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giovedì 22 dicembre 2022

La mia Recensione: Roxy Music - For Your Pleasure

Roxy Music - For Your Pleasure 


La Storia ha creato Favole che hanno riscritto il valore dell’Arte.

Per necessità, svelandone il piacere.

E come tutte le favole, pure questa ha avuto la difficoltà di veder tributato il proprio merito attraverso altre che sono state scritte dopo.

Perché esistono album e band che non hanno immediato riconoscimento, e questa è quasi una tragedia, altro che favola.

E la band Londinese, rappresentante perfetta di che cosa sia l’imprevedibilità all’interno di una costante sperimentazione, sforna l’album che cambierà la musica di lì a poco: un merito innegabile non subito inteso nella sua straordinaria capacità. Canzoni come vocabolari immensi, poesia che inventa il futuro più che ricordarne i fasti, perché i tempi lo richiedevano e una pletora di artisti di quella fulgida contemporaneità avevano già stabilito la necessità di un cambiamento più che essenziale. Ma i cinque cavalieri mutanti, Brian Eno, Bryan Ferry, Paul Thompson, Andrew Mackay e Phil Manzanera ebbero il merito di trovare la vernice migliore per fare del mondo artistico, musicale e culturale un luogo magico, profondamente diverso e necessariamente nuovo.

Dopo l’album di esordio, altrettanto seminale ma meno preciso, questo secondo lavoro (da qui il folletto Eno salutò la compagnia e intraprese una più confortevole camminata tra le sue adorate scorribande con le sue amate manopole) sentenziò, definì e conclamò una svolta epocale.

Partendo dal riassumere il cammino più fosforescente del Rock e di tutte le sue piume incantevoli, i Roxy Music con For Your Pleasure fecero un salto in avanti di cui ancora oggi si sente il profumo e la precisione con cui la storia della musica da loro ha avuto i doni più grandi: il merito, la capacità, la magia, la perfezione. Facendo pure in modo che certe particelle delle canzoni contenute diventassero addirittura generi musicali destinati a creare fiumi di generose propensioni, che perdurano e lo faranno per sempre.


Riascoltarlo oggi, con orecchie attente, non può che definire uno spazio dentro il quale la musica ha trovato sia ramificazioni che specificazioni, continuative, per disegnare specificità essenziali, in costante proliferazione. Otto brani intrisi di un tutto che non smette di essere perlomeno intravisto, percepito, ma non ancora colto: è proprio questo aspetto a renderlo immortale, un generatore di dinamicità senza possibilità di bavaglio, senza che nessuno possa fermarne la corsa. Si dovrebbe consegnare la medaglia d’oro a questo strato spesso di suoni unici in contesti di proliferazioni inarrestabili con l’ipnotica capacità di fare della notte un cammino felpato e sensuale, del mattino un respiro robusto e del pomeriggio una produzione immensa di esercizi sonori tesi ed effervescenti.


Inevitabile pensare che gli abitanti celesti siano riusciti a mandare ai ragazzi della capitale britannica segnali di vita, pulsioni e attrezzature melodiche e ritmiche fuori dal limite umano: queste sono canzoni figlie di alieni ma non alienanti, sono scintille monocromatiche con un gas sconosciuto a portarle in giro per il pianeta culturale musicale senza possibilità di negarne il mistero: ciò che è stato possibile fare con le otto canzoni di questo disco è tuttora per molti è praticamente impossibile. Non tutti possono essere figli delle stelle…

Ed è nostro e di tutti il Piacere dell’ascolto, una matrioska di infinite dimensioni dentro la quale tutto si fa sottile, immenso, catartico e devastante: come un unico imprevisto che regala ossigeno e dona l’imprevedibile dono della immortalità, ecco che ci ritroviamo infanti al primo giorno di scuola, totalmente sopraffatti e già distrutti al cospetto di cotanta diversità.


Si dovrebbe fare l’ecografia, una tac total body, immergere queste canzoni dentro l’acido più portentoso per scoprire la scorza infinita di queste pillole incantevoli che fanno viaggiare la mente come nemmeno massicce dosi di droghe potrebbero fare. 

E poi lo stile: un capitolo nuovo della letteratura dovrebbe riempire i nostri giorni per intenderne la potenza, la dinamicità, perché è forse questo elemento che maggiormente sgomenta e produce moti di godimento indiscutibili. Ne sono sicuramente intrisi con dimensioni che ancora oggi paiono sfuggenti a ogni descrizione. Se il glam ha dei meriti è quello di aver fatto dello stile una propensione, molto di più che una capacità, ecco allora che i Roxy Music (sicuramente non estranei a questo genere musicale ma proprietari, inconfutabili, di molti altri) inventano il peso massimo di questa capacità e diventano i principali creatori di infinite gemme. Producono la moda all’interno delle canzoni, abiti e tessuti che non si trovano nei mercati, nei negozi, nelle fabbriche. 

Riscrivere la Storia dell’eleganza, nei primi anni Settanta poi, è di fatto qualcosa di straordinario: incomprensibile è intenderne la modalità, spudoratamente comprensibile invece è goderne la morbidezza, l’intensità, provare piacere nel trovare il garbo con il quale la somma delle note diventa sempre una passerella radiosa, dove il nero fa sorridere e dove è il blu a renderci tutti inebetiti. 

Ma qui c’è molto altro, perché la perfezione è un cielo che non si accontenta dello stile, cerca particelle flessibili per generare l’incontestabile, per dar modo al futuro di non conoscere siccità, rendendo possibile l’assoluta esigenza di trovare nella pancia dell’album un pozzo di San Patrizio.


Si diventa utenti anonimi di un ospedale psichiatrico quando si mette la mente nei percorsi di queste canzoni: uno sciame di sirene provenienti da Atlantide salgono sul velo del tempo e scendono in questi solchi per facilitare l’abbandono della nostra lucidità, rendendoci devoti schiavi di ogni possibile piacere. Perché, indiscutibilmente, nuove modalità sensoriali apparvero, generando sconvolgimenti, e occorreva tempo per capirne il valore. E poterne, conseguentemente, godere i frutti. 

L’ensemble Londinese ridefinisce i movimenti e la storia delle canzoni, nel contesto storico dove soprattutto il Progressive aveva mostrato questa necessità: l’alta produzione di canzoni e canzonette a uso e consumo dell’immediatezza avevano incominciato a rendere insoddisfatti molti musicisti, creando imbarazzo e noia, rabbia e frustrazione. Sembrava che tutto questo potesse solamente generare la modalità della creazione di nuovi generi musicali. Ma i Roxy Music fecero molto di più e molto meglio ed è già tutto in queste composizioni, respiri ribelli ma che tenevano conto dell’importanza della storia musicale. 


Con questo album tutto diventa provocazione, essenza pura di inquinate tossicità rivestite di delicatezza, di una pornografica attitudine a fare dell’ascolto un amplesso osceno, sconnesso rispetto a quella che era la musica in quegli anni. Pose e ammiccamenti, sferzate nevrotiche, corse a perdifiato, palpabili idiosincrasie, fughe da schemi rifiutati prima e ridefiniti poi, con l’assoluto bisogno di fiammate tribali che ispessiscono il delirio. For Your Pleasure è il lungo momento nel quale l’inferno e il paradiso si sfidano, inventando continuamente le regole e i luoghi non di uno scontro, bensì di generosi ammiccamenti che sfiniscono l’ascoltatore, rigenerando il presente.


Tutto si fa dominio nel giardino della schizofrenia, dove il pathos circonda il respiro, catatonico per definizione, logorando la possibilità di rinunciare alla perversa volontà di cibarsi di queste splendide fotografie oscene perché questo in realtà è l’album. La psichedelia malata di Eno disegna la follia dei polmoni di MacKay, le contorsioni metalliche di Manzanera spargono spasmi, le pelli di Thompson sconquassano il cielo e la voce di Ferry è l’acqua santa che scende dal cielo per regalarci i cancelli aperti che ci introducono nel bordello scostumato del nuovo paradiso.


Ma poi: ciò che era la magia maggiore e prioritaria era la perfetta adesione alla promiscuità musicale tra i componenti della band, in continua elaborazione spontanea e studiata, l’appuntamento ideale di una complicità senza precedenti. Le idee musicali qui sono campi di funghi in un bosco fertile, dove tutto pullula di magie a noi umani non comprensibili, ma grazie a Dio nella condizione di un ascolto masticatore. Tutto ha una direzione nell’album: dieci mani che pescano dall’oceano quintali di luce e vapori di una intensità mai sfiorata prima perché le note sono dardi, piume, eretiche dimostrazioni di valori assoluti che agitano i battiti portandoli verso il volto celeste. Tutto è miscela, un carburante colorato come nemmeno un arcobaleno sa essere, come se fosse impossibile proseguire il percorso tracciato nella musica prima di loro. Lo si capisce dalle fiammate, dai cambiamenti di scenari, dalle progressioni cavalcanti che, come temporali impavidi, non arrestano il loro dipinto. Altro che crossover e cose varie e maldestramente assortite: un vinile sacro che si eleva e si discosta, conducendo tutti verso la bellezza. 


Il lusso, la passione e la volgarità si incontrano, dentro un prisma di suoni confezionati a misura, nati e vissuti come il lavoro metodico di un sarto nella sua piccola stanza che, una volta finito, renderà più bello il mondo. A partire dall’artwork, si ha l’impressione che un’esperienza sublime stia per invadere le nostre vene e così sarà: si incontrano molteplici forme espressive, con una scenografia che cambia in continuazione dentro la recitazione da premio oscar, per un fascio interstellare che fa capire come le idee siano generatrici di piaceri multipli, ridisegnando il senso del tutto. Allora note come un circo senza tempo circondano gli stili che cambiano il passo, si sciolgono e rinascono  diversi.


Rumori, cacofonie leggere, malinconie e sottili e clamorosi sbandamenti dalla pelle dorata rendono questo album il genitore che ogni figlio dovrebbe avere: creativo, disciplinato, strabordante, enigmatico, trasversale, efficace, incontenibile, capace di suscitare curiosità a bocca aperta, For Your Pleasure è uno dei pochi album che hanno stravolto la musica, e non solo, come uno starter talentuoso prima di una gara dei 200 metri piani. 


L’incontro della genialità, in cinque esseri umani, è oggettivamente una incredibile casualità, che bisogna saper governare e conservare: a questo serve registrare la musica, per renderne possibile la fruizione mentre il tempo si allontana da quella situazione. Sono passati quarantanove anni da quell’incontro, da quella semina, e tutto è vivo, lucidamente e splendidamente, affinché nulla possa impedire lo studio e l’apprendimento. 

Ascoltare qui è lezione di classe, di armonia e piacevole solitudine, dove la gelosia vorrebbe creare piaceri individuali e solitari, per non condividere con nessuno questo orgasmo: l’amore è anche questo, innegabilmente, e si vorrebbero concerti di questo album nelle nostre singole stanze, in un solo, infinito lungo applauso.

Un’opera robusta, che sostiene e genera proliferazione non può che essere ammirato. Il gruppo musicale più influente degli anni ’70 è stato proprio questo e l’incantevole progetto di cui lo scriba sta parlando è ancora oggi un brivido dal quale sgorgano semi. 


Allora l’elettronica diventa non un atteggiamento sonoro ma una impronta, il punk nasce con una maschera perfetta, il glam mette la freccia e sorpassa la sua stessa storia, il progressive lascia le tracce perché vengano fotografate senza la necessità di metterci interamente le scarpe dentro.

Via i ritornelli e via la consuetudine di fare della canzone un fischio e/o un canto sotto la doccia: occorreva una bastonata piena di charme ed eccola qui, possente. 

Non solo dei generi sono nati da qui (post-rock, ambient, world music, post-punk, e altri ancora) ma soprattutto un concetto nuovo del tutto, dal pensiero alla musica, dove il baricentro (la genialità) avesse il ruolo e il dovere di immergersi in un tuffo continuo.


Potrei scrivere un libro, ma mi fermo qui.

Un disco del genere non si spiega: lo si vive con ascolti continui, essendo consci del fatto che ci fa arrendere tutte le volte e ci rende piccoli, ma con la certezza che si nasce con lui per poterci regalare l’illusione che prima o poi potremo farne uno simile.

Proprio vero: ci nutriamo dell’impossibile… 


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

23 Dicembre 2022


https://open.spotify.com/album/6gKMWnGptVs6yT2MgCxw29?si=dE5vzh_vRnyaVmO48cJ-cwSi 




giovedì 27 ottobre 2022

La mia Recensione: Alice Cooper - Love It to Death

 

La mia Recensione:


Alice Cooper - Love It to Death


Bettie David e Anita Pallenberg.

Dee degli anni 60 che hanno fecondato bellezza e importanza, gravitando nei pruriti fisici e mentali di uomini in cerca di ossessioni.

Poteva mancare di fare lo stesso Vincent Furnier, da Detroit, anima nascosta dal credo cattolico genitoriale? Certamente no!

Come una lumaca che sale su uno skateboard, il ragazzo baldanzoso forma un gruppo e scrive singoli, cerca attenzioni dando in cambio stratagemmi visivi uniti a percorsi mentali demenziali, farciti di bolle di pazzia ad alto voltaggio.

Crea la band Alice Cooper e fa di tutto per disintegrare il talento con dischi confusi e approssimativi, seppur macchiati qua e là già di  bellezza e di vibrazioni metalliche. Questo vale per i primi due lavori.

Poi Frank Zappa vende la sua Label alla Warner e tutto cambia per la formazione Statunitense. C’è bisogno di chiarezza, disciplina, di quella incisività mancante ma che con un buon lavoro può essere ottenuta. Arriva un musicista, arrangiatore, giovane e inesperto alla produzione, il cui impegno (non privo di scazzi e tensione) darà però al terzo album una forma e un valore immensi.

Bob Ezrin è colui che sfiora il vaso Alice Cooper e il serpente che esce questa volta, seppur addomesticabile, si rivela velenoso e letale, stravolgendo la sfera musicale per creare uno spartiacque che risulterà decisivo.

Arriva Love It to Death e finzione, realtà, mistero, crudeltà e una forte immaginazione daranno al rock dell’epoca una lezione, sapendo succhiare linfa contemporanea per ampliarla e inocularla in quella scena rock americana così desiderosa di un passo avanti.

Eccoci: Glam Rock, Psichedelia, semi Garage, presi e liofilizzati, dentro papà Rock che mette su muscoli, adrenalina, entrando a teatro e al cinema con cambi di abito, una scrittura che rispolvera la poetica decadente ma alla quale viene data una sferzata con i fervori giovanili. Si crea uno shock totale che accerchia i fianchi mentali di persone consumate dagli abusi ma senza più coscienza.

Vincent non ci sta e coinvolge i membri nella scrittura dei brani (metà saranno totalmente suoi, gli altri dei 4 funamboli) più una cover meravigliosa.

Manicomi, insicurezze, favole gotiche col trucco sbavato e colante, grumi di terrore: tutto compattato per portare in scena non il disagio bensì una presenza che desidera acculturare, diversificare e ampliare il raggio di azione della potenzialità delle giovani leve che vogliono fare qualcosa di più decisivo.

Gli Alice Cooper scavano nel torbido e trovano uno scettro dal quale escono raggi che sprigionano paura ma soprattutto curiosità e senso di novità più che mai necessario.

E qui la maestria di Bob si rivela la mappa del tesoro e non il tesoro stesso: lui indica le coordinate per trovarlo e disciplina la truppa di pirati musicali verso il target, che viene raggiunto pienamente.

La voce è una Toxicodendron radicans (edera velenosa) che graffia le nostre orecchie per creare ferite, come ugualmente fanno le chitarre: un modo selvaggio di assestarsi e di poter dominare, senza rinunciare a una forma estetica che conosce eleganza e dolcezza.

Ma saranno semi che si allargheranno dentro il tempo che verrà e che li consacrerà come tra i più validi e importanti maestri non solo di generi musicali, bensì di attitudini.

Su queste corde vocali le melodie sono più ordinate e coordinate rispetto al passato: tutto ne beneficia e lo spettro allarga il suo macabro sorriso all’interno di un meccanismo perfettamente oliato con erbe magiche che si rivolgono agli spiriti del ventre terrestre.

La vita diventa un pretesto per oscenità da nascondere con la pia illusione che la musica sia un messia, un viandante che insegna la forza del sole.

Si percepisce invece il contrario: le divagazioni e le dilatazioni degli anni 60 qui sono un piccolo riflesso che viene tramortito per essere schiacciato da una veemenza espressiva che tende a fagocitare l’inesplorato. 

Prendi i Doors, gli Stones più sfrenati e ti sembreranno poppanti al confronto: l’età adulta incomincia con il constatare che non si può scegliere ma inondare ogni particella frustandola, facendola sanguinare per finire con il regalarla.

Strafottenza ma anche gusto artistico convivono, perché la polvere che esce dagli amplificatori va dritta nelle narici della mente, come un complotto ordito da chi non si può discutere, per renderci passionali a nostra volta, ebbri di sregolatezza ed euforia.

Un album che anticipa generi musicali, fotte il passato mostrandosi superiore e un nuovo modus operandi viene conosciuto ed esplorato per contaminare luoghi comuni e ascolti ormai a rischio di essere démodé.

Si entra come serpenti assatanati nel fiume delle droghe, deglutendo liquidi fangosi, quintali di sesso scrutandone le devianze, e altri argomenti che giocano contro la mentalità benpensante che li definisce tabù.

I quali, invece, per Vincent sono pane quotidiano, un alimento che fagocita e di cui, siamo certi, nell’album trovano posto solo le briciole, in quanto sarà nella dimensione Live che tutto troverà l’ampiezza, rivelando in toto dimensioni enormi.

Non più patologia ma uno stato d’essere, legittimato da una volontà forte come un credo biblico.

C’era da sostituire il power flower, non più credibile, sostenibile, incapace di determinare comunione e pacificazione. Lo scenario era cambiato e Vincent lo sapeva bene, perché crea uno spirito umoristico notevole e si addentra con intelligenza, in lirismi oscuri e nella volontà di non essere asservito all’establishment che invece formava soldatini ubbidienti, con escamotage che parevano dare libertà.

Quella che invece gli Alice Cooper realizzarono con sapienza, dinamicità e spruzzi di cattiveria che approdavano alla derisione di alcune forme di potere. Bisognava parlare alla giovane generazione con inni rock, con immediatezza e senza rimbambire i cervelli di sostanze dal potere anestetizzante. La musica come trampolino di lancio di nuove psicosi, chiaramente liberate da ogni pastoia mentale. Tutto questo vive nei solchi di un album che a 51 anni mostra ciò che ha generato con grande orgoglio.

La sfacciataggine dei riff è eloquente, programmata, finendo per inoltrarsi nei bisogni di semplicità che il rock stava perdendo. Il combo ritmico, asfissiante e poderoso, conferma l’intenzione che la musica, affinché possiamo subirne il fascino e diventarne dipendenti, debba partire dai brividi, dall’immediatezza che fa scattare i corpi in piedi e correre e danzare come cavallette senza ordini precisi di lavoro. La musica contenuta in queste nove tracce sarà educativa malgrado ossessioni e maleducazioni evidenti, perché un nuovo linguaggio doveva produrre l’omicidio del già noto. Nessuno inventa nulla, nella totalità del termine, ma sicuramente qui si trovano miniere evidenti di nuovi metalli, diamanti e oro da estrarre e da mostrare per creare un nuovo principio di appartenenza. Il futuro, grazie a questo album, diventa l’improvviso parto che genera una creatura che trucca il senso della vita, sconquassa, illumina e sin da subito schernisce la realtà con stilettate seminascoste. Non più canzoni di protesta, di rifugio psichico, di benessere perché assenti da ciò che crea disagi, bensì l’universo dell’incerto che ha nuovi nomi e cognomi da studiare, da capire, nuove eccentricità da far spostare, nuovi sensi da scoprire.

Musica come omicidio del conformismo, elemento patogeno da indossare con fierezza per sconfiggere il senso di salute che, attraverso il capitalismo, aveva affossato anche i musicisti, sicuramente vittime dell’industria musicale così devota alla forme di controllo. 

Troviamo quindi una galoppata di cliché usati per essere derisi, ammirati, lasciati in un angolo, adorati e odorati, in una giostra contraddittoria che affascina e porta allo stordimento, facendo in modo che alla fine dell’ascolto ciò che avrà generato sarà stupefacente e nutriente. Si sentiranno riferimenti parziali, diretti (David Bowie su tutti, in un paio di episodi), Jimi Hendrix, la psichedelia inglese delle vie eleganti dei quartieri chic di Londra e tutto il caos statunitense che, mettendosi un mantello e appesantendo un pò il corpo di ferraglia, si trascina con leggiadria fra ritmi sostenuti, ballads ipnotiche e divagazioni che risultano in questo trambusto sonoro perfettamente sensati.

Geniale nella sua esagerata energia, nei suoi fiumi fumosi degli anni 30 a cui sono stati tolti polvere e grasso, ecco che Love It to Death è un capolavoro ineccepibile di cui oggi pare difficile capire il senso. Ma molto proviene proprio da queste canzoni, dai suoi autori, da quel produttore e dal fato musicale che concede sempre spazio alla ricchezza, sotto forma di una genialità senza tempo…


Song by Song


1 Caught in a Dream


È un Glam che sembra essere pulito, ma che contiene croste maligne al suo interno, mentre viaggia spedito nei suoi riff brevi e precisi. La forma Rock nella sua veste più semplice, apparentemente, ma preparatoria per il suo proseguo. Trova motivo della sua presenza un solo di chitarra che regala adrenalina e melodia per un brano che diverte e fa riflettere.


2 I’m Eighteen


La traccia che spalanca il successo è costruita su un arpeggio accattivante, una chitarra solista bella in modo osceno e il cantato di Vincent che farà nascere imitazioni a non finire. Accordi Power sul ritornello creano la semplice unione tra esaltazione e liriche critiche di un mondo adulto che genera sconquassi. Una rullata di batteria sul finale e la tastiera di Michael Bruce concludono un vero e proprio inno ipnotico, ma con le stigmate di un brano vivace.


3 Long Way to Go


Se rallenti Ziggy Stardust di David Bowie nei primi secondi, ti pare di immaginare il Duca Bianco vestito di nero. Ma quella canzone nacque dopo questa. Andiamo avanti e vediamo i prodromi di un futuro che sta nascendo dentro queste note, tra il rock ’n roll incatramato e i trucchi ritmici del Glam, che sanno utilizzare un piano ritmico su chitarre piene di pioggia pesante.


4 Black Juju


Si entra in una processione con i sensi pitturati di catastrofe, tra psichedelica propensione a seguire i Black sabbath dell’album di esordio e il teatro che scompone il tutto per generare una piacevole confusione. Poi i Doors fanno capolino, ma il cantato qui è lontano da quello di Jim Morrison. Piuttosto: tutto pare intenzionato a generare timori, paure, in un viaggio lavico dove il basso scivola con agilità sul manico mentre il drum continua il suo lavoro tribale. La chitarra pizzica le corde come in un viaggio nella parte nord-orientale dell’Africa. Poi Vincent prende la modalità vocale di Jim e battezza un crooning nero e perfetto.


5 Is It My Body


La dolcezza vive nella modalità del canto iniziale (pur sempre insanguinato), per poi trovare prototipi hard Rock che prendono ritmo e robustezza per scivolate sonore dove tutto è perfettamente connesso grazie al lavoro di Bob Ezrin, nel raggiungimento evidente di un piano conoscitivo che esalta e comprime, attraverso la perfetta sincronia tra chitarra e basso, che permettono ascesa e discese, mantenendo elevato il senso di seduzione.


6 Hallowed Be My Name


Ennesimo capolavoro di sintesi dalla propensione futura: fraseggi Hard-Rock lasciano spazio a dettami psichedelici chirurgici, per una composizione che pare seguire i fumi dei Deep Purple e dove il contagio dei generi può favorire un divertissement inaspettato ma geniale. Per brevi secondi (dal quarantesimo al quarantacinquesimo) sentiremo in anticipo una chitarra amata poi molto dai Sex Pistols e da molte punk band. Ma sono i 60’s i genitori della strofa, mentre il bridge è pura follia del gruppo che registrò l’album a Chicago. Brano essenziale per capire la drammaturgia e il filone di questi cinque cavalieri del gioco d’azzardo


7 Second Coming


È il cabaret che apre lo scenario del pezzo per poi proseguire su chitarre graffianti e stacchi continui di batteria, come un veleno che segue ordini di uccisione, cercando e trovando uno stile che si rivela essere piacevole almeno alla vista… Palestra per il futuro da solista di Vincent, la canzone conosce attimi di approcci alla musica classica (sempre Bob…), per fare di questo brano un capolavoro assoluto, spesso incompreso. E il colpo di teatro finale della voce del bambino alla ricerca del padre è davvero esaustivo per definire la fiumana inventiva.


8 Ballad of Dwight Fry


Bela Lugosi (dal film Dracula del 1931), attraverso il suo schiavo Dwight Frye, entra nell’album e non poteva mancare per il brano più suggestivo. Una lacrima che si schianta in un dialogo, dove frustrazione, rabbia e tristezza consentono a Vincent una interpretazione strabiliante, tra chitarre e la trovata di una tastiera che paralizza, come se fosse giunta improvvisamente, per far detonare completamente il brano. La voce, beffarda, secca, graffiante (caro Stiv Bators so quanto hai amato l’artista di Detroit), nuota nei circuiti chitarristici per poter volare rancida e scostumata.

L’indefinito viaggia nel mistero e qui ne troviamo il perfetto esempio.


9 Sun Arise


Bisognava trovare un contrasto per l’atmosfera di questo album e la canzone giusta non era annoverata tra le proprie della band. Ecco in aiuto quella splendida di Rolf Harris, per l’ennesimo colpo di teatro. Realizzata dieci anni prima dall’autore Australiano, i cinque trovano una forma ludica efficace e fenomenale, per scintillii nevrotici di chitarre su un gran lavoro ritmico del duo basso-batteria e la voce di Vincent che si alleggerisce e mostra ottime capacità nel volare su una melodia allegra e scanzonata.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/6p7jHbG5Bd6z2JgfKx0um7?si=C-HPda24SwmKZUFoElMTig






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