giovedì 30 giugno 2022

Sloan Rivers - Burn Down


 https://open.spotify.com/album/361uvnWwzMSx3u1Kdu36Xz?si=tejp4viKTEOVHJtJvOiqDg

THE RED MOON MACABRE - Blood Masquerade

 



https://theredmoonmacabre.bandcamp.com/album/blood-masquerade-deluxe-edition

White Hills - Silent Violence




 https://open.spotify.com/album/3yXtbINya1szgrDzrROr3S?si=KEZjdc35QBuX5MdEsrv37g

Sopor Aeternus & the ensemble of shadows





 https://open.spotify.com/track/3zBZPLt1VG1hRZqiwwomA3?si=cKVwLg13SQW8a-EAZrYUaw

Kaery Ann - Blue Eyes


 https://open.spotify.com/track/0wJ60VHGY9Ehsaz89nCMll?si=XMe_sfziSMKbodvDFvvyMA

domenica 26 giugno 2022

La mia Recensione: Morrissey - Vauxhall and I

 La mia Recensione:


Morrissey - Vauxhall and I 


Un uomo è una pietra che accoglie il sole, il muschio, il vento, la pioggia, la neve, l’efferatezza umana, testimone della gioia e della tragedia, il custode del tutto, muto e capace di accogliere.

Poi c’è un uomo poeta, uno sguardo immenso, intenso, che cade nella sua penna come una piuma anche se ha sulla schiena tonnellate di nero, perché questo è il suo compito: arrivare con leggerezza anche se appesantito, questo è il ruolo suo, sino alla fine.

Il suo nome è Morrissey, la lacrima sinuosa che viaggia nei decenni con gli occhi sempre più cinici, nostalgici, obliqui e pesanti, ma ciò che ci dona alla fine ha un qualcosa di magico, prezioso, vero che non si può rifiutare.

Introspettivo, rassegnato, pessimista, riesce con un verso solo a darci forza malgrado questo magma soffocante: è il suo indiscutibile talento, ciò che lo eleva sul palco del vincitore, dove non esistono più gladioli bensì spine velenose.

Il più perso tra le anime perse, incredibilmente diventa l’unico appiglio per chi pensa di essere solo e perduto. Ascoltando lui si difende il diritto alla vita, si smette di morire quando ci si sente vivi nonostante la depressione, ancora prima di resuscitare, perché la sua voce e le sue parole ti incollano al desiderio di voler vivere, anche se con il suo stesso sguardo verso il basso.

Morrissey torna con un nuovo fascio di canzoni, ci fa entrare nelle sue sommosse, nelle sue disperazioni, con le sue rabbie a cui ha messo dei filtri e, abbracciandoci con la sua consueta gentilezza, ci mette tra le mani il suo calvario recente, i suoi respiri agitati, con parole che sanno attraversare ogni ostacolo, per arrivare a vedere pienamente che la sua carriera è il miglior metodo per arrivare a trovare noi stessi.

Un album assolutamente capace di mostrare questo poeta in grado di compattare il suo passato e offrirci nuove visuali, nuove prospettive per un’anima così vasta da risultare impossibile da comprendere e valutare, perché non ci rimane che l’adorazione per la sua abilità nel frullare i suoi eventi pubblici e privati per poi farci bere sorsi di un vino prelibato. Unico.

Canzoni che hanno un movimento riconoscibile ma nuove in certi momenti, che sorprendono per la sua propensione a donare brillantini su ferite aperte: sa pennellare armonia laddove esiterebbero presupposti per raccogliere solo lacrime. 

C’è un uomo che appartiene a se stesso, che cattura tutto come se fosse ossigeno, che manifesta solo il desiderio di scrivere e cantare l’universo corrotto da malinconie senza freni a mano, con l’intenzione di lasciare all’eternità il dono della sua testimonianza, come una risorsa alla quale lui per primo sa che pochi faranno affidamento. Forse nemmeno lui, e questo lo rende intenso e credibile.

Le sue canzoni, in questo straordinario Vauxhall and I, ci fanno toccare i respiri, suoi e dei suoi tormenti, e il loro ascolto diventa un nuotare dentro di lui, sino a scomparire.

Il bardo pone domande, sentenzia passando al setaccio sentimenti e comportamenti, produce rumori nello stomaco, gratta la polvere delle abitudini e, con spavalderia, si distanzia da ciò che lo opprime, costruendosi il suo eremo, fatto di delicata tensione emotiva, sino a sbattere la porta andandosene con le sue parole nella tasca.

Con i suoi problemi si riempie e ci riempie il cuore: ciò che il cielo gli ha regalato in queste canzoni è un disegno affinché siamo noi a beneficiarne, per coccolare la sua sofferenza e restituirgli quello che lo stesso cielo gli ha negato, ovvero la possibilità di essere come tutti noi.

Il suo vocabolario, sempre denso di cumuli di saggezza decadente, vira verso l’apoteosi donando immagini fluorescenti, domando i suoi terremoti per non cedere, lui che è sempre a un passo dal dirupo.

Insieme a Viva Hate, questo album rappresenta la capacità di unire le forze con le debolezze, dove la sua vita non è un gioco ma un crocevia esasperato, trafficato da elaborazioni continue, esperienze che spaccano le rocce, fanno piangere le tossine che vorrebbero rovinare i tessuti della sua bellezza, fallendo.

L’abilità, di Smithsiana discendenza, di dare alla voce il ruolo di sospendere il significato di piombo conficcato nelle parole con la sua propensione verso un canto che sappia far galleggiare le tensioni è ancora intatta, magnifica e decisiva, tenuta volutamente viva, ad altissimi livelli.

Alain Whyte e Boz Boorer sono i suoi due angeli, pittori di note e piloti di intrecci e scorribande rock, con quella faccia pop che ben si addice a Moz. Loro due escono vincitori malgrado lo scetticismo, i paragoni ingombranti, distorti e imbarazzanti con l’epopea degli Smiths. Hanno imparato in fretta ad amalgamare indubbie qualità per donare a Morrissey strade sonore nelle quali sentirsi a suo agio, perfettamente. Conclude la formazione il basso di Jonny Bridgwood e la batteria di Woodie Taylor, per un insieme capace di nuove soluzioni armoniche, con un arrangiamento minimo ma esemplare. La produzione di Steve Lillywhite è compatta e, che piaccia o meno, addirittura superiore a quella di Mick Ronson, del precedente Your Arsenal. Nessuna canzone conosce momenti di debolezza, di stanchezza, ma sono sempre tenute vive dalla sapiente abilità di rivestirla di luce per l’album più introspettivo di sempre del fuoriclasse Mancuniano.

La tristezza sembra figlia di una necessità, non la conseguenza di disastri (comunque capitatogli, vista la profondità delle tre dipartite che ha vissuto di persone per lui preziose e importanti), e per questo trova conferma la purezza di un sentimento che gli governa il polso: sono lacrime le sue che nascono da un avamposto a noi sconosciuto. Come le stelle che scomparendo lasciano le persone vedove prive della loro bellezza, ecco che Morrissey fa lo stesso con i suoi brani che, ogni volta che finiscono, lasciano lo smarrimento mentre si brinda a nuove puntate perché il suo genio va celebrato, senza paure.

Trovata la linea conduttrice dei testi, sparsa nei suoi filamenti dorati, la sua voce ubbidisce al progetto di spingerla verso la tenerezza, come se una coccola potesse nascere dal baratro che ci mostra in primissimo piano.

In un periodo in cui le chitarre del mondo erano accordate sul fracasso, sull’estremizzare un’emergenza votata alle urla sonore, la band di Morrissey trova modo di visitare melodie, arpeggi, tuffi di luce che rapiscono il buio senza ucciderlo, lasciando ai testi di Morrissey la capacità di decidere il suo destino. Canzoni che commuovono, ci fanno preoccupare, attraversano del tutto la paura di saperlo ad un passo dalla resa. Più maturo di quando era considerato tra gli autori migliori degli anni 90, in questo lavoro si eleva ad essere migliore di se stesso riuscendoci perché, se gli Smiths rimangono irraggiungibili, con questo album può guardare il suo passato dalla stessa altezza, quella degli occhi.

Un disco che esorcizza alcuni demoni e sembra invitarne altri: non vi è pace nella sua intelligenza che rovista tra i rifiuti, dove lui per primo fatica a tenersi fuori da quel gesto. Canzoni come spie, come lampi di vento per sondare la nostra capacità di accoglienza, nella solitudine di un uomo che ha nel microfono lo strumento per sciogliere la sua croce.

Ciò che risalta di questo quarto lavoro è l’impressione di una maturità raggiunta per iniziare una nuova fase: come se fosse in grado di scrivere il futuro cantando il presente, con chitarre a disegnare la forma di un uomo sempre più distaccato dalle movenze di un sistema a lui estraneo. La luce della sua sincerità è talmente evidente che esplode nella sua scrittura mirata a confondere la bugia e la cattiveria, non negando ma mischiando le carte del suo gioco pericoloso.

Morrissey ama ancora la propensione verso la maledizione di chi osservando e capendo non può che sanguinare, scegliendo pochi amici per trovare una strada solitaria dove mettere a fuoco le sue acute dimostrazioni di classe, un attore del cuore che semina sollievo perché sa riunire le paure di tutti noi, spettatori incantati dalla lacrima pronta. Un disco profondo, determinato, la culla che senza freno a mano prende velocità per sparire dal nostro sguardo. Mentre questo ascolto misura il polso alla sua classe, a noi rimane la pelle costantemente bagnata, in una febbre emotiva che anestetizza il passato e si torna a pensare che il bardo di Stretford sia più in forma che mai, perché senza filtri tutto il suo clamore si appoggia sul nostro cuore per stregarlo sino all’ultima nota.

Non ci resta che nuotare tra le undici corsie e imparare a bersagliare i nostri nemici con le sue canzoni…



Song by song


Now My Heart Is Full


Boz Boorer scrive una musica che si affaccia sull’oceano, Morrissey ci mette le onde con parole toccanti che rivelano la sua acquisita maturità, con la strofa e il ritornello che fanno l’amore, con momenti anche difficili ma con la sua gioia, che emerge ma che non può di certo essere sorridente. Nata per divenire l’atto d’amore perfetto di chi adora quest’uomo, senza reticenze, la canzone è il vero abbraccio di Morrissey a tutti noi.



Spring-Heeled Jim


Testo straordinario, Moz ci fa immergere dentro due storie che sembrano distanti ma riesce ad amalgamarle in modo perfetto. In un racconto dove il sesso non garantisce l’amore, mentre appare più possibile invece che arrivino ostilità, ecco che, sulla musica ancora di Boorer, Morrissey prende la sua voce e ci riporta a Viva Hate come approccio. Il crooning costante tiene accesa la tensione mentre le parole viaggiano sensuali dentro una vicenda che graffia la pelle con questa onda sonora che, come nebbia sudata, ci conduce in un Alternative con chitarre rock accennate ma tenute sempre lontane.


Billy Budd


Alain Whyte scrive un tuono che sembra uscire dalle corsie di Your Arsenal, con un atteggiamento glam ma senza rinunciare a distorsioni malate di grigio sulle quali la voce del Maestro Moz può liberarsi con la sua metrica riconoscibilissima. Diventa l’unico brano che sembra fuori sincrono con tutti gli altri, ma forse proprio per questo degno di tutta la nostra attenzione. Il testo invece si trova perfettamente allineato con il progetto dell’album per renderlo alla fine irresistibile.


Hold On To Your Friends


Alain tratteggia il viale malinconico sul quale le parole di Moz sembrano passeggiare con lo sguardo di chi ha capito cosa ha valore nella vita. Qualcosa di funereo aleggia donando al brano tutta la potenza che serve a noi per abbandonarci dentro questo gioiello pop-rock capace di unire gli anni 70 agli anni 90 con un assolo che scolpisce l’aria.


The More You Ignore The Closer I Get


Morrissey in una canzone? Eccola, senza dubbi: l’ascolti e ti sembra di averlo accanto, mentre sprecando il tuo tempo non hai nemmeno più le lacrime a consolarti. Boz spazia con la sua scrittura raccogliendo le nuvole degli anni 50 per amalgamarle ai venti stanchi di questo decennio. Morrissey scrive, descrive e ci alza lo sguardo per riempirlo di verità incollate, che ci tolgono il fiato.


Why Don’t You Find out for Yourself


Come avere la sensazione che essere inchiodati ad una croce possa essere delizioso: Whyte e Moz creano una cella melodica, una piuma che viaggia sotto il mento della verità incline al pianto degli errori. La melodia cattura, la chitarra semiacustica e quella elettrica danzano insieme e a Moz non resta che scrivere un ballo vocale che brillerà sempre per la sua teatralità infinita, mentre le nostre riflessioni si faranno impegnative perché quest’uomo sa inquadrare la verità perfettamente.


I Am Hated For Loving


Whyte e Moz in splendida forma entrano quasi con gentilezza in una storia amara, aspra, con cenni di violenza tenuti saggiamente quasi nascosti, quasi… Come una ragnatela che sorride crudelmente, così fa l’atmosfera del brano che sembra gentile mentre invece diventa un pugno ben assestato al cuore. Il lungo finale musicale è reso perfetto da un vocalizzo semplice ma armonioso su cui stringersi.


Lifeguard Sleeping, Girl Drowning


Il primo dei due capolavori dell’album arriva: con la melodia stupefacente scritta da Boorer, possiamo ascoltare il cantato di Moz come mai abbiamo sentito per percepire cosa è veramente la dolcezza, una ninnananna sensuale e al contempo violenta con la sua storia che la musica sa rendere perfetta. Depressa, ironica, sensuale, conduce ad un pianto inarrestabile, violento, descrivendo il dolore di un desiderio che trova la sua gabbia per morire.


Used to Be a Sweet Boy


Morrissey e Whyte mettono l’amore per gli anni 70 in una pastiglia, composta da dolcezza e solitudine, una nuvola che si perde nel cielo in una giornata di sole tiepido. Può essere ascoltata solo in una camera, con la finestra chiusa, avvolti da una melodia che sembra un carillon che semina sospensioni emotive, toglie il fiato, mentre la storia alla fine concede un bacio alla tristezza.


The Lazy Sunbathers 


Un arpeggio che strega, Whyte ci sa fare sul serio e lo dimostra dando a Moz il via libera con un cantato maestoso, su parole come raggi che si perdono nel parco giochi della vita, senza rumori, tra la pigrizia e l’arrendevolezza che fanno a gara. 


Speedway


Eccolo, il secondo capolavoro, scritto ancora da Boorer, concludere l’album con la canzone più bella di sempre di Morrissey.

La sensazione è quella di un testo che sa riunire la storia degli Smiths con l’attualità pubblica e privata di Moz, in un brano struggente, tiepido, un sorso di tè nel quale far scendere la delusione, la realtà, lo smarrimento, le sicurezze, in un turbinio emotivo drammatico. La musica è una dea fasciata da chitarre malate di tensioni rock, con i piedi su una nuvola shoegaze, che avvolge il testo per esaltarlo, per renderlo libero di gravitare nella nostra mente che si ritrova scioccata dalla bellezza, da microbi che mangiano i tessuti delle nostre resistenze. Le parole prendono residenza per divenire un tatuaggio, un fulmine che mostra la potenza di Morrissey che non adopera l’urlo per farci afferrare il suo dolore, bensì aspira le parole nel microfono per portarci dentro di lui in un viaggio dove la sua modalità espressiva diventa il luogo della sua meraviglia, colma di crude verità.


Ogni Grazie non è la fine bensì l’inizio di una profonda forma di contatto e da questo album, forse, il legame con Morrissey diventa eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

25 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/5lKYNLYykoFAVRAeV5EqPE?si=IRzCypVPS7SZyufY6Bh8RA









My review: Morrissey - Vauxhall and I

 My Review:


Morrissey - Vauxhall and I 


A man is a stone that welcomes the sun, the moss, the wind, the rain, the snow, the human brutality, a witness to joy and tragedy, the guardian of everything, mute and capable of welcoming.

Then there is a man who is a poet, an immense, intense gaze, which falls into his pen like a feather even though he has tons of black on his back, since this is his task: to arrive lightly even if burdened, this is his role, to the end.

His name is Morrissey, the sinuous tear that travels through the decades with increasingly cynical, nostalgic, oblique and heavy eyes, but what he eventually gives us has something magical, precious, true that cannot be refused.

Introspective, resigned, pessimistic, he manages with a single verse to give us strength despite this suffocating magma: it is his unquestionable talent, what elevates him onto the winner's stage, where there are no longer gladioli but poisonous thorns.

The most lost of lost souls, incredibly he becomes the only foothold for those who think they are alone and lost. Listening to him you defend your right to life, you stop dying when you feel alive despite depression, even before resurrecting, because his voice and his words make you hold on to the desire for life, even if you look downwards like him.

Morrissey returns with a new bundle of songs, he make us enter into his inner riots, his despairs, his rages to which he has put filters, and, embracing us with his usual kindness, he puts his recent ordeal, his agitated breaths in our hands, with words that know how to cross every obstacle, to fully see that his career is the best way to find ourselves.

An album absolutely capable of showing this poet able to compact his past and to offer us new views, new perspectives for a soul so vast that it is impossible to comprehend and evaluate, because we are left with nothing but adoration for his ability to blend his public and private events and then make us drink sips of a delicious wine. Unique.

Songs that have a recognisable movement but are new at certain moments, surprising for his propensity to put glitter on open wounds: he knows how to paint harmony where there should only be tears. 

There is a man who belongs to himself, who captures everything as if it were oxygen, who manifests only the desire to write and sing about the universe corrupted by melancholies without handbrakes, with the intention of leaving the gift of his testimony to eternity, as a resource on which he first knows few will rely. Perhaps not even he himself, and this makes him intense and credible.

His songs, in this extraordinary Vauxhall and I, make us touch his breaths, his own and those of his torments, and listening to them becomes a swimming inside him, until disappearing.

The bard asks questions, passes sentences sifting through feelings and behaviour, makes noises in our stomach, scratches the dust of habits and, with bravado, distances himself from what oppresses him, building his own hermitage, made of delicate emotional tension, until he slams the door and leaves with his words in his pocket.

With his problems he fills himself and fills our hearts: what the heavens have given him in these songs is a drawing for us to benefit from, to pamper his suffering and give him back what the same heavens have denied him, namely the chance to be like the rest of us.

His vocabulary, always dense with heaps of decadent wisdom, veers towards apotheosis by giving fluorescent images, taming his earthquakes so as not to give in, he who is always just a step away from the precipice.

Together with Viva Hate, this album represents the ability to combine strengths with weaknesses, where his life is not a game but an exasperated crossroads, trafficked by continuous elaborations, experiences that break rocks, make the toxins that would like to ruin the tissues of his beauty cry, failing.

The ability, that comes from The Smiths, to give the voice the role of suspending the leaden meaning embedded in the words with his propensity for a singing that can make tensions float is still intact, magnificent and decisive, kept deliberately alive, at the highest level.

Alain Whyte and Boz Boorer are his two angels, painters of notes and pilots of weaves and rock raids, with that pop face that suits Moz so well. The two of them emerge victorious despite scepticism, cumbersome, distorted and embarrassing comparisons with the story of The Smiths. They have quickly learned to amalgamate undoubted qualities to give Morrissey sound paths in which he feels comfortable, perfectly. Jonny Bridgwood's bass and Woodie Taylor's drums complete the line-up, for an ensemble capable of new harmonic solutions, with a minimal but exemplary arrangement. Steve Lillywhite's production is compact and, like it or not, even superior to that of Mick Ronson in the previous Your Arsenal. No song knows a moment of weakness, of tiredness, but they are always kept alive by the great skill of coating it in light for the most introspective album ever by the Mancunian master.

Sadness seems to be the child of a necessity, not the consequence of disasters (in any case, they happened to him, given the depth of the three losses he experienced of people precious and important to him), and for this reason the purity of a feeling that governs his pulse is confirmed: his are tears that arise from an outpost unknown to us. Like the stars that disappear and leave people widows deprived of their beauty, Morrissey does the same with his songs, which, each time they end, leave one bewildered as one toasts to new episodes because his genius must be celebrated, without fear.

Having found the guiding line of the lyrics, scattered in its golden filaments, his voice obeys the project of pushing it towards tenderness, as if a cuddle could arise from the abyss he shows us in the foreground.

At a time when the guitars of the world were tuned to the din, to the extremes of an emergency devoted to sonic screams, Morrissey's band finds a way to visit melodies, arpeggios, plunges of light that abduct darkness without killing it, leaving Morrissey's lyrics to decide its fate. Songs that move us, make us worry, cross the fear of knowing he is so close to surrender. More mature than when he was considered among the best songwriters of the 90s, in this work he rises to be better than himself, succeeding because, if The Smiths remain unreachable, with this album he can look at his past from the same height, that of the eyes.

A work that exorcises some demons and seems to invite others: there is no peace in his intelligence rummaging through rubbish, where he first struggles to keep himself away from that gesture. Songs like spies, like flashes of wind to probe our capacity for acceptance, in the solitude of a man who has in the microphone the instrument to untie his cross.

What stands out about this fourth record is the impression of a maturity reached to begin a new phase: as if he were able to write the future by singing the present, with guitars drawing the shape of a man increasingly detached from the motions of a system alien to him. The light of his sincerity is so evident that it explodes in his writing aimed at blurring the lie and the badness, not denying but shuffling the cards of his dangerous game.

Morrissey still loves the propensity towards the curse of those who observing and understanding can only bleed, choosing a few friends to find a lonely road where he can focus his sharp displays of class, an actor of the heart who sows relief because he knows how to bring together the fears of all of us, the enchanted spectators with a ready tear. A deep, determined album, the cradle that without handbrake picks up speed to disappear from our gaze. While this listening measures the pulse to his class, we are left with our skin constantly wet, in an emotional fever that anaesthetises the past, and we return to the idea that the bard from Stretford is in better shape than ever, because without filters all his clamour rests on our heart to enchant it to the last note.

We just have to swim through these eleven lanes and learn how to bombard our enemies with his songs...



Song by song


Now My Heart Is Full


Boz Boorer writes music that embraces the ocean, Morrissey puts in it the waves with poignant lyrics which reveal his acquired maturity, while verse and refrain that make love, with even difficult moments, but with his joy, that emerges but certainly cannot be smiling. Born to become the perfect act of love for those who adore this man, without reticence, the song is Morrissey's true hug to us all.


Spring-Heeled Jim


Extraordinary lyrics, Moz plunges us into two stories that seem far apart but manages to amalgamate them perfectly. In a tale where sex does not guarantee love, while it seems more possible that hostility will come instead, here, on the music always by Boorer, Morrissey takes his voice and brings us back to Viva Hate as an approach. The constant crooning keeps the tension burning while the words travel sensually within an event that scratches the skin with this sound wave that, like a sweaty mist, leads us into an Alternative with rock guitars hinted at but always kept at bay.


Billy Budd


Alain Whyte writes a thunder that seems to come out of the lanes of Your Arsenal, with a glam attitude but without renouncing the sick grey distortions on which Master Moz's voice can free itself with its highly recognisable metrics. It becomes the only track that seems out of sync with all the others, but perhaps for this very reason worthy of our full attention. The lyrics, on the other hand, are perfectly aligned with the album's design to make it ultimately irresistible.


Hold On To Your Friends


Alain sketches the melancholic avenue on which Moz's words seem to stroll with the gaze of someone who has understood what is valuable in life. Something funereal hovers giving the track all the power we need to abandon ourselves inside this pop-rock gem capable of uniting the 70s with the 90s with a solo that engraves the air.


The More You Ignore The Closer I Get


Morrissey in a song? Here it is, no doubt about it: you listen to it and you feel like you have him next to you, while wasting your time you don't even have tears to console you. Boz sweeps through his writing gathering the clouds of the 50s to amalgamate them with the weary winds of this decade. Morrissey writes, describes and lifts our gaze to fill it with glued truths that take our breath away.


Why Don't You Find out for Yourself


Here you get the feeling that being nailed to a cross can be wonderful: Whyte and Moz create a melodic cell, a feather that travels under the chin of truth prone to the weeping of errors. The melody captures, the semi-acoustic guitar and the electric one dance together and Moz has only to write a vocal ballet that will always shine with its infinite theatricality, while our reflections become challenging because this man knows how to understand the truth perfectly.


I Am Hated For Loving


Whyte and Moz in splendid form enter almost gently into a bitter, sour story, with hints of violence wisely kept almost hidden, almost... Like a spider's web that smiles cruelly, so does the atmosphere of the song that seems gentle while instead becoming a well-aimed punch to the heart. The long musical end is made perfect by a simple but harmonious vocalization to cling to.


Lifeguard Sleeping, Girl Drowning


The first of the album's two masterpieces arrives: with the amazing melody written by Boorer, we can hear Moz's singing as we have never heard it to feel what sweetness really is, a sensual yet violent lullaby with its own story that the music knows how to make perfect. Depressed, ironic, sensual, it leads to unstoppable, violent weeping, describing the pain of a desire that finds its cage to die.


Used to Be a Sweet Boy


Morrissey and Whyte put their love for the 70s in a pill, composed of sweetness and loneliness, a cloud which is lost in the sky on a warm sunny day. It can only be listened to in a room, with the window closed, enveloped by a melody that sounds like a music box which sows emotional suspensions, it takes your breath away, while the story eventually grants a kiss to sadness.


The Lazy Sunbathers 


An enchanting arpeggio, Whyte is really good at it and proves it by giving Moz the go-ahead with majestic vocals, on words like rays that are lost in the playground of life, without noise, between laziness and surrender competing with each other. 


Speedway


Here it is, the second masterpiece, written again by Boorer, that concludes the album with Morrissey's most beautiful song ever.

The feeling is that of lyrics that know how to bring together the story of The Smiths with Moz's public and private current affairs, in a poignant, tepid song, a sip of tea into which disappointment, reality, bewilderment, certainties descend, in a dramatic emotional whirlwind. The music is a goddess wrapped in guitars sick of rock tension, with its feet on a shoegaze cloud, enveloping lyrics to enhance them, to make them free to gravitate in our minds, which find themselves shocked by beauty, by microbes eating the tissues of our resistance. The words take up residence to become a tattoo, a lightning bolt that shows the power of Morrissey, who does not use shouting to make us grasp his pain, but rather aspires the words into the microphone to take us inside him on a journey where his mode of expression becomes the place of his wonder, filled with hard truths.


Each Thank You is not the end but the beginning of a profound form of contact and with this album, perhaps, the bond with Morrissey becomes eternal...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

25 June 2022


https://open.spotify.com/album/5lKYNLYykoFAVRAeV5EqPE?si=IRzCypVPS7SZyufY6Bh8RA







mercoledì 15 giugno 2022

La mia Recensione: Shearwater - The Great Awakening

 La mia Recensione:


Shearwater - The Great Awakening


L'ampiezza del mondo vista da un infarto: un oceano di luce che ristora, un risorgere prima ancora della morte, per poter volare dentro le necessità.

Cosa produce questi pensieri?

L’ascolto dell’album che più mi ha emozionato negli ultimi tre anni e del quale provo a tracciare una traiettoria razionale, conoscitiva, una esplorazione nel tentativo di seminare l’incredibile scorrere di battiti radiosi nei confronti di queste undici bolle di sapone pronte a esplodere nei vostri cuori.

Da quella palla di fuoco che non si arrende mai, quel Texas sempre più proiettato verso l’isolamento, la band di Jonathan Meiburg è tornata a scrivere canzoni con alcuni membri che hanno ripreso a seguire il leader indiscusso. 

Partito dalle letture di TS Eliot, il dolce comandante supremo ha stabilito le coordinate per fare di alcuni abbozzi di canzoni un disco che navigasse dentro i ragionamenti, le vicende di un mondo in stato di smarrimento. 

The Great Awakening è un visitare i palpiti, una carezza sonora vistosa dove però, ad essere meno evidente, è l’abilità di occuparsi di questo pianeta, non solo descrivendolo.

Ventitré anni di soffi, pennellate, approcci riusciti nel fare della musica un campo da seminare, tutto sembra essere ancora più maestoso, con la capacità di rendere fertile le zone aride della mente.

Shearwater è la poesia del cielo che ci invita a risollevare le nostre armi e a offrirci quegli scatti necessari per fare della vita un disegno creato da un bambino. 

Le storie raccontate sono quelle degli adulti: il capo si flette verso il basso e le lacrime rimbalzano. Ma vi sono bimbi felici che giocano con tutto questo strappando alla fine quel sorriso che velocizza una reazione.

Prodotto magistralmente, da Jonathan e Dan Duszynski, questo insieme di splendori è imbevuto di suoni che raccolgono la bellezza per farla vibrare in volo.

Jonathan ha scritto della speranza, in perenne lotta con le difficoltà, la disperazione, lo stress, senza però perdere la fiducia.

Il decimo album accende una stella definitiva nel firmamento celeste: una clamorosa discesa terreste capace di essere la guida necessaria dentro i territori sconnessi dei nostri comportamenti.

Tutto è raffinato, delicato, quasi fosse un libro di canzoni caricate dentro un pugno a salve: nessuna intenzione di ferire, bensì la ferma volontà di aprirlo in una carezza infinita. Dopo aver scritto un libro, quest’anima indomabile ha incominciato a produrre idee per nuove composizioni musicali non scordando di  inserire anche gli animali, che trovano un grande posto in questo long playing. La convivenza di tutte le creature di questo pianeta veste di armonia le creature sonore, suggerisce bellezza laddove viene messa in pericolo da comportamenti violenti.

E di violenza in questo lavoro vi è traccia solo in parte, è sapientemente accennata ma non descritta.

L’uso degli archi, di tastiere e del pianoforte, strumenti della zona alta e nobile della mente, conferisce una grande lucidità alla scelta delle canzoni, che vengono avvolte da atmosfere sognanti e morbide. 

Si nuota, si passeggia, si vola senza sosta e il tutto lo si fa lentamente, tra le zone brulle, fredde, calde, annacquate di un mondo che ha smesso di sorridere.

Il cantato prende la luce del palco, sta sempre davanti, a contatto diretto con il nostro ascolto, circondato da strumenti timidi, con la giusta voce nei loro movimenti, per essere un’onda che si sposta quasi di nascosto dentro l’ugola di Jonathan, il mago della leggerezza, di quella intimità che deve saper essere capace di sussurrare. 

Se siete in grado di gestire una scorribanda emozionale che sia capace di connettersi ad una lucida razionalità, allora questi solchi si espanderanno dentro di voi.

C’è un angelo scozzese nel cielo che protegge questa band: Scott Hutchinson, il leader dei Frightened Rabbit sorveglia orgoglioso, facendo l’occhiolino a Nick Cave, per rendere chiaro che qui, tra le pieghe di un vestito meraviglioso, la qualità presente può essere accostata ai due appena citati. Ma Niko Case e Nik Drake possono reclamare la loro influenza, anche se Jonathan è assolutamente un maestro nel mostrare la sua genialità, staccandosi abbastanza velocemente da alcune connessioni. 

La scrittura dei testi mette in rilievo una propensione alla narrativa, anche se alcuni passaggi vestono l’unicità della poesia, che sembra più una suggestione che una effettiva presenza. 

Con una maggiore propensione all’elettronica rispetto al passato, la band non si dimentica di disegnare mantelli acustici in odor di tempera, per rimanere comunque legati ad un dna imponente.

La flora e la fauna, i rapporti interpersonali e le ingiustizie vengono amalgamati come un liquido ospitante, in accordo senza alzare la voce: tutto ciò che viene miscelato al suo interno funziona e conquista.

Se si presta attenzione nell’ascolto si avvertono momenti in cui il mistero rivela la sua lenta danza, con l’atmosfera che bussa alle porte del folk per veicolare una tipica bellezza senza però riuscire a bloccare l’inquieta presenza di un tormento interiore, che finisce per dare a questa apparente morbidezza qualche atomo di tristezza. Ecco così che ci rendiamo conto che l’irrequieto Jonathan agisce compensando, fungendo da bilancia preventiva per i suoi fiumi che seppur splendenti non sono privi di qualcosa di torbido. La lunga pausa dal penultimo lavoro ci consegna una band che si è spostata dalla sua pelle morbida e quasi solare per andare verso il sole, ma a testa bassa. Per catturarne i segreti è consigliabile procedere in un ascolto che ripeta una canzone prima di passare alla successiva. Si respira l’evento, nell’avvicendamento di spiragli celesti col vestito da sera, dove l’equilibrio di arrangiamenti perfetti danno un senso di continuità sublime, per approdare nella specificazione di sentimenti imponenti.

Spesso sembra che le canzoni siano contorte, nevrotiche, nascoste da soluzioni che sono capaci di sbigottire e presentano tutta la gamma a loro disposizione per costruire una casa di paglia dentro il deserto.

Non svelano i loro segreti, ma li mostrano come se fosse una rincorsa alla ferita di sfere astratte che cercano l’abbraccio.

Con la necessità di proporre musica che possa far pensare all’art rock e quella barocca, vi è un allontanamento dall’ansia e dall’insicurezza per proporre invece certezze che si oppongano a insicurezze crescenti. 

Baciata dal talento, la band segue l’esempio degli Arab Strap: occorre dare al tempo la possibilità di storicizzarne le malefatte e di trasformare il tutto in una corsa dal passo lento, per trovare un luogo dell’anima nel quale sgorgano gocce alternative e baciare l’incanto. Così facendo si scopre che è stato conferito all’oltraggio un senso piacevole e dinamico, tuffando i propri slanci dentro l’accogliente natura.

Ora siamo pronti: scendiamo nella profondità del loro immenso mare, scoprendo di aver nuotato in modalità Apnea On, e si scoprirà una Atlantide pronta ad essere scorta dai nostri occhi misericordiosi, con la certezza che a volte la musica possa essere un beneficio sensoriale totale.



Song by Song 



Highhate 


Siamo già dentro la fluida gentilezza, un salto nel tempo dove l’umana bellezza viveva tra sussurri e tuoni, si sale nel disagio di un cielo che ci attende.



No Reason


Il basso mostra la sua movenza anticipando Jonathan, pilota di un cantato toccante, con i suoi saliscendi strutturati per cancellare la ragione del pianto.



Xenarthran 


Si rimane nella sospensione dell’oceano, tutto è acqua, dissolvenza, la voce si tuffa nel cuore, mentre archi elettronici placano la tensione, appare Atlantide circondata da un accenno di chitarra e si vola in basso, la chitarra elettrica si affaccia e noi siamo a bocca aperta…



Laguna Seca


L’unica canzone dell’album ad avere una struttura diversa, quasi tribale, giocata su ipotesi celestiale dilatata, inserti continui a stordire, con la base musicale che ricorda Bjork a tratti, un quasi trip hop glaciale, vellutato.



Everyone You Touch


Nick Drake e John Grant stappano champagne, abbracciano Jonathan e piangono sul bagliore intimo che sgorga dall’arpeggio e da questa voce alla quale non si può chiedere nulla di più. Gli archi stregano, come il pianoforte, e si cade nell’intimità più accogliente.



Empty Orchestra


Tutta l’intensità della band si manifesta in questo gioiello, circondato da coriandoli acquei, che fanno vibrare le onde con riferimenti agli anni 90, carichi di scintille elettroniche nascoste. È la voce che ci piega tra lacrime dolcissime, mentre la batteria e il basso circondano il corpo e la chitarra tratteggia poesia.



Milkweed


In questo lavoro l’acqua e gli animali appaiono come i padroni di un mondo che gioca al loro massacro: ecco l’occasione per avvertire la drammaticità di tutto questo in un pezzo strepitoso, al limite di una psichedelia new age, per scomporre la nostra sicurezza. 



Detritivore


La poesia deve essere lenta, mostrare la sua anima solo dopo ripetute letture. Questo accade tra le righe di questa apparente soffice canzone. Se i Radiohead avessero continuato a visitare la leggerezza del suono forse avrebbero scritto loro questa Dèa sonora. È sospensione continua, decadente, ottocentesca nel cuore, moderna nel suo vestito.



Aqaba


Tempo di bussare a casa Sylvian, David è impegnato ma le note del piano sembrano uscire dalla sua dolcezza; poi la tastiera e la chitarra portano il brano ad accenni di World music: chiudiamo gli occhi e vaghiamo, nella resa più piacevole.



There Goes The Sun


Siamo avvolti da una cadenza sensuale, in punta di piedi avviene la magia, la voce si alza in volo e in questa ballata moderna tutto pulsa per raggiungere il vento dei raggi del sole che illuminano la nostra perduta capacità di guardarlo. 



Wind Is Love


L’arrivederci alla prossima volta è magistrale: in un loop strepitoso, secco, breve, vive una voce dalle piume color vento per portarci la pioggia del cuore.

Un album clamoroso doveva presentare l’ultima movenza per creare dipendenza totale. Tra un mood elettronico e la sembianza di una chimera vive la delicata danza di un falsetto sognante: buonanotte mondo, abbiamo ricevuto la favola più bella per poter dormire in pace…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/2gmKfhM2fBsbVMhVm7D16M?si=ARPmK3GgTgu9fn6jeRKz3A







martedì 14 giugno 2022

Riflessione di Calliope Tamara su: Lou Reed - Street Hassle

Immersa in un silenzio di provincia, in un periodo pandemico in cui i pomeriggi sembrano ancora più lunghi, accendo il mio giradischi e decido di masticare LP acquistati da poco in un mercatino dell'usato in Romagna. C'è musica classica e poi questo disco di Lou Reed. Copertina invecchiata, nero su nero. La puntina comincia a pizzicare e vedo sgorgare, dal nero dal vinile, una sostanza sporca e putrida. Penso : mica sto bruciando il mio giradischi? Da dove deriva questa sostanza?

Gimmie some good Times, Dirt

e la terza traccia si apre con arcate decise e concise su quello che sembra un mi maggiore. È Street Hassle e la sua storia. Matilda si sente male e sono guai per quell'uomo nel locale insieme a lei. La sostanza comincia a spandersi per la stanza. Mi alzo da terra, mi allontano mentre il giradischi sputa in aria il suo cibo e parte il lato B  con I wanna be black. Come faccio a fermare questo casino? La sostanza erutta sulle note di Real Good Time together. Esecuzione stonata e fuori tempo, una magia più unica che rara. Mi metto a ballare, saltando qua e là, cercando di evitare il marciume per non sporcare le mie scarpe. Niente da fare, Shooting Star è alle porte.

"Certa gente

quella ti deluderà sempre

tu cerchi di fare qualcosa

e loro ti guardano storto" la rabbia di Leave me alone mi lascia senza fiato. Non riesco più a saltare. Quante volte avrei voluto dirlo anche io e non ci sono riuscita?

Wait... e respiro di nuovo. Il marciume si ritira e torna a casa. La puntina trema sulle ultime battute e si stacca dalla sua catena. Il silenzio è di nuovo qui.

Sorrido e mi siedo per terra.

Lato A... si ricomincia.


Calliope Tamara

Pescina

14 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/4bCvrqNBh6hPB7hG4EltjN?si=JK0CeDDJQ0m3DviDOYIaJQ





domenica 12 giugno 2022

La mia Recensione: Beach House - Once Twice Melody

 La mia Recensione:


Beach House - Once Twice Melody


Un flusso abbondante di sollecitazioni può avere la pelle morbida, appoggiata sui sogni verso il vuoto, senza paure, seguendo la propria identità con quella leggerezza che conquista soprattutto se stesso. Quando tutto questo avviene si presenta la magia a battere le mani, soddisfatta, per poi concedere un abbraccio tenero, tenerissimo.

Tutto ciò accade con un album che è entrato nella mente dello scriba senza esitazioni. Due ragazzi americani, Victoria Legrand e Alex Scally, capitani della bellezza, abitano da tempo nelle strade dei sogni, del soffio, di maglioni di cashmere su note altrettanto morbide, trasportando dentro i loro solchi tutta la volontà di dare alla musica ancora un’impronta senza macchie scure sulla sua superficie. Once Twice Melody è un respiro dentro le scorribande di onde che vogliono trovare una sosta. I due le fermano e danno da mangiare alle loro melodie: è un incontro tra follia e la semplicità questo disco, una risorsa per l’anima che aspetta carburante buono e non polveri sottili, che inquinano ingannando.

Tra queste diciotto tracce non vi sono falsità, ma sincere propensioni all’avvolgimento, tra un aperitivo e carezze che escono da note rassicuranti.

Come una serie di range dinamici, i due hanno istruito le canzoni a essere navicelle spaziali con il compito di estrarre da ogni buio imperante scintille di luce, per poterle inserire dentro i palmi di questi artisti, maghi del sospiro sonoro, e dipingere sorrisi per poter dipendere da loro.

Tutto diventa uno sguardo contemporaneo, dove non manca nulla: nebbia, tinte chiaroscure, sole stanco, appetiti mentali, storie dalla trama color grigio, onde e delfini nel gioco complice e molto altro ancora. 

Afflussi intuitivi, dinamiche architettoniche notevoli sono spalmati con intelligenza per raggiungere i sensi, dove la possibilità di danzare con gli occhi chiusi conosce grande dimensioni, specialmente domestiche, nel proprio salone, nella propria stanza da letto. Offerta la possibilità di dare alla musica nuovamente un consumo soprattutto personale, viene anche concesso il modo di fare di questo album un abbraccio che esce da quei confini.

Il mood sonoro è chiaro, visita l’incanto dei luoghi umani, quelli interiori, con una spiritualità che si incrocia con una forma elettronica ben distribuita, fiumi delicati ci portano queste onde sonore con precisione e una cura nella produzione di altissima qualità.

Vince un senso equilibrato di reminiscenze mainstream ma mai banali, dove si possono scorgere elementi di contatto con uscite discografiche di due/tre decenni fa, perfettamente assorbite e rielaborate con quegli spruzzi di alcune scelte geniali.

I due ci portano semi di luce senza interruttori, con quella gentilezza che li contraddistingue, angeli educati in luoghi e tempi che non lo sono di certo, conferendo a tutto questo già una medaglia al valore dell’intenzione: essere veicoli di bellezza.

Sono canzoni che escono dal tempo, dalla contemporaneità senza essere una fuga: vi sono elementi di contatto con la realtà ma con una grazia che essa ha solo in piccole dosi, facendo sì che siano brani come miracoli, da benedire e conservare, gelosamente. È un percorso fatto di trasformazioni, di punti di avvicinamento tra le melodie e le buoni vibrazioni, per sentire un abbandono dentro note abilmente messe in condizione di generare raggi solari, morbidezza, per portare lo sguardo verso l’alto con l’impressione di stipulare un patto con l’assenza di gravità, al fine di assentarsi per davvero dalle strutture terresti, così propense alla pesantezza che genera a sua volta oscurità e sporcizia. Questo è un insieme di brani dove trionfa l’attitudine a coinvolgere le singole prelibatezze affinché diventino custodi eterni. I secondi volano, le paure non smettono di vivere, ma all’interno di Once Twice Melody non trovano residenza, rendendo il tutto capace di resistere alle storture quotidiane. Tra compendi vari esiste la certezza di un lavoro che ci fa vivere il passato come possibilità, quasi assurda, di poterlo cambiare perché questa è la magia, l’atto più sconvolgente di composizioni dal tessuto di lino, leggere e svolazzanti, per raggiungere tempi lontani.

La freschezza di quest’opera conduce a territori musicali sempre più intrecciati con eleganza, non dimenticando quell’attitudine pop/shoegaze, sapientemente cucita su synth per farci scoprire connessioni davvero interessanti. Si esce dall’inverno per nutrire la primavera di una nuova luce, il sapore della leggerezza si impossessa di questa coppia di anime per poter farci sognare.

Non vi resta che ubriacarvi con lentezza, traccia dopo traccia, con gli occhi chiusi e i sogni aperti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/2eTxZYoqIv4MoLqwh73qvo?si=U4kq70g2S7WVB0Ue9Gt93Q








La mia Recensione: L’appel Du Vide - Metro

  L’appel Du Vide - Metro Toh, la Sassonia, uno degli stati federati della Germania, ci presenta quattro suoi emissari di bellezza dalla s...