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sabato 12 aprile 2025

La mia Recensione: Brigitte Handley - Cyber Nation


 

Brigitte Handley - Cyber Nation


Arriva il momento in cui si contestualizza, attraverso una precisa razionalità, una serie di malesseri e si suonano campanelli d’allarme, si getta la propria coscienza per le strade del mondo, si stimola un risveglio che possa lasciare libere le persone dalla modernità che ci rende soldatini ubbidienti, ma inconsapevoli dei drammi che il potere impone.

Brigitte Handley, la poetessa del brivido, della dolcezza, tira fuori gli artigli e, insieme a tre fedeli compagni di viaggio, scrive un brano che dalla teoria cerca di svincolarsi per essere una realtà che modifichi l’esistenza. Parte dal proprio io per trasformarsi in una voce della comunità mondiale, tra zombies e dipendenza cronica dalla tecnologia, capendo come i limiti lavorativi influiscano sulla modalità del tempo vissuto e sull’impossibilità di accorgersene.

Per farlo, musicalmente, mantiene presenti le pillole preziose delle sue melodie da cantante solista, riconfermando però la svolta creata con Köln, in cui un dark electro vibrante consente una potenza diversa da quella vissuta ai tempi della band The Dark Shadows, di cui era la voce, la chitarra e la tastiera.

Non manca la sua voce vellutata, la dolcezza, la sua peculiare propensione a rispettare gli ascoltatori con il suo garbo e i fiori nell’ugola.

Ma Brigitte è una donna che continua a maturare, in tutti gli aspetti, si mette in discussione, lo fa anche seminando caos in ogni aspetto del mondo e abitandolo con il senso di responsabilità che diventa anche il nostro.

Si danza pensando, con i nostri riti attuali che lei osserva e invita a cambiare, attraverso il moog, il theremin, il vocoder, tastiere e synth e un fascio colorato che ispira la voglia di un arcobaleno nel cervello e un rifiuto nei confronti dell’imbecillità collettiva. Colpisce duro la fata australiana e lo fa perfettamente, come donna adulta in un mondo rincoglionito dalla modalità che il Potere ha creato per renderci obbedienti.

Lei no, contesta e prende il controllo della sua obiettività, scrivendo un brano che dovrebbe essere il nostro altare pagano riconoscente, per la qualità e la profondità del messaggio trasmesso.

La sua musica vive di una modalità attuale, comprensibile, afferrabile, votata al coinvolgimento dato dalla splendida produzione che esalta la perfetta dinamica, utilizzando la velocità per non sprecare tempo, in un vortice di transistors e muscoli pettinati bene al fine di non fare male alla vista di queste movenze, testuali e sensoriali, in cui sperimenta il suono moderno solo per essere più comprensibile. La canzone, però, ha un qualcosa di antico, proviene da realtà lontane che non vogliono morire e che, nel loro lungo elenco, non desiderano perdere il desiderio di poter vivere ancora.

Un gioiello che deve arrivare a chiunque e partorire menti in grado di evolversi nel rispetto del tempo (la nostra unica stazione vitale), per poter trascorrere davvero la vita in modo sensato.

Brigitte ha colpito ancora: tocca a noi ora, attraverso l’ascolto di questo gioiello, fare altrettanto…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

13th April 2025


https://brigittehandley.bandcamp.com/track/cyber-nation

mercoledì 9 aprile 2025

La mia Recensione: Phileas Fogg - ALLESMUSSSEINENDEFINDEN


 

Phileas Fogg - ALLESMUSSSEINENDEFINDEN


Una polvere di vita si getta in una pillola microscopica, per uno sgretolamento della materia che sconfina nei flussi malsani del nostro porci domande. E, quando la musica raffigura e rappresenta questa situazione, uno spiacevole sgomento ci attanaglia, ci impone dei doveri e ci narra la tensione di una famelica vita in decadenza.

Tutto ciò è l’ultimo lavoro di questa band di Stoccarda che è nuovamente cresciuta, implosa ed esplosa nella sua straordinaria maniacalità nell’essere un gretto atomo che racconta la storia e la fissazione per l’esercizio della disciplina meticolosa. Ogni cosa è calcolata e chiara (sono tedeschi, non dimentichiamolo, le cose sono abituati a farle benissimo), e l’ascolto di queste dieci scosse conduce a una nevrotica passeggiata dentro noi stessi, in luoghi ormai disabitati dalla coscienza. I tre, inoltre, ondeggiando tra le bave schiumose di un Post-Punk antico ma con lo storytelling moderno, riescono a divenire uno scomodo specchio, dove tutto si fa scheggia triste, distruggendo saggiamente la finta sicurezza che procura l’esperienza di musica inoffensiva.

Loro no, loro picchiano duro, con deliziosa propensione a fare di queste composizioni rovi tra le rovine di tossine che non possono che voler fuggire dentro questi watt che, insieme a minimali traiettorie musicali, definiscono, seminano, diventando una impronta su cui mettere in fila i nostri pensieri, totalmente sfiniti e pieni di sconfitta e morte. 

I testi di Andreas sono un breve ma intenso marcamento a zona: al suo sguardo nulla sfugge e la sua penna (mitraglia con pallottole piene di mefistofelico ardore) si accoppia con il suo canto, cigno nero in un pomeriggio oscuro su territori urbani e suburbani, dove l’amore, la vita sociale, i fatti segreti, i sogni e illusioni sono colla su cui cadere senza possibilità di svincolarsi. Soste, impeti, raffinati tratteggi dentro un tempo in cui viene anche tratteggiata la paura di una Germania che vacilla (Kometengift), per concludersi in un raffinato racconto in cui la nostalgia e la speranza sono deliberatamente lasciate fuori.

Con la sua chitarra e i suoi due compagni (Fabian sempre alla chitarra e Nicholas al basso) tutto è finalizzato alla specificazione, a un volume controllato nell’eretica densità. La conoscenza dei trattati strutturali del Post-Punk qui trovano la possibilità di rifiutare lo sperpero, le divagazioni e le imitazioni: il terzetto conserva le guide, gli insegnamenti di band storiche e rilevanti, ma non perde di mira il dovere di essere implacabile e serio.

Gli inserti elettronici e i synth sono punture inevitabili, per trasportare le linee magnetiche e robotiche dei due strumenti in un parcheggio nel quale le idee si sviluppano per entrare nelle cantine delle possibilità, dove il buio conta più della luce: ci sono verità scomode da nascondere e proteggere…

La drum machine, in questo contesto, appare nella sua magnificenza, consentendo ulteriori possibilità immaginifiche e agganci soprattutto con la synthwave e la coldwave.

Un’opera densa, paralizzante (nella zona nevralgica di un tempo in cui questo genere musicale sta perdendo valore e capacità), che risulta essere un inaspettato regalo, un beneficio insperato, uno sciame di ronzii poderosi di cui si sentiva la necessità, creando tumulti, crateri e una splendida rassegnazione, quella magnificamente definita nelle ultime parole di questo incredibile album: “Ci lasciamo tutto alle spalle”, per un niente da conservare e forse ben poco da costruire…


Song by Song


1 - Salz


Una gittata di sale sulla ferita di un rapporto apre questo lavoro sublime: è uno scatto iperbolico, una geometria vocale che condensa e dà alle chitarre e al synth un mulinello di vento su cui spiccare il volo. Rapido, compatto, sgretolante, il brano è l’anticamera di un inferno interiore che sfugge allo sguardo.


2  - Vorbei


La fine della vita come un dovere: ecco che musica e parole diventano un triste Gatha, che aiuta a mantenere viva la consapevolezza. Si torna indietro nel tempo, in quel vascello che imbarcava acqua vitale regalando la gioia della disfatta… Un insieme di vibrazioni caotiche date dalla chitarra e un synth che ci ricorda l’importanza stilistica dei Killing Joke. Ci si ritrova con un congedo che Andreas canta con immensa forza e tristezza…


3 - Augen


Un amore osservato, contemplato, un invito e un falò ad attendere i protagonisti di questo diamante che azzanna il respiro con il suo incedere, le chitarre che sono un assedio e il basso che induce il respiro a morire. Feroce e incantevole, la canzone palesa le zone annesse a una modalità artistica che in questo momento solo i tre sanno mostrare a volto scoperto…


4 - Regen


Il brano racconta una strategia comportamentale che ingloba il presente e l’aldilà. Con questo presupposto si avverte una tensione palpabile, la drammaticità che il ritornello sa esaltare, consegnando l’apoteosi negativa delle nostre esistenze. Il cantato, insieme a inserti elettronici che atrofizzano gli arti, si tuffa nel fragore di un’ascesa che regala fulmini ubbidienti.


5 - Hafen


Apparentemente si calmano le acque, il basso disegna una linea che concede spazio a una melodia efficace e quasi gioiosa, ma poi… Poi la tristezza circonda la struttura musicale e si avverte una gabbia che esce dalle note e si inserisce adeguatamente nel nostro cervello, consentendo, però, l’illusione di un'atmosfera sognante…


6 - Kometengift


Un picco maestoso, uno sguardo impietoso sull’attualità della Germania consegna un gioiello musicale inaudito: è irruenza, un mulino in volo che rovescia chilometri di acqua sporca sul futuro di una nazione abituata al comando e alla fertilità. Dopo un inizio cupo, dato da un cantato apparentemente nascosto, si sviluppa una slavina di note raggomitolate tra sangue e voci che quasi urlano, a rendere il tutto un lieve respiro sotto un tappeto, nel quale la storia sembra terminare la sua gloria…


7 - Meinerfundenesland


L’amore raccontato qui vive di attese, di sogni corti, di continue discese, e il tappeto sonoro è denso di cupe strade, di tagli inevitabili, di scintille elettroniche celestiali, con un’apertura in tonalità maggiore che rivela una malinconia inevitabile ma clamorosamente piacevole…


8 - Belegt


Una finestra, personale, per visitare la psiche. Un corridoio, musicale, dove emerge la storia della Neue Deutsche Welle, dove punk, post-punk e onde di elettronica perfezionano lo spazio di un racconto che corre veloce, per sublimare questa veduta in una devastante processione di occhi chiusi e luci sfinite…


9 - Küssen


Sole, viaggio, luna, ombra, baci: in questo tsunami vive una tossina agrodolce musicale che sembra generare attese di esplosioni… Un cantato che pare essere la recita di dolorose poesie di Bertolt Brecht consegna una teatralità inaspettata, compattata da un synth ipnotico e da chitarre roventi, il tutto sempre all’insegna di una cometa che attraversa la vita e lo spazio per morire in perfetta inquietudine…


10 - Häutung


Bisogna mettersi alle spalle la vita, vissuta e raccontata. Per farlo, la band decide di chiudere quest’opera con un un pezzo di una potenza suggestiva e imbarazzante, la bellezza e la verità congelate e congedate, come assorbimento, consumo e detrito. L’ennesimo gioiello di una serie di cavi elettrici che creano luci per togliere energia, completando un magnifico lavoro. Ed è con una danza piena di lacrime che si conclude un'esperienza meravigliosamente triste e devastante…


Album dell’anno 2025 per quanto concerne il post-punk, senza nessun dubbio!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9th April 2025


https://phileasfogg.bandcamp.com/album/allesmussseinendefinden




mercoledì 12 marzo 2025

La mia Recensione: Pink Turns Blue - Black Swan


 

Pink Turns Blue - Black Swan


Erano gli anni Ottanta, Leeds generava un flusso razionale ed emotivo enorme, a cui era stato dato l'appellativo di Post-punk, e tutto si era fatto nucleo, viscere, corteccia, piuma, spranga, per contaminare prima il suolo europeo e poi quello mondiale.

La città musicale per eccellenza guardava, studiava, prendeva prima le misure e poi le distanze, sapendo divenire in fretta un faro buio, nelle vicinanze di un coinvolgimento gotico e letterario senza possibilità di contraddirne la forza.

Berlino creò un infinito grigio di cui due musicisti furono paladini, ma senza nessuna volontà di esserne il cardine e gli esponenti più in vista.

I Pink Turns Blue sono una istituzione quasi religiosa per quella Germania che sa come amare i propri figli, sicura che il duo (ora diventato trio), non tradisce, tiene tra le proprie talentuose braccia chilometri di arte che non desidera essere esposta alla luce dei media, delle persone, di chiunque, per quella semplicità, modestia, senso teutonico del lavoro che non cerca applausi, per una non strategia che sa fluttuare tra le ombre prendendosi quel poco ossigeno che basta per generare pillole sonore in odore di anestesia, nell’apoteosi di sussurri e suggerimenti che spesso sono davvero praticamente invisibili.

Mic Jogwer, Paul Richter e Luca Sammuri sono riapparsi, come prede scheggiate, come cilindri sonici in un giorno di lavoro, con la valigia piena di storia, geografia, sociologia e una dieta che invita l’egoismo moderno a sciogliersi. Esplorano con sempre maggior meticolosità gli anfratti del Post-punk, diminuendo ancora di più la fantasia, le illuminazioni, mettendo a tacere l’istinto e lavorando, piuttosto, su poche linee, su ampi loop da cui trarre la vitalità che serve sia a loro che a noi. 

Un’orchestra mentale invita le note a essere discrete, trasparenti, feroci, come cannibali antichi che sanno come mordere le caviglie: la malinconia non viene lasciata sola, bensì accompagnata da una visione che spinge a un’unità umana degna della scuola filosofica del 1900 che, guarda caso, veniva proprio da un’altra città tedesca.

Un disco come un viaggio con un sacco di iuta sulle spalle, a raccogliere, a seminare, ad aspettare, a sorridere, mai a far piangere, perché quello non è il loro compito.

La claustrofobia del vivere moderno entra nella nebbia di chitarre obbedienti, del drumming secco e votato alla semplicità, con il basso che rimane affezionato ai Red Lorry Yellow Lorry per un tappeto che, grazie a tastiere velate, rende omogenea l’intensità e la erige al ruolo di semaforo mentale.

Riff non complicati ma profondi affondano, il cantato di Mic è sempre più uno scheletro con palpitazioni sghembe, irresistibile e provocatorio, con il suo inconfondibile accento a farci sorridere come tenera forma di abbraccio. Le sue parole, però, sono lamine e spine che non tornano mai nella sua gola…

Il suono è un marchingegno oscuro, un mistero che cerca l’ampiezza del pop, tossendo, prendendo da quella Leeds di cui si diceva prima le particelle velenose delle sue fabbriche, per un ipotetico ponte con Berlino, al fine di seminare un invisibile territorio di morte e lutti.

Il trio non cerca di essere convincente con canzoni piene di varianti, di trucchi e accessi colmi di eccessi: preferisce una modalità desertica, insieme al sole e alla luna, al caldo e al freddo e il dolore e la poca gioia tutti confluiti in pochi accordi, raggiungendo il risultato di essere maggiormente convincenti e in grado di divenire uno specchio mai appannato.

La magia delle dodici composizioni sta tutta nella direzione, in questi proiettili gentili con il bavero alzato, insieme alla dose perfetta di struggenti affermazioni, nelle quali i rapporti tra l’io e gli altri pare essere un film quasi muto, per generare oscillanti proiezioni colme di sudore e tosse: incute paura, il giusto disagio e, se si presta attenzione, tutto è perfettamente posizionato tra il meccanismo freddo e distaccato e una generosa esplosione affettiva.

La produzione conferisce la giusta continuità rispetto al precedente, e in essa è ben chiaro che i quasi quarant’anni di carriera ci propongono persone molto distanti dagli esordi, ma con la stessa propensione a fare della musica un lavoro serio e non un parco giochi privo di specifiche premure.

Il fascino con loro diventa la palestra di una intelligenza che non può avere tanti seguaci: sempre stati avanti loro e queste tracce dimostrano, grazie a un’ossatura verticale e mai pomposa, di lasciare da parte le velleità del successo, che è per loro un avvenimento inutile. Tutto ciò lo si comprende bene perché sono undici sentenze, dove nessuno sale sul loro treno ma, davvero, credetemi, è preferibile per la massa evitare i suoi binari.

Molte band attuali sono cresciute grazie ai PTB e hanno poi preferito imbalsamare la ricchezza dello spirito con la bellezza estetica, quella sterile.

Il rosa, il blu e il nero: tre colori messi di fila, come un logico mantello di appartenenza, con la pelle, il cielo e la morte saggiamente rappresentati in questi solchi.

Non possiamo fare altro che avvicinare le orecchie al suo interno e deglutire la gioia e la paura, come unico atto intelligente… 



     Song by Song


1 - Follow Me

I synth pieni di crepe e la chitarra malinconica battezzano l’album. E poi un’anima si pone domande, cerca risposte nel cielo e nelle persone per una canzone piena di dolore in transito, con la pelle che trema in questo riff elettronico figlio dei Kraftwerk e nelle chitarre piene proprio della luce cupa di questa band ai loro esordi. Un invito che è la risposta muta di chi adora questa prima traccia, come una cosa buona e giusta…



2 - Can’t Do Without You

Eccola la canzone pop, o meglio, che prova a entrare in un posto di cui la band non ha mai voluto fare parte. Diventa un singolo, un generatore di collante tra quel genere e l’indie elettronico, con il ritmo che assume le sembianze di un mantra semplice su cui si appoggia la linea del synth.




3 - Dancing With Ghosts

Si provi a immaginare un punto nel cielo in cui le traiettorie chitarristiche dei Mission e dei Red Lorry Yellow Lorry si incrociano. Ecco: da qui parte un arcobaleno di bellezza liquida con invocazioni, desideri verso una metrica essenziale e tipicizzante per i Berlinesi. Ed è stupore e gioia in miscelata danza.



4 - Fighting for the Right Side

Come tradurre la claustrofobia in un calendario in cui le candele sono spente e spinte da questo basso a portare la voce sulle pareti tappezzate da un profondo bisogno di giustizia. Chitarre che assorbono il glam, quasi hard rock, brevi attimi e poi è poesia decadente per condurre questo pezzo sul loro podio di cui noi non possiamo che desiderare di condividere lo spazio.



5 - Why Can’t We Just Move On

Ci ritroviamo nella dark electro zone degli Slow Readers Club, con Manchester che chiama a sé Berlino. Una grazia sonora viene invasa da una tristezza che paralizza. Ed è mantra come una epilessia genetica che sparge sale e miele…



6 - Black Swan (But I Know There’s More to Life)

Siamo al punto più alto, dove il Dio del volo perde il fiato. Nasce un pianto onesto su questi tasti in bianco e nero, sulla voce grigia, su questo cigno che pare volare tra le pareti di un testo perfettamente adiacente alle frustrate di una chitarra che cerca di graffiarci il respiro, per una sensazione di ipnotica dannazione senza fine…



7 - Like We All Do

Ogni lampo ha una invisibile forza contraria: ecco ciò che accade in questa improvvisa corsa che ci ricorda i Belfegore, con quel medesimo impeto che raggelava la notte. Il crescendo di chitarre rock (nei pressi dei Cult di Sonic Temple) ci induce a una gioia di cui non si conosce l’indirizzo ma, come farfalle drogate di vita, ci arriveremo trafelati. E gli errori dell’esistenza trovano in questo piccolo gioiello urbano un catino perfetto…



8 - Friday Night Out 

Accordi ingannevoli precedono uno sputo fumogeno, velenoso, con il ricordo dei primi singoli dei Fields of the Nephilim (specialmente nel giro del basso e nella “semplicità” della chitarra), a rendere questa canzone la sintesi dell’evoluzione della band della capitale tedesca: tutto qui è visione poetica, in chiaroscuro, in stato di peccaminosa forma di avviso per ciò che potrebbe succederci…



9 - Please Don’t Ask Me Why 

Mai dimentichi del loro disco d'esordio, i tre sciorinano canzoni come gocce d’acqua piene di memoria. Il brano è un abbraccio temporale, un bacio alle tempie e un invito a leggere la vita dei sentimenti con attenzione. La voce diventa esiziale, propedeutica, recitativa sulle agghiaccianti vibrazioni di una sei corde in stato di trance…



10 - I Can Read Your Name in the Stars

Terzo episodio in cui il pianoforte prende il palcoscenico: è solo il trampolino di lancio per una serie di parole che sanno essere una fionda gentile, in attesa del tuono. Che arriva, dolcemente, come se il tutto fosse la base di una inconsueta ballad, per un baritonale approccio dimenticato al fine di favorire l’inclinazione di una serie di inaspettati sorrisi…



11 - Stay for the Night

La gloria deve avere una corona ben visibile da tutti. Si chiude sempre un percorso con l’infinito che illumina il passato. Così fa questa canzone, sintesi sontuosa e perfetta di un delittuoso atto di bellezza che fa del loop congenito e sviluppato in tre precise fasi lo spettacolare anfiteatro di una barriera corallina sonora che fa piangere malgrado tutto. Una densità onirica, una sequenza di riferimenti resi sottili e quasi nascosti, ma in queste poche note succede il caos, il suo contrario, in un avvicendamento ondivago, con il cuore del pezzo che mostra i bagliori della sua complessità quando viene a mancare il drumming e il synth. Proprio in quel momento capisci le zone di smottamento che sa produrre questo pazzesco brano che chiude l’album e apre il cuore verso una paranoica e irresistibile volontà di circondarsi di questa magnetica dipendenza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Marzo 2025



https://pinkturnsblue.bandcamp.com/album/black-swan


ORDEN-RECORDS BERLIN - MusicBrainz



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