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giovedì 20 giugno 2024

La mia Recensione: The Dharma Chain -Nowhere


 

The Dharma Chain -Nowhere


La musica continua a volare, a spostarsi, a infischiarsene dei confini, dei trattati, e corre, passeggia e assaggia brividi di connessione ininterrotti.

È il caso di questa band Australiana che dal paese natio è emigrata a Berlino e che presenta l’album di debutto. Esattamente come la vita reale, anche quella artistica dimostra la volontà e l’abilità di spostarsi in zone diverse, di addentrarsi con intelligenza e muscoli perfettamente oliati nella psichedelia più acerba, con le vampate poderose del garage rock e una lieve predisposizione ad affacciarsi allo shoegaze, il tutto con eleganza e sensualità.

Ma si assiste anche un impeto vigoroso, quasi aggressivo, calmato da una maturità davvero notevole, favorita da una produzione che esalta gli spigoli e li smussa perfettamente. Le composizioni creano un ampio stato emotivo, visivo, suggellando l’amalgama tra la danza e l'introspezione, con momenti di dolcezza come nel caso di Her Head, un vascello mentale che ondeggia tra un arpeggio di chitarra e una poderosa distorsione, sino ad accelerare mantenendo uno status onirico.

Quando giunge Clockwork si prova una strana gioia: sarà data dalla tensione di un feedback quasi allucinante, dal basso torbido e da una chitarra che sembra un sitar in cerca di un abbraccio, oppure dalle due voci che si abbracciano. 

YSHK (You Should Have Known) è un mitra gentile, che conduce alla consapevolezza grazie a inevitabili bordate chitarristiche che potrebbero provenire dalla zona di Bristol dei primi anni Settanta, con il supporto di un synth paradisiaco.

Più visiti queste canzoni e maggiore è il coinvolgimento, l’esperienza che trascina l’ascolto a divenire una identità ben precisa, con in regalo una temperatura corporea in aumento, provocando quasi un piacevole stato febbrile.

Quando la ninna nanna elettrica di Somewhere arriva, tutto diviene poesia con pennellate che rendono le nuvole azzurre, in uno spazio onirico che decisamente mostra la dimensione shoegaze del gruppo, facendoci immergere in bisogni nuovi, emergenti, con il fazzoletto che si gonfia di tenere lacrime.

L’apoteosi giunge con Greenlight, il momento più intenso ed elaborato, una collana di coralli che sequestrano la luce e si regalano la profondità del buio, in uno stato di tensione palpabile e avvolgente. Il caos viene ammaestrato, condotto alla riflessione, prima pulito e poi intossicato da una chitarra lancinante e dal connubio del basso e della batteria che sembrano proteggere le parole, consegnando un gioiello incontestabile.

Un debutto clamoroso, intenso, una notevole propensione a rendere la musica nomade, conflittuale ma anche serena, meravigliando e scuotendo la mente di chi l’ascolta. 

Si viene trasportati nella zona della curiosità, dove tutto si amplia e non ha fretta di definirsi. Un grandissimo abbraccio alla band e un grazie immenso: sono lavori come questo che fanno dell’ascoltatore un privilegiato e un clamoroso beneficiario di splendide “torture accennate”, definendo in modo nuovo la parola delizia…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Giugno 2024


https://anomicrecords.bandcamp.com/album/the-dharma-chain-nowhere


mercoledì 5 giugno 2024

La mia Recensione: The Halo Trees - Where The Deep Ends

 


The Halo Trees - Where The Deep Ends


Esistono luoghi nell’anima che sembrano deserti silenziosi, in attesa di una conversazione che possa veicolare compagnia, scambi, vibrazioni, determinare una possibile ricchezza per annichilire la fiumana di incertezza che quei posti generano. In un contesto del genere The Halo Trees potrebbe essere tutto ciò, un sostegno e una presenza per generare appigli e un senso diverso per la propria esistenza. La band proviene da Berlino e incorpora un ipotetico ponte con l’Inghilterra, l’Australia e gli Stati Uniti, in quanto il loro immaginario visivo e sonoro prevede una valigia costantemente piena di desideri, di curiosità e soprattutto di malinconia, il sentimento che risiede in ogni parte del mondo, e nel caso specifico perché le loro musiche paiono uscire da colonne sonore di film provenienti dai tre paesi citati e rendono il tutto amalgamato e perfetto. 

Il mistero, la penombra, la delicatezza, la potenza accennata e mai devastante, il porre domande facendo della curiosità un punto di partenza, sono elementi che escono come una pioggia autunnale da queste dieci composizioni, che si trasformano in semi nell’atrio del cuore e della testa, per ossigenare con realtà e sapienza le nostre smisurate esagerazioni, visto che la saggezza, l’equilibrio e la poesia sono il marchio di fabbrica del quartetto della capitale tedesca. La duttilità nel visitare diversi generi musicali è sorprendente ma ancora di più lo è il fatto che il loro stile viene confermato, e questa riconoscibilità diventa il loro passaporto, per confermare quella unicità che in questi casi spesso, invece, si perde.

L’incertezza, la confusione, la fatica del vivere, la presenza, la volontà di saper manovrare le parole, l’insicurezza dell’eccessiva informazione che destabilizza, la tridimensionalità delle cose sono alcuni degli argomenti che l’abile Sascha Blach sa affrontare, per un connubio sonoro che ipnotizza per precisione, in una danza mentale più che fisica che conquista definitivamente. Si vivono estasianti paralisi con la voce baritonale, quell’approccio che spesso ci ricorda Stuart A. Staples con i suoi Tindersticks e Liam Mckahey e i Cousteau.

Ma generare un elenco di comparazioni svilisce, non serve: in questo album siamo davanti a una profonda appartenenza alla fierezza volta a presentare unicità e differenze. Si sente spesso il bisogno di abbracciare queste composizioni perché si avverte immediatamente il debito verso la bellezza, la ricchezza e il beneficio che l’ascolto genera, per entrare in favole in cui la fine non giunge per via della loro capacità di permeare il tutto ai piedi del cielo, dove tutto inizia e nulla muore…

Si piange dal momento che in questo cilindro musicale l’atmosfera diventa un rifugio, come anche una deliziosa sporca dolcezza da mantenere segregata nell’intimo delle proprie considerazioni. La produzione riesce a rendere perfetta l’alta cifra stilistica della scrittura, un collante, uno scudo, una protezione nei confronti di queste dieci lacrime col sorriso che fanno di Where The Deep Ends uno schermo per tenere la giusta distanza da ciò che opprime. Brani che liberano l’aria da atomi inquinati e la sospendono, come in una fiaba che passa dallo stile fantasy al noir, per legittimare la loro sete di esposizione. 

Si attraversano i decenni, si bussa alla porta della memoria come a quella di un futuro che loro sanno stuzzicare, per mettere mattoni su mattoni, senza dimenticare l’obiettività dell’inganno del vivere.

La profondità e la saggia decisione di arrangiare le canzoni con una metodologia che richiama la musica classica conferisce al tutto un profumo inebriante. Ogni strumento sembra spalleggiare l’accoglienza di quello che conferisce mistero e una grande espressione evocativa: può essere il violino così come l’utilizzo di synth che stordiscono per qualità e precisione in un notevole gioco di equilibri.

Come suggerito nel testo della canzone finale, siamo ospiti, ma soprattutto testimoni di una qualità fuori dal comune e stupisce il modo in cui il gruppo, con il terzo album, conferisce un senso di continuo bisogno dell’ascolto, di divenire una carta assorbente, per stipulare un contratto con la dipendenza, una droga che non dà assuefazione bensì beneficio.  

Gli ascolti si trasformano in viaggi dove la lentezza genera l’estensione della fantasia, l’interiorizzazione e la proiezione di immagini che escono con eleganza da storie che sono scritte per divenire la nostra occasione di accoppiarci con la magia…

E allora che sia Alt-Pop, Post-Punk, Progressive, Alternative non ci interessa e non è per quello che possiamo amarli: saremo costantemente devoti al loro essere una pellicola cinematografica in bianco e nero, in grado di ridicolizzare i nostri finti colori facendo sì che questo album ci governi e ci disciplini, dando alla loro arte lo scettro del comando…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Giugno 2024


COP International


https://thehalotrees.bandcamp.com/album/where-the-deep-ends-album-2024


giovedì 28 marzo 2024

La mia Recensione: L’appel Du Vide - Metro

 

L’appel Du Vide - Metro


Toh, la Sassonia, uno degli stati federati della Germania, ci presenta quattro suoi emissari di bellezza dalla stupefacente Chemnitz, famosa per la statua ritraente Karl Marx, ma per il Vecchio Scriba soprattutto per le numerose band che l’hanno resa una culla segreta di innumerevoli splendori.

Quattro anni di attività hanno dimostrato che il trattato pelvico e mentale di questo combo è una macchia radioattiva di chirurgica propensione, una scossa epidermica che va oltre i generi musicali proposti, tra un quasi Deathrock, un sicuro Post-Punk e un sublime Noise Rock impastato di candelabri per illuminare il torpore e la sofferenza di quella città che non è mai riuscita a invadere il mondo, ma che il prossimo anno vedrà come capitale europea della cultura.

Questo lavoro è un processo di combustione, cavalli di razza lanciati al galoppo per saltare ostacoli colmi di banalità e volgarità: i tedeschi qui adoperano strategie razionali ed emotive, un grimaldello, una vanga, uno scalpello e un tornio, per rendere l’ascolto trucioli consapevoli di cosa sia essere uno scarto della società.

Un continuo trambusto, nello spartiacque celeste di confusioni rese palpabili, con doverosa precisione, curando il suono, le sue regole oltraggiose e spavalde, per massacrare le coscienze più che i timpani, per un giro del mondo pazzesco, comprendendo gli Stati Uniti (la strabordante Portland su tutte), così come l’Inghilterra della ferrea Manchester, per approdare all’intuizione della qualificazione delle melodie come streghe risorte dopo un lungo letargo, per donare fuochi fatui e manciate di incenso dentro le nostre narici.

Qualcosa di primitivo, frutto di carbonare conquiste pre-medievali agguantano il flusso sanguigno di queste composizioni, per materializzarsi nel proscenio moderno dell'insulto, nella girovaga danza dietro le sue quinte. 

Si rende evidente che la loro ambascia ha la volontà di progredire, di lasciare il proprio nucleo e divenire un affronto, uno scontro, tramite brani che vagano nel cielo come torbide nuvole nel tentativo, riuscito, di far piangere i raggi del sole: quando nel cielo vola il ferro nessun paradiso si sente sicuro.

Agli occhi dei quattro operai metalmeccanici la storia dell’uomo è un cimitero da portare nella fragranza dei loro volti, un puzzle di machiavellico ardire, la tracotanza che impera e conquista, destruttura e amplifica il dolore partendo dal punk per finire appiccicato dentro movenze piene di spasmi e fuochi artificiali, nel marasma di un’adrenalina incontenibile.

Sbava in modalità terrifica, si aggroviglia in uno spasmo che fa male alla testa, con pungiglioni continui, relegando il piacere nel teatro morto dell’illusione. Canzoni come grattugie colme di sangue, microscopici attentati che con il passare dei minuti diventano un boato nucleare nei confronti di una pace che a loro proprio non interessa: ancora una volta il Vecchio Scriba porge la guancia a questo misterioso e ribelle gruppo offrendosi come vittima sacrificale, cosciente e felice.

Il ritmo, spesso assassino nella sua velocità corrosiva, si porta dietro bordate di basso, lame di sconquassanti chitarre, il volgare e straordinario drumming, altare seducente di ogni grimaldello fisico.

Quando il pianoforte e i sintetizzatori osano mostrare i loro respiri, si cede a un infarto imprevisto: come druidi senza rispetto giocano con i  nostri sensi, vomitando portate di bellezze straordinarie e al contempo stranianti, dove la commozione si genuflette.

Suse, Friday, Flatty e Rene: questi i nomi di questi furiosi armellini armati che hanno composto un trattato di follia che la scuola di Francoforte, con i suoi straordinari filosofi, avrebbe premiato con una laurea all’alienazione applicata, con bacio accademico.

Ora basta, è innegabile che si debba fare i conti con le singole crepe e inoltrarci in un getsemani che attende di essere respirato, tra ulivi più che mai piangenti…


Song by Song


1 - Nacht

L’avvio è un infarto, Sheffield pare resuscitata, e poi è un groviglio che parte dai Killing Joke mentre plana a Frisco, e perdere il libero arbitrio per essere la palestra dove tutto deve essere preciso, con monumentali e rapidi cambi di ritmo, e un cantato che è secco, sintomatico e abrasivo.


2 - Verschwiegen

Semi primordiali di vapori pieni di artriti che giungono dai Fields Of The Nephilim si palesano nei primi secondi. Poi è sevizia, barbarico e atomico sventramento, con il supporto di chitarre magmatiche e Rene che ci mostra il respiro di Rozz Williams. 


3 - Offenbarungseid

Il Post-Punk ferito, che segue i Bauhaus mentre si truccano il volto, prende la rincorsa per attaccare i nostri corpi, già chiaramente feriti. Tutto diviene una locomotiva piena di profughi mentali, inferociti, che abbracciano la chitarra che non perdona: strappa, cuce, dipinge vascelli grondanti di sudore e gelatina appiccicosa. Il fiato manca, ma si vive una stratosferica gioia nera…


4 - Woanders

Eccola la Germania aliena, irreprensibile, maestosa, inafferrabile, che ci fa aspettare, con i giochi di chitarre e batteria, per divenire rogo e strazio. Il tempo è oscillante tra il 1977 e il 1980, i luoghi sono le vertebre di Londra e Detroit, in una festa Post-Punk di incredibile effetto placebo…


5 - Verbrennen

I Banshees aprono le danze, poi è il cadavere maestoso della band, la sua unicità, a emergere: un brano che è una processione, un armistizio, una resa che conosce le tenebre quando inizia il cantato e il drumming si fa cupo. Restano solo detriti e ventagli caduti per terra…


6 - Fleisch

La testa si china, gli occhi cercano trattati di medicina antica, le note cadono dal cielo come scheletri lenti e pieni di polvere, in uno spettro industriale lento che si trasforma in un omicidio hard-core di disumana coralità, per giungere, in seguito a un trattato di educazione imposta, a giocare con missili Deathrock per poi, again and again, confluire nell’hard-core. Devastante!


7 - Warteschleife

Nessuna tregua, per carità, non si fa, non si deve, e i quattro picchiano, se ne fregano del buon senso civico, e continuano a seminare proiettili, nel caotico girone Dantesco, piazzando zombie nei suoni e sorrisi maligni nelle trame armoniche…


8 - Ausgeliefert

Berlino chiama, Amburgo piange, Brema oscilla, Francoforte aspetta: una canzone che, come un Bignami, fatica a contenere lo scintillio di questi semi neri come vermi gongolanti. Si brama, si attende, si arricchisce, si scalda la pelle del suono in una danza che rende uno straccio ogni pensiero…


9 - Fragezeichen

Il delirio, con la prima parte del brano che ribadisce una metodica nevrotica e ombrosa, la sorpresa di un finale stratosferico, con quel piano che uccide ogni carezza, fa sì che il congedo sia un nuovo shock epidermico, con la storia del primo e blasfemo Post-Punk che emergeva dalle rive del Mississippi, capace poi di penetrare nel cuore della foresta nera tedesca. Un delirio che riassume tutto ciò che abbiamo udito e che rende questo album uno specchio spettrale di clamorose pulsioni e di bellezze macabre e potenti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Marzo 2024


L'album sarà disponibile dal 29 Marzo


https://sabotagerecords.bandcamp.com/album/lappel-du-vide-metro-lp


martedì 19 marzo 2024

La mia Recensione: Swirlpool - Distant Echoes

 




Swirlpool - Distant Echoes


È giunto il tempo della coniugazione, della memoria che attiva i suoi canali pregni di intelligenza e rispetto per poter sondare il passato e dargli nuove possibilità per un futuro più consapevole. 

Lo si fa attraverso una band tedesca, la sua passione per lo Shoegaze, addentrandosi magicamente nel fiume dei riverberi, dei sentimenti che scuotono l’anima dell’ascoltatore, che si ritrova immerso tra candelabri, ombre, venti, magie sospese, tra il bianco e nero e lo sfumato, tra addensamenti sonici e struggenti melodie, dove la malinconia timbra il passaporto per portare queste canzoni sul palco dell’emozione più complessa e robusta che si possa desiderare. 

Nel meticoloso setaccio che vede concentrato questo genere musicale nei suoi (almeno qui) trentaquattro anni di vita, tutto appare sintetizzato alla perfezione per poi dare un colpo di coda e caricare a bordo nuove pulsazioni, nuovi atteggiamenti, nuove inclinazioni, al fine di conferire a questo vivaio di incandescenze controllate un trono: sarebbe importante che gli venisse riconosciuto, in quanto Distant Echoes è uno di quei lavori che fanno la storia. Al suo interno i cliché vengono esaltati, attraverso la metodica dello studio, per poi sviluppare un moto necessario di nuove stelle. Un atteggiamento che esplora, quasi segretamente, i territori di caccia del post-rock meno conosciuto, iniettando semi di indie-rock sottile, quasi mistico. Il tutto produce un insieme di poesie che regalano chitarre come magneti, il basso morbido ma in grado di sostenere l’intero apparato sonoro, e un drumming che traccia melodie corpose, un vigile che lancia il suono e il ritmo nelle giuste direzioni. Si corre, si vola, si insegue il baricentro di un desiderio che non conosce calcoli: la professionalità di Thomas A. Fischer, Markus Kraus e di Christian Atzinger produce incantesimi, petali di margherite piene di ardore e capacità di esplorare la luce. Prediligono la forma canzone, ma è come se ogni parte delle loro composizioni avesse singoli progetti, per un puzzle di assoluta bellezza. Ogni momento è una bolla che si tuffa nell’arcobaleno di onde elettriche che sanno, sapientemente, coniugare la realtà e il sogno, facendoci toccare le note come un miracolo inatteso. Un album che sembra scritto per essere ascoltato in una mansarda, con qualche bicchiere di vino, dei dolci e un libro di psicologia: c’è vita da toccare in questi fiumi, ogni brano diventa un bastoncino che scivola nell’acqua di un concetto fatto di vibrazioni, tensioni e carezze, per scatenare riflessioni ed emozioni. Ci conduce a percepire con nitidezza uno strato proteiforme, causando adorazione e incredulità, nello scenario del caos subliminale dello shoegaze dipinto e non urlato, attraverso modalità prevalentemente preposte al giusto ritmo, con la predilezione dei cambi ritmo. Arpeggi dal cuore acceso, direzioni mai casuali verso una melodia che non si ritrova mai in solitudine, con un gioco di squadra che compatta la voce piena di riverbero con musiche gonfie di inventiva, per una creazione globale che impegna l’ascolto in una profonda attenzione. La produzione di Mark Gardener (Ride) conforta, stupisce, regalando l’ulteriore certezza che questo esordio sia nato per essere protetto con sapienza e intelligenza. Scorre, e lo fa benissimo, questo flusso magnetico di pennelli e seta, per avviluppare il cuore in un’estasi indiscutibile. 

Sin dall’inizio, con la canzone che dà il titolo all’album, abbiamo la maestosità e la timidezza, per un combo che consegna alle chitarre e al drumming lo scettro e in cui il post-rock abbraccia lo shoegaze più semplice da ascoltare, in un tripudio di intensità e calore. In Caught In A Dream la band dimostra come melodia e potenza possano essere un duo invincibile, con il cantato che pare una giornata di pioggia senza sorrisi, mentre la tastiera dipinge possibili arcobaleni e le chitarre si alternano tra schemi Dream Pop e Shoegaze. Quando arriva Paranoia realizziamo dove sia collocato lo stile portato sul palco del cielo dagli Slowdive: è una processione cupa che non rinuncia alla dolcezza con chitarre che guardano i Cure di Wish mostrare le rughe. Immensa. La conclusiva Drowned Voices è un addio quasi mistico, immersa nella sua lentezza che ipnotizza, affascina e mostra il futuro di questo genere musicale: è uno sfiorare l’intensità di un suono che viene mostrato con pudore, come se nulla dovesse essere ostentato ed è in questo frangente che il gruppo sfodera soluzioni con pazienza e ricerca. L’intero palcoscenico sonoro merita uno studio preciso: non sarà l’album più amato del 2024, ma sicuramente tra quelli che sapranno dimostrare che sono gli studenti a insegnare al mondo che c’è ancora tanto da conoscere…

Prodigioso il fatto che, mentre le vibranti forme artistiche esibiscono la loro struttura, tutto sembra farsi evanescente: non si può controllare la bellezza di questa carrellata pelvica di equilibri, si può solo “subirne” il fascino, in una giostra di suoni in continua ascesa. E lo sporco di chitarre ammaestrate alle contorsioni produce un insospettabile senso di pulizia: quando le diapositive sonore lavano l’anima e ci si sente più leggeri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Marzo 2024


L'album uscirà il 22 Marzo 2024


https://swirlpoolmusic.bandcamp.com/album/distant-echoes


venerdì 7 luglio 2023

La mia Recensione: Diesein - Even the best are the worst

Diesein - Even the best are the worst


Chi sono i migliori a fare dell’electropop una questione di disciplina, elevandola a una forma di cultura? I tedeschi, avevate dei dubbi?

Qui, proprio in questi solchi possiamo celebrare la bellezza del sax che accompagna le piume elettroniche, in un disegno di calda e sensuale danza nella quale le decadi musicali si danno appuntamento per fare il punto della situazione. C’è da equilibrare, registrare i meccanismi, determinare una strategia melodica che non smetta di stuzzicare. I Diesein sono maestri del tutto sconosciuti e questo fa arrabbiare non poco il vecchio scriba: state appiccicati a queste frequenze, la storia la scrive chi non ha vinto e loro ne sono l’emblema. Le loro mani usano un mestolo sapiente, gli ingredienti vengono buttati nel pentolone che comprende anche gocce di synthpop tenuto a bada con equilibrio. Il lavoro della drum machine è perfettamente allineato a quello di un basso estremo nella sua semplicità e che permette ai synth di dominare la scena senza essere ridicolizzati. Voi tenetevi i Depeche Mode che lo scriba proprio ora, proprio con queste canzoni, sa che la bellezza non arriva alla massa e al fanatismo…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

7 Luglio 2023


https://diesein.bandcamp.com/album/even-the-best-are-the-worst










domenica 30 aprile 2023

La mia Recensione: Die Letzten Ecken - Talisman

Die Letzten Ecken - Talisman


Berlino insiste, sforna band e lavori come se fosse un fiume in perenne stato di nascita. Una città che forma e informa il mondo, ha braccia enormi che sanno cingere l’inquietudine, la solitudine, il mistero, semina fluidi densi di gramigna gentile, come quella presente nelle nove canzoni. Un cammino nella storia di quella capitale, un avanzare dentro l’intensità dei ritmi, dei suoni, di percezioni che rendono l’essere umano sempre più consapevole. I sintetizzatori sono ondate poderose, per formare case come se fossero delle dance hall, nelle quali ci si nutre di elettronica, del Kraut Rock (poteva e doveva mancare? Certamente no!), finendo per ossigenare il Post-Punk, rendendolo uno schiavo ubbidiente. I vetri si rompono, come gli equilibri, e si viaggia perdutamente sconvolti da questo ammasso di Dark-Electro sapientemente dilatato. La loro massiccia intelligenza emerge definitivamente con la quarta freccia, quella Zirkus, che eleva il loro concetto, il loro comportamento e portamento, in quanto sa comprimere il file di quel luogo e, tolta la pen drive, tutto rimane memorizzato. Si vivono momenti di poesia cibernetica elegante (Brennender Kummer), in cui la voce femminile preme per divenire una recitazione secca. E quando si arriva all’ascolto di Talisman, si entra negli anni Ottanta come se fosse uno Spin-Off di un eventuale film su quella decade.

Non esitate: andate in Germania e prendetevi una scossa vitaminica con questo meraviglioso terzetto, perché starete benissimo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Supino
30 Aprile 2023





La mia Recensione: Tulips - Tangled In Transition

Tulips - Tangled In Transition


Certa musica va ascoltata nei giorni di pioggia sottile, quando la preoccupazione della forza della natura non regala tensioni e difficoltà. Addentriamoci allora nella Colonia più autentica e capace di offrire sollievo e bellezza permeata di consequenziali riflessioni bollenti.

I Tulips sono un patrimonio nascosto, L'Unesco a volte prende delle cantonate: dovrebbe proteggere la band tedesca, che con questo EP ha generato un tumulto e una lezione di suoni e attitudini, scaraventando il passato verso un senso di colpa, perché questi ragazzi hanno mutato e  migliorato di molto tutto ciò che si conosceva nei confronti di questo tipo di musica. Una forma che cresce dall’epidermide, velocemente, sale sino al cielo, aiutato dalla spinta del basso e dei synth, veri sovrani di queste strutture che sembrano liberare tossine a ripetizione. Uno stato emotivo elettrizzante rende le composizioni degne di essere considerate un breve ma intenso racconto per una lettura che si fa idilliaca, soprattutto per chi ha dei leggeri tormenti dentro la propria mente…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

30 Aprile 2023


https://ttuulliippss.bandcamp.com/album/tangled-in-transition?from=search&search_item_id=131200194&search_item_type=a&search_match_part=%3F&search_page_id=2572967728&search_page_no=1&search_rank=1&search_sig=f79d22fd2bc7d2872f88750a3e12f441








La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...