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domenica 24 aprile 2022

La mia Recensione: CSI - La terra, la guerra, una questione privata

 

La mia Recensione 


C.S.I. - La Terra, La Guerra, Una Questione Privata


Si vive sulla Terra, mentre si fa la Guerra, e la vita diventa una questione privata, fatta di ricordi, di testimonianze, mentre il tempo accarezza le ferite, le guarda in faccia e poi, dopo singhiozzi, riflessioni e scatti d’ira, dice a se stesso “Esco”…

Un album capace di essere l’orgoglio di persone che ascoltano movimenti di coscienza da tenere accesa, da mostrare con fierezza mentre le rimembranze di lotte fratricide divengono anche il Presente che acclama il diritto di valori che devono imporsi.

Una chiesa, un paese fondamentale nella lotta al fascismo, un uomo che ha scritto come nessuno mai e che per una sera ha ricevuto lo sguardo di anime attente.

Tutti presenti, lucidi, con la capacità di generare insieme quel fragore che da avvenimento è stato capace di trasformarsi in prezioso accadimento.

Lamento sonoro, anche sonico, con parole scortecciate, hanno gonfiato il ventre di quell’edificio in una preghiera soprattutto laica, in una pentola di emozioni che hanno conosciuto anche la devastazione interiore, per bollire nelle vie sanguigne quasi terremotate e increduli: i C.S.I. hanno stretto i pugni, preso fiato da polmoni urlanti e hanno depositato, attraverso cavi, microfoni, amplificatori, tutta la loro necessità di prendere il loro ultimo album Linea Gotica e di integrarlo con la vita dell’uomo nato ad Alba. Una processione di intenti, di valori, necessità che in abbondanza hanno colorato il cielo interno di quella chiesa e dei presenti per sussurrare alle cupe vampe di far posto ad un arcobaleno sempre più desiderato. 

Le cose che dovevano andare sono andate per la loro strada: sono finite dentro menti che si spera le abbiano tenute in sé, che ne abbiano conservato preziosa memoria.

Notte di esplosioni, di canzoni dalla gola profonda, la devastante capacità di uomini e musicisti uniti nel deflagrare, nel seminare, nel vivere il dolore che ha consumato, torturato, ucciso innocenti.

Introduzioni lente, minimaliste, piene di odori, per poi detonare il tutto facendo sentire il puzzo di una vita assurda, un macello aperto ventiquattro ore al giorno.

Canzoni come morsa, c’era da stringere forte il Nero, l’esigenza di mostrare che il sangue è Rosso e che il nero significa putrefazione, malattia, follia, prevaricazione, morte.

Quella sera la musica dirompente della band tosco-emiliana si è coniugata con una modalità che ha piegato il fare favorevole ai dilettanti per mostrare la professionalità e distruggere l’approssimazione. Vi era una Patria scomoda da definire, da invogliare, a cui dover dare una sterzata e l’energia profusa è divenuta letale: il torpore è stato annientato, capace di essere un moto acceso, fresco, vivace, essenziale. Ciò che era crudo e freddo è stato riconosciuto e portato a essere un falò: bisognava accendere la necessità di non consegnarsi al silenzio di anime intorpidite e abituate alla rassegnazione. 

Molte delle canzoni originali sono state rese più lente, bisognava rimarcare la loro potenza e la lentezza può fare questo. Pallottole di vita, caricate per essere salvifiche e generare il doveroso beneficio, sono state sparate da un palco rovente, terribile, inarrestabile per forza e precisione. Quegli uomini hanno ucciso le storture, ci hanno fottuto per salvarci, una cascata di fuoco ha bruciato l’inutile e ci siamo ritrovati in una catarsi di cui non saremo mai grati abbastanza.

La nostra testa quella sera ha conosciuto un taglio, il limite è stato preso, scosso, portato alla luce grazie alla Grazia che abbiamo ricevuto come prezioso dono necessario, scuotendo l’inverno dei nostri bui comportamenti. Un album coraggioso, la processione di note musicali e parole che sono salite al cielo, lentamente, desiderose di leggerezza che è penetrata nei pensieri come vitamina, come proteina, aprendo la volta celeste verso un miglioramento teso e verticale. La lotta partigiana ha conosciuto la considerazione che meritava con un impegno che ha soffiato via per qualche momento la disperazione, la fatica nell’accettare quel male che, dopo aver ammazzato pubblicamente migliaia di persone, ha deciso di uccidere la libertà, privatamente, di nascosto, con il suo ripudiante sguardo fisso. I C.S.I. ci hanno reso piccoli, immobili, ci siamo sentiti arresi da una parte dalla loro bellezza, dall’altra davanti ad una realtà che l’approssimazione avalla contribuendo alla assoluta libertà di quel fascio nero indigesto di continuare ad essere devastazione insopportabile. Ci hanno fatto viaggiare dentro la Storia che ha scritto pagine terribili, drammatiche, uno sconquasso che si muove come la polvere con il vento che, infaticabile, non si arresta. Sono stati una vertigine voluta, desiderata, tesa ad abbattere il mondo e liberarlo. Canzoni come pance, menti vergini da proteggere e conservare per non conoscere la distruzione.

Ci hanno guardato negli occhi per illuminare la nostra piccolezza, riempiendo le vene di una potenza più che mai necessaria con brani colmi di cartavetro: c’era da raschiare e l’hanno fatto perfettamente. Tutto è stato pregno di Letteratura, di Storia, di Poesia, hanno attraversato i visi, i loro drammi, la volontà di farci sapere che si è liberi dando la vita, non accettandone i soprusi. Sentire i tuoni dentro una chiesa è stato pazzesco: nessun Dio poteva fermare la band perché c’era un compito in classe da svolgere, un percorso umano da definire, specificare, rendere eterno in quanto questo sa fare la Musica che conosce l’impegno concreto. Non bisognava ascoltare ma fare inginocchiare l’ignoranza, l’attitudine al menefreghismo più violento e inutile. 

“Materiale Resistente”, “Linea Gotica” e infine “La Terra, La Guerra, Una Questione Privata”: tre movimenti del pensiero profondo si sono uniti per celebrare l’umana messa del risorgimento, del risveglio, di una guerra mentale capace di non fare vittime ma di generare una nuota vita, pulsante e consapevole. La tensione e il caos hanno regnato, fortunatamente senza essere interrotti, gettando sui ciottoli della chiesa la convinzione che il movimento culturale avesse trovato nella band dei profeti, dei guerrieri pacifici, dove l’elmetto è stato tolto: non c’era nulla di cui aver paura, nulla da cui ci si doveva difendere e ci siamo ritrovati a intonare la poesia della vita con tutta la sua importanza. Ogni irripetibile chance è stata praticata, Annarella ha avvolto l’impegno e la saggezza, mentre la figlia di Fenoglio versava lacrime umane tiepide, dolcissime, tenere, ed un suo amico col foulard sorrideva e rendeva il ricordo di Beppe una cavalcata nelle colline di Alba: un piacere assoluto a dimostrare che ciò che rimane può seminare bellezza e l’inclinazione a voler ancora progettare un mondo migliore. L’ascolto di una registrazione di questo evento non potrà mai far scaturire lo stesso effetto che ha sortito su di noi che eravamo presenti, ma sarà capace comunque di scuotere, di arrossare il cielo interiore, dove nessuna quiete ha trovato posto: era necessario mettere della legna calda, bruciante, rincuorando e sostenendo la volontà di riappacificare il cuore. La terra è stata scaldata, la guerra è stata punita e la questione privata ha avuto il conforto di essere abbracciata, perché in questo album la vita ha danzato tra le stelle insieme al partigiano Johnny facendo capire che il passato ritorna con il senso della consapevolezza e dell’efficacia, di un utilizzo che genera miglioramento.

Probabilmente quella serata e questo disco testimoniano una dirompente unicità, come anche l’affermazione che la veemenza, il bisogno di vivere una Storia sempre uguale e sempre diversa, per non essere più “semplici” canzoni ma inchiostro vivo, energico, necessario per scrivere una nuova identità e far scendere il sogno dal suo piedistallo e renderlo concretamente una realtà efficace, possa trovare il suo senso.

È tempo di bruciarci la pelle e di entrare nel fuoco di questi solchi per dare alla memoria la luce e la consapevolezza di una serata talmente intensa che ancora oggi il fiato si trattiene: per rispetto, per il bisogno di non disperdere nulla…


Canzone per Canzone


Campestre


Tutto dilatato, glorificato dalla seta soffice della voce di Ginevra Di Marco, che impone la sua classe alla poesia delle chitarre danzanti di Massimo Zamboni e Giorgio Canali su un arpeggio cupo, una dissonanza perfetta e il basso sornione di Gianni Maroccolo. 


Esco 


Fuoco alle polveri: le chitarre ed il pianoforte tetro di Francesco Magnelli sono l’apripista di una canzone ancora più sferzante dal vivo e Giolindo Ferretti fa vibrare l’inferno e il tempo. Donna Ginevra è un sibilo come la chitarra di Giorgino, mentre Massimo spella la pelle e tratteggia il pianto nascente.


Fuochi nella notte di San Giovanni 


Le percussioni di Gigi Cavalli Cocchi ammaliano, mentre la voce di Giovanni splende come non mai per una canzone che vive di una coralità unica, vistosa e imponente, con quel fare pop che viene concesso per bellezza e valore. Senza dimenticare quella chitarra elettrica che sul coro graffia e seduce. 


Guardali negli occhi


Il dono del cielo si chiama Gianni Maroccolo, il suo basso scompiglia le vene, e Massimo e Giorgino gli danno una mano per rendere questa canzone la regina dell’emozione. Ferretti affonda la sua voce nel nostro ventre, mentre la penna del partigiano vola libera. 

Una semi danza che circonda le nostre gambe e poi Ginevra che sale a baciare le piume delle stelle.


Linea gotica


Maestosa, rovente, cilindrica, grassa e crassa, la canzone che dà il titolo all’album che ha preceduto il concerto diventa acqua bollente: scende dalle colline attorno ad Alba per riscaldarla dalle ferite della guerra. Una parata di classe geniale che, una volta che ha lubrificato il suo motore, diviene un boato lento. Francesco ci fa rabbrividire con la sua tastiera, mentre le note si abbassano per poi salire in alto come allucinazione necessaria.


Cupe vampe


Commovente, straziante, pericolosa, agile, precisa nel fare della chiesa un luogo pieno di sangue raffermo e di un dolore che continua a bruciare la carne e la mente.

L’apoteosi che sovrasta e che induce alla disperazione. Potente come non mai, qui tutti mostrano la perfezione e la ferita si allarga. Giovanni e Ginevra sono gli Dei che ci fanno tremare e poi la chitarra che parte al minuto tre e cinquanta ci spazza via tutti: non rimane che la fede davanti non alla versione migliore, ma all’essenza di questo brano che qui trova il luogo ed il momento per divenire la perfezione assoluta.


Memorie di una testa tagliata


Il maestro Francesco sale in cattedra: dipinge le mura della chiesa con tocchi perfetti come la volta celeste e Giovanni veste la sua voce di terremoti dolcissimi ed esplosivi, come se potesse coniugare a tutto questo l’eruzione di vulcani scalpitanti. La chitarra acustica di Maroccolo è poesia ritmica che ben si abbina al contraltare di chitarre nevrotiche. Con un finale apocalittico e snervante che ci sbottona la pelle.


In viaggio


Marito e moglie (Francesco e Ginevra) aprono i cuori con la loro sottile poesia e poi Giolindo abbassa il tono della sua voce verso il centro della terra. Quando il punk invece di urlare strappa le vene con il suo ritmo lento ma dalle fondamenta solide, logorando il tempo che vorrebbe farlo cedere: non ci riuscirà. Un’altra perfezione che si mostra facendoci cadere nella vertigine della bellezza.


Del mondo


Una nenia logorante ci fa puzzare il sangue: Francesco pigia con veemenza sui tasti, mentre Giolindo diventa un muezzin che con la sua preghiera pagana infetta le nostre palpebre.

Il pianeta terra cambia la sua traiettoria scendendo ai piedi dell’universo.


Annarella


Bella come non mai, Annarella indossa il suo abito rosso d’amore per spogliarlo dentro le voci di Giovanni e Ginevra e divenire la ninnananna  che invece di far addormentare sveglia il bisogno di legarsi a qualcuno. Il pianoforte di Magnelli diventa il testimone di una poesia senza fine.


Irata


Le lacrime entrano nel coro sovrano di questa processione divina, con l’organo di Francesco a portarci atomi degli anni 70 ed un prog infettato da chitarre ubriache e storte. Giolindo soffia fulmini nel microfono con malinconia ed il fiato pesante per esaltare un testo poderoso. Gianni diventa la voce dal tocco possente, Gigi appoggia le dita donando al tempo calore.

Mentre si muore si ascolta la canzone della fragilità che col suo finale vibrante porta Ginevra ad essere la fata dalla vocale che uccide.


Guardali negli occhi - ripresa


Le gocce del viso vivono nell’ascolto di questa canzone che ritorna mentre la morte si trasferisce sui monti per rimanere intatta contro l’infinito. Giolindo spezza il fiato con la sua fiamma ossidrica capace di scaldare l’ignoranza e di sconfiggerla, circondato dagli altri membri della band accordati in una intensità che rende la musica un palco di spine che usando la melodia fanno la guerra. 

È un combat folk che può solo ripetere la storia della nostra vita, tra le note sottili di Francesco che spingono le chitarre malate di un dolore che vive obbligatoriamente il suo destino irrimediabilmente segnato.

Massimo e Giorgino spargono schegge di follia insieme a Gianni che distrugge il cielo.

Uno strazio sentirla, una gioia cantarla, i brividi che illuminano il futuro dentro la consapevolezza che il destino umano è quello di vedere le penne cadere, ma con i sorrisi appiccicati sui denti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Aprile 2022


https://open.spotify.com/album/6742TYQHe1Rru8NwLwc5kJ?si=f9Sb_3TdTtu51GlM7D7mFQ







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