


Put on an evening dinner with Joseph Arthur, a scene that looks intriguing. And away they go, words leaving the table and riding on music that comes from the stage of an early 1970s Stones concert. But in these notes there is a share of awareness, an experiencing of the ambiguity of time that Jagger and co. have never experienced. And it is the rainbow that takes Art's voice, pushes it to the highest register, convincing him to deposit all contrariety within a melody that is baroque in intention and pop in reality.


7 Pilgrim


God help us: if there is an emptiness we have created, we will surely understand it in these words and notes, there is no escaping the truth. The voice works as if afraid to disturb the string quartet, perhaps suddenly descended from a 1920s silent film. When it is absent, the music seems to have the intention of opening the curtains of heaven and it is pure emotion, a continuous lesson in how well Art knows certain dynamics, managing to colour his breathing. Vortex, apex, this song is complicit with magnificence...


8 The Sea


Once upon a time there was Jeff Buckley. Just the first few seconds and there is no doubt about it: the mind will ignite love for that American flower not yet ready to wither. The Londoner keeps his light on, on the bedside table words full of dreams and darkness, quick fingers pluck the melody and everything becomes light, while Jeff smiles from his river...


9 Hollow


A change of scenery, the first notes warn us that this guy's talent may lead him to experiment with an Art Folk that takes a dip into American Alternative, to be a timeless dance. Noises recorded on the street and then sampled make art and reality experience a compromise, until the voice disappears into a path made of flying leaves. 


10 Stones and Fire


This magnificent journey could not but end with a tale, setting things right with a story that would collect the friends who have fallen into disuse, the stars of days that have lost their brilliance, because Art is no joke. It all starts as a three-way breath, voice, piano and violin, then the drama of conscious words swell the song and the whole thing stretches out.

The piano recounts the voice, the voice stretches the violin, the violin takes in words that should be killed, while this album grants us the magic of a sigh, and the certainty that we have met a talent that will sit long on the wind's back...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
31st March 2023




lunedì 21 novembre 2022

La mia Recensione: Phomea - Me and my army

 Phomea - Me and my army


Come è bello avere modo di accedere alla profondità di un’anima dotata di classe e stile.

Stiamo perdendo la vista, non ho dubbi, guardiamo nei luoghi e nelle cose sbagliate e, purtroppo, lo facciamo anche per la musica.

Non dobbiamo però disperare o cedere ascoltando brutta musica (sì, esiste), perché un nuovo album è pronto per essere accolto.

Quello riguardo il quale voglio scrivere è un lavoro profondo, onesto, con gemme che vanno approcciate con garbo e riconoscenza: Phomea ha dato alla luce canzoni illuminanti, calde, di sana e robusta costituzione, dove la dolcezza e modi gentili si affacciano per lubrificare la nostra sete di calore. Ed è un mondo che proviene dal folk, dall’alternative, da una spiccata sequenza di melodie che si conficcano nella testa e, grazie a una voce che accarezza l’ascolto, con una sensibilità che coinvolge e sorprende.

La scelta della lingua del cantato è perfetta: l’inglese si adagia con armonia e genera un’attrazione molto piacevole e profonda. 

Spero (sarebbe un segnale di grande intelligenza e di una lezione veramente appresa a fondo) che questo lavoro non risulti come una somma di riferimenti, di artisti e canzoni, miscelati tutti insieme perché la sensibilità e la raffinatezza presenti marcano un’unicità che merita riconoscimento e sostegno. Come un amo che pesca dall’acqua musicale più pura, c’è un approccio successivo di purificazione e valutazione nel quale l’aspetto primario è l’inserimento di uno stile creato e sviluppato all’insegna di una variabilità che si sganci da quei semi che quell’acqua sa lasciare.

Il Pistoiese Fabio Pocci è una carezza sulla mente, con la maturità di eccellere grazie alla sua scrittura epidermica, sottile, in grado di far germogliare le radici di un approccio anni ’90 verso questa attualità, finendo per risultare un angelo con il respiro protettivo nei confronti delle nostre anime.

C’è odore di una forte progettualità: un'acuta osservazione dell’umanità vista da un satellite immaginario nel quale provare a scindere il reale dalla sua proiezione, un libro scrivente sui movimenti di una realtà che non arresta la sua volontà di essere sfuggente e di assentarsi per curarsi su un piano finto, vuoto, virtuale. Arriva lo stratagemma, immagini e algoritmi connessi per condurre lo sguardo alla verità. Per fare questo Phoema sposa la duttilità di generi musicali che siano cerchi di grano, passeggiate solitarie con il taccuino in mano. Non fotografo del reale, ma scrittore di immagini che consentano all’autenticità di rimanere salva, di non emettere giudizi negativi. Ci si sposta nella musica folk (figlia del sistema cantastorie), per immergerla in una elettronica ragionata, che compare a spruzzi perfettamente razionalizzati, in quell’alternative rock che lascia la pelle dei pensieri sempre morbida. Conquista l’assenza di distorsioni, di rumori inutili, per semplificare il tutto. Non vi sono tragedie da raccontare, bensì l’impressione che l’artista toscano sappia trovare bellezza nel disastro comportamentale. 

Un disco ematico: porta proprio, e molto bene, il sangue al cervello per poter ragionare meglio, mettendolo in condizione di soffiare via la solitudine, dicendole di spostarsi, di assentarsi, di rimanere fuori dai nostri già numerosi sfaceli. Tutto ciò rivela quanto Me And My Army sia salutare, solare e profondo: finalmente si torna a fare cultura attraverso la musica e anche solo per questo motivo merita un supporto caloroso e un abbraccio fraterno. I brani sono capitani dell’intelligenza con un cappello saldo sul capo, senza esitazioni, per pilotare il viaggio cosciente con grande maestria e attenzioni. I ritmi presenti sviluppano, nell’ascolto, un’onda leggera, dove il coinvolgimento è più mentale che fisico, conferendole unicità, con il bisogno di linee melodiche che accolgono quelle incursioni vibranti fatte di chitarre sagge, con il basso che visita generi musicali senza vincoli e dove la batteria è un termometro degli istinti umani. Disco che più che sommare canzoni è una corsa di violino che si allunga trovando la nota corretta per un’analisi che si precisa perfettamente. Accenni psichedelici connettono l’elasticità musicale alla perfezione. Esiste la perfezione? Sì: nell’abilità di scrivere la verità di un disastro umano senza urlare, dove non c’è la poesia ma una sensibilità forse addirittura superiore.

Un album come compagno di identità, come professore, come studente, nel quale non è la confidenza che ci può legare ma la convinzione che nella solitudine esista una possibilità di crescita infinita…


Song by Song


1 Take Control

La prima immagine è una scintilla di consapevolezza che parte dolcemente: la voce e la chitarra compagne di cielo e poi un crescendo minimalista per un brano che libera i respiri, avendo lasciato la gabbia del controllo.


2 Me and My Army


Ed è stupore perché le rive che si intravedono sono gemme malinconiche, tra chitarra semiacustica e il pianoforte a iniziare lo scatto di un nuovo luogo, soprattutto mentale. La voce sale delicatamente su un registro che ammanta e ci porta la colpa negli occhi, in passaggio…


3 Unplease Me


I limiti umani sbocciano dentro la chitarra gothic-folk, con rimandi che affascinano, ma poi la tendenza è quella di rendere la canzone la pace di un respiro elettrico che la definisce, con le sue pause, mentre la batteria è intraprendente, il risultato ci offre un ritornello pieno di acqua al bordo degli occhi.


4 Lover


Si esce fuori, a bruciare il mondo, e lo si fa con un richiamo a Nick Drake, ed è un gran bel modo per partire. Ci si ritrova nel ritmo che abbandona la morbidezza e scivola via felice prendendoci con sé. Un bell’assolo, nel confine di una melodia seduttiva, ci convince: andiamo pure noi a sorridere al fuoco, facendo attenzione alla ferita che probabilmente è in arrivo.


5 Ruins of Gold


La solitudine appartiene a tutti e questo brano ce ne mostra il lato che ci interroga, dal testo a una musica capace di abbracciare il folk e l’elettronica in modo delizioso. La voce tremante, tra echi e chitarre che sembrano mandolini con la febbre, riesce a essere il centro di controllo del nostro percepire. Si viaggia negli anni ’90 che, sentendosi emarginati, chiedono a Phomea un abbraccio.


6 J.B. 


Arriva un interludio musicale, con uno spoken word che ci tempesta di domande, dentro oscillazioni cacofoniche che paiono il lamento di un’anima tesa.


7 What About Us


Si entra nella natura, nei frutti della terra, nella forzata coesistenza, e il canto si fa mistero, sussurri invadono le note ed è un calore naturale, che attraversa le maschere, i comportamenti che si fanno dubbiosi. E un tappeto elettronico concede spazio a schitarrate gonfie di veleno.


8 Run


Echi Nordici (Saybia, la fantastica band Danese su tutti) assorbono il pathos di un brano che sa grattare la polvere e per farlo passa da una lentezza accennata a una forma alternative rock vogliosa di offrire grandi spazi visivi. Ed è un gioco di melodie che pare provenire dagli anni ’70, sino a elevare il bisogno di dimenticare e correre via…


9 The Swarm


Pizzicare la pelle di una gabbia e farla accoppiare con una chitarra dallo sguardo malinconico, attendere la voce e un cantato che fa sedere e addormentare la stanchezza. Un brano che sale nel cielo dei nostri sogni malgrado le parole abbiano quintali di piombo addosso, ma è proprio qui che si capisce il valore di un miracolo. A completare il tutto ci pensa il senso estetico sonoro di un grandioso Flavio Ferri, che appiccica alla canzone il senso di infinito.


10 Perfect Stone


Phomea fotografa il tempo e le sue creature, con la voce che cerca di mettere le impronte in una vocalità baritonale. Ma poi fugge piacevolmente da sé e la porta dolcemente in un libero volo, tra romanticismo e dolore. La melodia cresce, si svincola, spinge verso un alternative dalla veste dorata, con una attenzione meticolosa nel non far cadere la tensione emotiva.


11 Dark 


Una cena con Joseph Arthur non si rifiuta, come con Tom McRae: si dia voce all’intimità, tra giochi di libellule in volo dentro parole sottili come respiri. Phomea rivela le stigmate del fuoriclasse che si beve il buio per completare la sua identità. La chitarra sembra picchiare l’insicurezza sino a consentire agli archi e all’organo di saldare il sogno e l’eternità. Struggente dimostrazione di classe fertile. 


12 Look At You


Neil Young si affaccia, con Tim Buckley e Michael Stipe a suggerire immagini da sistemare ai bordi dell’acqua. La voce come rabdomante: deve trovarla per lavare gli sguardi e la trova con una canzone che chiude il cerchio, dove la chitarra è un carillon della luce che si fa preda in fase di cedimento. Il pizzichio delle corde è già calore, poi gli accordi fanno il resto, e la voce è il francobollo che ci fa partire per una nuova cella senza catene…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Novembre 2022


https://phomea.bandcamp.com/album/me-and-my-army


https://open.spotify.com/album/0x4t3nPGOzND6GMom1RmPr?si=qmTMOFjwRRi1pdt2jMtwWA

















mercoledì 15 giugno 2022

La mia Recensione: Shearwater - The Great Awakening

 La mia Recensione:


Shearwater - The Great Awakening


L'ampiezza del mondo vista da un infarto: un oceano di luce che ristora, un risorgere prima ancora della morte, per poter volare dentro le necessità.

Cosa produce questi pensieri?

L’ascolto dell’album che più mi ha emozionato negli ultimi tre anni e del quale provo a tracciare una traiettoria razionale, conoscitiva, una esplorazione nel tentativo di seminare l’incredibile scorrere di battiti radiosi nei confronti di queste undici bolle di sapone pronte a esplodere nei vostri cuori.

Da quella palla di fuoco che non si arrende mai, quel Texas sempre più proiettato verso l’isolamento, la band di Jonathan Meiburg è tornata a scrivere canzoni con alcuni membri che hanno ripreso a seguire il leader indiscusso. 

Partito dalle letture di TS Eliot, il dolce comandante supremo ha stabilito le coordinate per fare di alcuni abbozzi di canzoni un disco che navigasse dentro i ragionamenti, le vicende di un mondo in stato di smarrimento. 

The Great Awakening è un visitare i palpiti, una carezza sonora vistosa dove però, ad essere meno evidente, è l’abilità di occuparsi di questo pianeta, non solo descrivendolo.

Ventitré anni di soffi, pennellate, approcci riusciti nel fare della musica un campo da seminare, tutto sembra essere ancora più maestoso, con la capacità di rendere fertile le zone aride della mente.

Shearwater è la poesia del cielo che ci invita a risollevare le nostre armi e a offrirci quegli scatti necessari per fare della vita un disegno creato da un bambino. 

Le storie raccontate sono quelle degli adulti: il capo si flette verso il basso e le lacrime rimbalzano. Ma vi sono bimbi felici che giocano con tutto questo strappando alla fine quel sorriso che velocizza una reazione.

Prodotto magistralmente, da Jonathan e Dan Duszynski, questo insieme di splendori è imbevuto di suoni che raccolgono la bellezza per farla vibrare in volo.

Jonathan ha scritto della speranza, in perenne lotta con le difficoltà, la disperazione, lo stress, senza però perdere la fiducia.

Il decimo album accende una stella definitiva nel firmamento celeste: una clamorosa discesa terreste capace di essere la guida necessaria dentro i territori sconnessi dei nostri comportamenti.

Tutto è raffinato, delicato, quasi fosse un libro di canzoni caricate dentro un pugno a salve: nessuna intenzione di ferire, bensì la ferma volontà di aprirlo in una carezza infinita. Dopo aver scritto un libro, quest’anima indomabile ha incominciato a produrre idee per nuove composizioni musicali non scordando di  inserire anche gli animali, che trovano un grande posto in questo long playing. La convivenza di tutte le creature di questo pianeta veste di armonia le creature sonore, suggerisce bellezza laddove viene messa in pericolo da comportamenti violenti.

E di violenza in questo lavoro vi è traccia solo in parte, è sapientemente accennata ma non descritta.

L’uso degli archi, di tastiere e del pianoforte, strumenti della zona alta e nobile della mente, conferisce una grande lucidità alla scelta delle canzoni, che vengono avvolte da atmosfere sognanti e morbide. 

Si nuota, si passeggia, si vola senza sosta e il tutto lo si fa lentamente, tra le zone brulle, fredde, calde, annacquate di un mondo che ha smesso di sorridere.

Il cantato prende la luce del palco, sta sempre davanti, a contatto diretto con il nostro ascolto, circondato da strumenti timidi, con la giusta voce nei loro movimenti, per essere un’onda che si sposta quasi di nascosto dentro l’ugola di Jonathan, il mago della leggerezza, di quella intimità che deve saper essere capace di sussurrare. 

Se siete in grado di gestire una scorribanda emozionale che sia capace di connettersi ad una lucida razionalità, allora questi solchi si espanderanno dentro di voi.

C’è un angelo scozzese nel cielo che protegge questa band: Scott Hutchinson, il leader dei Frightened Rabbit sorveglia orgoglioso, facendo l’occhiolino a Nick Cave, per rendere chiaro che qui, tra le pieghe di un vestito meraviglioso, la qualità presente può essere accostata ai due appena citati. Ma Niko Case e Nik Drake possono reclamare la loro influenza, anche se Jonathan è assolutamente un maestro nel mostrare la sua genialità, staccandosi abbastanza velocemente da alcune connessioni. 

La scrittura dei testi mette in rilievo una propensione alla narrativa, anche se alcuni passaggi vestono l’unicità della poesia, che sembra più una suggestione che una effettiva presenza. 

Con una maggiore propensione all’elettronica rispetto al passato, la band non si dimentica di disegnare mantelli acustici in odor di tempera, per rimanere comunque legati ad un dna imponente.

La flora e la fauna, i rapporti interpersonali e le ingiustizie vengono amalgamati come un liquido ospitante, in accordo senza alzare la voce: tutto ciò che viene miscelato al suo interno funziona e conquista.

Se si presta attenzione nell’ascolto si avvertono momenti in cui il mistero rivela la sua lenta danza, con l’atmosfera che bussa alle porte del folk per veicolare una tipica bellezza senza però riuscire a bloccare l’inquieta presenza di un tormento interiore, che finisce per dare a questa apparente morbidezza qualche atomo di tristezza. Ecco così che ci rendiamo conto che l’irrequieto Jonathan agisce compensando, fungendo da bilancia preventiva per i suoi fiumi che seppur splendenti non sono privi di qualcosa di torbido. La lunga pausa dal penultimo lavoro ci consegna una band che si è spostata dalla sua pelle morbida e quasi solare per andare verso il sole, ma a testa bassa. Per catturarne i segreti è consigliabile procedere in un ascolto che ripeta una canzone prima di passare alla successiva. Si respira l’evento, nell’avvicendamento di spiragli celesti col vestito da sera, dove l’equilibrio di arrangiamenti perfetti danno un senso di continuità sublime, per approdare nella specificazione di sentimenti imponenti.

Spesso sembra che le canzoni siano contorte, nevrotiche, nascoste da soluzioni che sono capaci di sbigottire e presentano tutta la gamma a loro disposizione per costruire una casa di paglia dentro il deserto.

Non svelano i loro segreti, ma li mostrano come se fosse una rincorsa alla ferita di sfere astratte che cercano l’abbraccio.

Con la necessità di proporre musica che possa far pensare all’art rock e quella barocca, vi è un allontanamento dall’ansia e dall’insicurezza per proporre invece certezze che si oppongano a insicurezze crescenti. 

Baciata dal talento, la band segue l’esempio degli Arab Strap: occorre dare al tempo la possibilità di storicizzarne le malefatte e di trasformare il tutto in una corsa dal passo lento, per trovare un luogo dell’anima nel quale sgorgano gocce alternative e baciare l’incanto. Così facendo si scopre che è stato conferito all’oltraggio un senso piacevole e dinamico, tuffando i propri slanci dentro l’accogliente natura.

Ora siamo pronti: scendiamo nella profondità del loro immenso mare, scoprendo di aver nuotato in modalità Apnea On, e si scoprirà una Atlantide pronta ad essere scorta dai nostri occhi misericordiosi, con la certezza che a volte la musica possa essere un beneficio sensoriale totale.



Song by Song 



Highhate 


Siamo già dentro la fluida gentilezza, un salto nel tempo dove l’umana bellezza viveva tra sussurri e tuoni, si sale nel disagio di un cielo che ci attende.



No Reason


Il basso mostra la sua movenza anticipando Jonathan, pilota di un cantato toccante, con i suoi saliscendi strutturati per cancellare la ragione del pianto.



Xenarthran 


Si rimane nella sospensione dell’oceano, tutto è acqua, dissolvenza, la voce si tuffa nel cuore, mentre archi elettronici placano la tensione, appare Atlantide circondata da un accenno di chitarra e si vola in basso, la chitarra elettrica si affaccia e noi siamo a bocca aperta…



Laguna Seca


L’unica canzone dell’album ad avere una struttura diversa, quasi tribale, giocata su ipotesi celestiale dilatata, inserti continui a stordire, con la base musicale che ricorda Bjork a tratti, un quasi trip hop glaciale, vellutato.



Everyone You Touch


Nick Drake e John Grant stappano champagne, abbracciano Jonathan e piangono sul bagliore intimo che sgorga dall’arpeggio e da questa voce alla quale non si può chiedere nulla di più. Gli archi stregano, come il pianoforte, e si cade nell’intimità più accogliente.



Empty Orchestra


Tutta l’intensità della band si manifesta in questo gioiello, circondato da coriandoli acquei, che fanno vibrare le onde con riferimenti agli anni 90, carichi di scintille elettroniche nascoste. È la voce che ci piega tra lacrime dolcissime, mentre la batteria e il basso circondano il corpo e la chitarra tratteggia poesia.



Milkweed


In questo lavoro l’acqua e gli animali appaiono come i padroni di un mondo che gioca al loro massacro: ecco l’occasione per avvertire la drammaticità di tutto questo in un pezzo strepitoso, al limite di una psichedelia new age, per scomporre la nostra sicurezza. 



Detritivore


La poesia deve essere lenta, mostrare la sua anima solo dopo ripetute letture. Questo accade tra le righe di questa apparente soffice canzone. Se i Radiohead avessero continuato a visitare la leggerezza del suono forse avrebbero scritto loro questa Dèa sonora. È sospensione continua, decadente, ottocentesca nel cuore, moderna nel suo vestito.



Aqaba


Tempo di bussare a casa Sylvian, David è impegnato ma le note del piano sembrano uscire dalla sua dolcezza; poi la tastiera e la chitarra portano il brano ad accenni di World music: chiudiamo gli occhi e vaghiamo, nella resa più piacevole.



There Goes The Sun


Siamo avvolti da una cadenza sensuale, in punta di piedi avviene la magia, la voce si alza in volo e in questa ballata moderna tutto pulsa per raggiungere il vento dei raggi del sole che illuminano la nostra perduta capacità di guardarlo. 



Wind Is Love


L’arrivederci alla prossima volta è magistrale: in un loop strepitoso, secco, breve, vive una voce dalle piume color vento per portarci la pioggia del cuore.

Un album clamoroso doveva presentare l’ultima movenza per creare dipendenza totale. Tra un mood elettronico e la sembianza di una chimera vive la delicata danza di un falsetto sognante: buonanotte mondo, abbiamo ricevuto la favola più bella per poter dormire in pace…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/2gmKfhM2fBsbVMhVm7D16M?si=ARPmK3GgTgu9fn6jeRKz3A







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