Cult Strange - Conjuring Feral Angels
Le lame più taglienti dell’anima sono tornate per infettare, stordire, condannare, separare, infliggere punizioni, con il loro suono che è il castigo degli Dèi del male che si sono stancati di tutta questa ipocrisia.
I Cult Strange esordirono nel 2020 con un EP di quattro lucide rappresaglie sonore che si intitolava Rites of Passage, una discarica tiepida i cui vapori ancora oggi fuoriescono dalle cantine delle nostre paure.
Il quartetto capitanato da Aleph Omega compie un percorso bellico, tra la pelle conosciuta del Deathrock, massima espressione di contatto con le cellule morte dei nostri capricci vitali, e le scintille del Gothic Rock sapientemente tenute sotto controllo, per non interferire con i messaggi, perché ad ogni genere musicale tocca un lavoro e un rispetto delle regole. L’album è aggressivo, corale, una massa di acciaio che ci butta nella dancefloor umida, grondante di sale e peccati. Le chitarre sono le schiave del dolore, portatrici malefiche del dubbio che muore in fretta, che non cerca ascolto ma ottiene riverenza e lo fa giocoforza, visto che la penna di Aleph è giustamente votata a portare le volgarità e le ingiustizie dentro le nostre vene.
Non sono però solo legate all’impianto del Deathrock: sono chitarre che, malgrado le tonnellate di liquidi languidi, si muovono con destrezza, tra effetti e modalità che spaziano e che hanno la peculiarità di generare una attitudine totalmente americana all’interno del polmone del mondo. Le ritmiche sono pesanti, boomerang di veleno che fendono l’aria per colpirci, tramortirci, finirci.
Il basso è il Re dell’amianto, uscito da Oakland, per andare a urtare duramente le anime così troppo legate agli anni ’80: qui nulla è banale e quelle dita sanno essere diamanti sanguigni che sporcano non solo il manico dello strumento ma soprattutto i nostri ascolti. Come rabdomante, trova la poesia cattiva, da educare al peggioramento, come vendetta, come soddisfazione pulsante senza intenzione di fermarsi.
Con il miglior batterista a disposizione di cosa volete parli il vecchio scriba? Il gioco, il connubio dei quattro musicisti tende a fare del ritmo la sorella gemella di melodie strazianti e il drumming è ciò che risalta di più perché è proprio la complessità della modalità con cui si esprime che fa emergere, oltre a doti tecniche ineccepibili, un mare nero inquinante, avendo il movimento di quelle onde cupe, piene di grazia maligna. A volte entra nell’Hardcore, nel Metal, in un crossover continuo che ammalia, spiazza, incuriosisce, di certo stordisce. Come se una pulsione interiore si impadronisse di quelle braccia e di quei piedi per creare una tribalità a cui non ci si può opporre.
Le illusioni, le velleità e i capricci vengono elencati per essere congedati con veemenza, e i desideri sono messi sotto la lente di ingrandimento per poter essere derisi e uccisi, amen.
La produzione è in grado di sintetizzare la passione, lo studio di brani complessi ma dalla abilità anche di generare una spavalda immediatezza, corrosiva e spesso disarmante, finendo per produrre incanto e timore, in un range stilistico in cui il suono è il governatore dello spazio e le parole fedeli sudditi capaci di materializzare concetti e propensioni con la bava alla bocca.
C’è una intenzione evidente di disintegrare, di colpire il vuoto culturale, di essere semi radioattivi in opposizione, di dare sprangate alla terra per eliminare l’equilibrio del nostro sterile cammino, di raccontare sì delle storie, ma all’interno di precise elucubrazioni che vogliono asserire, dividere, espletare il percorso della individuazione di una realtà incapace e votata alla più becera decadenza.
Un album che non rappresenta una città, un genere musicale, ma la meticolosa intenzione di prendere delle posizioni, di creare decisioni comportamentali, dove il buio della notte è quello di un mondo che ha perso la bussola, l’identità e la predisposizione a essere gioia. Ma, vi sembrerà strano in questo contesto, questo lavoro ne produce in quanto esistono piani di consapevolezza, ci sono distacchi che sono stati decisi e il vero benessere che comporta è quello di indossare l’intelligenza e di essere anime che escono dalla cripta del vizio per dare un senso più maturo all’esistenza.
Canzoni come un crepitio ineludibile, l’appuntamento con l’impianto magmatico di un processo che non concede favoritismi, ma alza l’indice per sparare giudizi precisi, tra le ombre dei vapori di musiche collegate direttamente al fallimento umano.
Ci ritroviamo così, inevitabilmente, con un rosario, una testimonianza dello sfacelo che i Cult Strange rappresentano come figli designati di Sua Maestà Rozz Williams. Con lui esistono sicuramente delle differenze, ma in comune hanno il potere di regalare smarrimento e una ragionevole preoccupazione per la nostra esistenza.
Sul piano della scrittura, l’analisi dei testi induce a credere che ogni fascinazione nei confronti della paura e dei desideri abbia trovato il perfetto luogo di appartenenza, regalando agilità e convinzione, per un risultato che è all’interno del nostro ascolto: parole come lapidi, lapidi come parole mute.
Alla fine siamo anime piene di terra, sfocate, come la splendida copertina, che descrive perfettamente come le nostre identità siano appannate, sfumate, dai contorni incerti, con il corpo infangato e destinato all'essiccamento, come l’appuntamento con la perdita di ogni ragione. Non rimane davvero che invocare, senza tentennamenti, gli angeli feroci perché loro per primi non sono riusciti a sfuggire al destino, il figlio maledetto dal ghigno diabolico…
La band ha compiuto un notevole lavoro di amalgama e di continuità per stabilire e determinare una posizione di forza, magicamente intrisa di esplosioni sonore, drammi quotidiani musicati, visioni che contorcono le budella e rendono il cervello un groviglio graffiante di pensieri. Concludendo: se niente è indispensabile è bene saperlo, conoscerlo, e questo disco aiuta a visualizzare le discariche mentali che conserviamo inconsapevolmente, perché schiavi del vizio e del mercato, di attitudini che i Cult Strange ci sputano saggiamente sul volto. Non vi resta che strozzare la stupidità con Conjuring Feral Angels: sarete ripuliti, disinfettati e leggeri, con le piume di petrolio libere di alzarsi in volo.
Deathrock album del 2023 per il vecchio scriba: penso possa bastarvi…
Song by Song
1 Prologue
Spetta a una donna dal crooning diabolico dare il benvenuto e avvisarci che stiamo per incontrare degli angeli feroci, con echi e riverberi e uno scenario che evoca spiriti in combutta.
2 Slave To The Algorithm
L’inizio del brano è micidiale: chitarra tesa a cacciare le ombre in un brutto guaio perché lei non ha paura di sicuro.
Esiste una quota di malvagità che sconvolge, con il cantato che è una processione, supportata dagli altri tre musicisti: prendi i New York Dolls dal lato senza sole e gettali nel basso rotolante e nelle chitarre sontuose e perverse e tutto sarà chiaro.
Alla batteria resta solo il compito di frustare quelle povere ombre che muoiono senza aver creduto possibile tutto questo. Come opener track è perfetta: se l’inizio può essere di derivazione glam rock, ti rendi presto conto che tutto dilaga in splendide divagazioni dissonanti.
3 A rose Of Chaos
Un drumming spavaldo, uscito da una cantina piena di polvere degli anni 70, apre la danza sbilenca e accattivante.
Poi la voce e la chitarra sposano un’idea di rito grondante Deathrock di purissima classe.
Puoi udire echi di Germs e Consumers a dare ispirazione involontaria a questa corsa a pestare le rose nel chaos: aleggia continuamente l’idea che anche i Virgin Prunes soffino qui tutta la loro follia, specialmente nella modalità del cantato. E che un fare macabro - esoterico sia il sovrano di questa chicca assoluta.
4 De Auro Rubeo
Uno schiaffo Gothic Rock iniziale, quindi si entra nella zona Deathrock con un ritornello dalla voce baritonale/sepolcrale di grande suggestione, con la sensuale accelerazione del ritmo. Poi è nebbia, lenta, e il recitativo di Aleph, la chitarra maligna di Rodney Horihata, il basso atomico di Buz Deadwax e il drumming sanguigno di Andrej Pavarotten stravolgono l’atmosfera per rendere gelida la città degli angeli. Il ritmo ritorna ad accelerare e il delirio è completo.
5 Hungry Skin
Lo sciamano sobilla i coraggiosi nei primi secondi del brano, il basso e la chitarra guardano ai maligni semi dei Black Sabbath e tutto si fa concentrico, una melodia tenebrosa si affaccia nel ritornello tra fiammate siderurgiche delle chitarre, che con note tremanti soffocano l’ascolto. Che la sensualità abbia il vestito della Dea Eris e punisca le violazioni di domicilio dei pensieri più puri. Il cantato verso il finale, ripetuto, dona piacevolezza ai nervi vibranti.
6 New World Ordeal
Buz si allea agli angeli feroci con un basso micidiale ad aprire il brano, una cavalcata gotica che annette il drumming tribale di Andrej. Le chitarre vibrano dentro cerimoniali Deathrock e sono sciabolate metalliche nel tempio della dispersione, il mondo svela il suo calvario e si torna, felicemente, nella Los Angeles degli anni ’80 con l'eyeliner nei pensieri. Il chaos si mette il vestito più bello, correndo dentro questi minuti di tenaglie arrugginite.
7 Blood Seed Sister
La chitarra sparge veleno, contorce l’aria e lascia al cantato il modus operandi che è un recitativo che concede spazio alla musica, tra altalene di registri vocali che arrivano al gutturale. Come per tutto l’album, anche qui assistiamo a cambiamenti ritmici, di scenari, a ferite continue. I desideri diventano reclami, invocazioni, riti da completare.
8 Restraints
Il ritmo torna veloce, ma una insospettabile linea melodica morbida ospita il torbido del testo che viene cantato come una cometa in cerca di una carezza. Il basso e la chitarra danzano però con ferocia, mentre le chitarre si incrociano come serpenti dalla testa doppia. Tra Gothic e Darkwave che fanno capolino, la canzone mostra un lato nuovo ed interessante dei Cult Strange.
9 Sages Of Djiin
Abbiamo nel nono brano l’impressione che il basso e la chitarra siano i semi lanciati in aria dai Red Lorry Yellow Lorry, elaborati e sacrificati ma comunque presenti.
Ma è solo una piccola frazione: esistono quote di purezza e unicità nel fare di questa canzone un manifesto di un genere musicale in evoluzione. È un feticcio di estremo valore che è a disposizione di chi non trema innanzi alle idee di dissotterrare spoglie mortali.
10 Torn Desire
Il tempo del delirio totale è giunto, il momento del desiderio più grottesco che spinge le menti verso le porte dell’inferno è qui, in queste voluminose varianti, dove tutto è ossigeno che brucia nel basso che ricorda i Virgin Prunes.
Le rullate della batteria devono tanto al Post-Punk, e poi c’è lei, la maligna forma Deathrock a rendere epocale il brano.
11 Hex/Pox/Vex
Un basso melodico più che mai è pronto ad ingannarci: tutto diventa stridore, lame a scendere nei polmoni, le voci raddoppiate e i Sex Gang Children a benedire il tutto.
E Aleph a rendere Peter Murphy un sacerdote malvagio.
Lo shock è dato da un brutale atteggiamento nel creare una cavalcata spavalda e menefreghista per uccidere ogni bagliore di luce.
Maestosa, offre elementi di eleganza nella sua attitudine a divenire l’apoteosi che esalta i residenti delle tenebre.
12 Epilogue
Questa volta tocca a voci maschili a concludere l’album, tra liquami elettronici e voci imbalsamate e spettrali. Sono vapori di addio, il saluto senza replica che chiude un disco di esordio semplicemente perfetto.
13 New World Ordeal (Smoke And Mirror Remix)
Questa versione offre ai Cult Strange la possibilità di tornare alle dinamiche dei Remix degli anni ’80, per giocare con l'alternanza degli strumenti, per rendere il brano una piacevole lunga agonia.
14 Sages Of Djinn (War Engine Remix)
Il remix di Sages Of Djinn è un sudario, un calvario, un gioco mefistofelico di voci piene di echi, il drumming e il basso che lavorano duro e le chitarre che quando arrivano danno un senso diverso rispetto all’originale. I Killing Joke possono essere felici: dall'altra parte dell’oceano c’è chi, come loro, sa tagliare in due il cielo.