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mercoledì 25 maggio 2022

La mia Recensione: Marlene Kuntz - La fuga

 La mia Recensione:


Marlene Kuntz - La fuga


Condizione umana attuale? Un diluvio incontrastato di elementi sparsi, senza direzione, senso, dove la disciplina cade dal vocabolario, in una condanna legittimata da incompetenza, disinteressi e incuria; dove il meschino ha lo scettro sul volto scavato dal ghigno come atto liberatorio e cosciente del nulla che porge.

Sul fare del mondo si può discutere, prendere posizione con opinioni che sanno di muffa scadente, senza luce né intensità. Se le cose devono andare così, la resa totale, il consegnarsi diventa l’unico cambiamento che possa generare miglioria.

Marlene visita il mondo dalla natura, da montagne capaci di regalare pensieri dentro silenzi urlanti, vogliosi di creare il presupposto della fuga, come primi testimoni dell'ambiente circostante che suggerisce, prima, e che urla poi come stanno le cose, nella sua suggestiva e roboante realtà.

Arriva una sberla che affascina: ci si deve chiedere che fine farà questa considerazione, se sarà il custode di un nuovo impeto. Costruttivo.

Intanto si ascolta una dolorosa meraviglia artistica, un’impronta lucida che conferma che l’abito sensoriale dell’ormai Signora Marlene è sempre la congiunzione perfetta tra la finzione e la realtà. Un groppo in gola consegna anche un fremito, lo spavento consapevole che tutto sia andato perso: la situazione non è come quella che il più ottimista potrebbe affermare dicendo “dai che abbiamo speranza”.

Chi fugge vuole cambiare scenario: il proprio gli sta stretto, lo considera un carceriere al quale togliere la licenza del comando. Un imbroglio continuo che semina la morte della libertà, della soddisfazione, del senso delle cose.

I Marlene Kuntz abbassano lo sguardo, ancora una volta perché necessario, sulla Terra, parlando del suolo da calpestare senza più spazio per quelle cose che un tempo erano site dentro di noi. Una canzone come la necessità di mostrare la nostra attuale condizione, la carta d’identità di un fallimento che vuole farci arrivare il messaggio di una fuga come ultimo atto, estremo. Un brano che circonda il pensiero umano annichilendolo, dimostrando come nessun territorio sia la capanna nella quale vivere i sogni, progettando il futuro, vestirli perché liberi di poterlo fare, in quanto si è deciso alla fine di dare in pasto a una collettività priva di capacità il nulla. Senza soffi di intelligenza le cellule si perdono davanti al chiacchiericcio sterile, i pensieri si piegano e muoiono.

Canzone drammatica, severa, sconvolgente, più che giustificata e purtroppo, per questi motivi, clamorosamente bellissima.

Ma morirà presto perché vera. 

E la Natura, la Dea del tempo che governava le nostre vite, si ritrova senza poter dialogare con noi, tornerà a vincere e stavolta lo farà per sempre, sconfiggendo il nostro inquinamento fisico e morale. Le colpe avanzano per prendere il sopravvento: è questo il torto più grande che l’uomo compie. E a pagare sono tutti.

La tristezza e lo sgomento aumentano dopo ogni ascolto, non potrebbe essere diversamente, la città dei pensieri è un agglomerato di vomito e rovina che uccide se stessa. 

Persa una certa libertà, da chi ce l’ha sottratta, tentiamo la fuga, sperando in uno spazio libero che la Signora Marlene non accenna a rivelarci: non era il suo compito. Doveva invece farci vedere i nostri passi cercare di essere capaci di avere dignità e forma, un tentativo, riuscito, di spalancare i nostri occhi. Testo e musica compatti, determinati a fare del messaggio qualcosa di chiaro e ineccepibile, nel tempo della confusione e dello smarrimento. È arte allo stato puro questo perfetto connubio: non ci rende liberi di fuggire da un eventuale tentativo di nascondere lo sguardo e diventa un vento dalle sbarre pesanti capaci di raggiungerci dall’alto, precipitando sulla nostra meschinità. Il pianoforte rende drammatico il tutto, come lo fa il drumming, tra beat e pelli vere a rimbombare dentro le parole. Le chitarre sono nascoste, la melodia rivolge il pensiero verso il cielo e gli chiede il proprio silenzio…

Sorprende quanto la band di Cuneo sappia sempre essere capace di comporre musiche che già da sole fanno intendere il percorso della penna di Cristiano. Conferendo in questo caso specifico alla composizione la libertà di sfuggire a un cliché di definizione stilistica.

Non si può che svenire all’ascolto, senza forze, senza occhi che possano vedere il guaio in cui ci siamo messi. La nuvola sopra le montagne scende verso i nostri sensi corrotti, senza che niente possa correggere la postura dei nostri pensieri.

La direzione della musica è quella di una coralità, estrema e perversa nella sua crudele capacità di essere autentica come lo sa essere il testo: inquina ciò che non vogliamo essere capaci di vedere inquinato. Si vola verso l’assoluzione, per convenienza, mentre il pulsare del cuore del brano vorrebbe accendere un barlume di consapevolezza. Fallirà solo perché i falliti siamo noi, semplicemente è così.

Il senso caotico del finale del brano non è altro che il premio alla prepotenza del menefreghismo davanti a ciò che non conosce intenzione di arresto, cioè la propensione all’indifferenza di quello che è il dna umano. Come premio abbiamo questo dono, che ci piacerà, senza minimamente pensare di usarlo, per capire la fuga o addirittura creare il presupposto di un cambiamento radicale senza doverla compiere. Non hanno mai scherzato i Marlene Kuntz con la vita: circondata, scandagliata, vivisezionata, amplificata, hanno sempre tracciato un percorso cosciente di malefatte, intuizioni, spinte, impulsi, dettagliando e determinando la loro qualità di sguardi intensi.

Ora sono feroci, aggressivi e arrabbiati: altro che Sonica, Il Vile, Cara è la fine, 111: niente di più fragoroso è mai uscito dalle loro vene salienti e capienti.

Ora si sta davvero rovinando tutto.

E questo brano/verità certifica, marchia la pelle di un cervello ormai nebuloso e inconcludente, villano, schifoso.

La cura prestata a questa esplosione morale ha coinvolto la musica.

Il cantato è una ferita senza fine, con il fiato raccolto tra le spine. 

Negli occhi di Cristiano, che dai monti fa rotolare il suo pensiero insieme ai suoi compagni, tutto sembra divenire un ambasciatore di liquidi nerastri e contaminanti come virus subdoli. È un crescendo inquietante, ingombrante, fastidioso, ma prezioso, una camera iperbarica per recuperare energie dalle fatiche delle nostre idiozie infinite. E non ci restano che le campane di mucche al pascolo, con sibili tetri e l’atmosfera pesante della fine che arriva con quella della canzone. Il mondo visto coscientemente è più piccolo, più brutto e spaventoso.

Ecco.

I Marlene Kuntz spezzano la fuga con il loro ridimensionarci, non presentano una cura bensì il conto. Non vi è estraneità, tantomeno bugia in questa impietosa analisi che forse sarà creduta meno perché viaggia su note (splendidamente pesanti e conturbanti) che sembrano poter far apparire il tutto una favola, una esagerazione per la cosiddetta licenza poetica che si annette alla libertà.

Ma quale libertà?

Da questo brano risulta evidente che siamo tutti, nella vita, lucidamente prigionieri. 

Senza via di fuga…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

25 Maggio 2022


https://open.spotify.com/track/550Vv0MsdKOSgOEkTiSDJK?si=Jie0qqXVQKSUjU9ZT7lkyQ



https://music.apple.com/gb/album/la-fuga/1623243644?i=1623243647









 


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