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mercoledì 12 marzo 2025

La mia Recensione: Pink Turns Blue - Black Swan


 

Pink Turns Blue - Black Swan


Erano gli anni Ottanta, Leeds generava un flusso razionale ed emotivo enorme, a cui era stato dato l'appellativo di Post-punk, e tutto si era fatto nucleo, viscere, corteccia, piuma, spranga, per contaminare prima il suolo europeo e poi quello mondiale.

La città musicale per eccellenza guardava, studiava, prendeva prima le misure e poi le distanze, sapendo divenire in fretta un faro buio, nelle vicinanze di un coinvolgimento gotico e letterario senza possibilità di contraddirne la forza.

Berlino creò un infinito grigio di cui due musicisti furono paladini, ma senza nessuna volontà di esserne il cardine e gli esponenti più in vista.

I Pink Turns Blue sono una istituzione quasi religiosa per quella Germania che sa come amare i propri figli, sicura che il duo (ora diventato trio), non tradisce, tiene tra le proprie talentuose braccia chilometri di arte che non desidera essere esposta alla luce dei media, delle persone, di chiunque, per quella semplicità, modestia, senso teutonico del lavoro che non cerca applausi, per una non strategia che sa fluttuare tra le ombre prendendosi quel poco ossigeno che basta per generare pillole sonore in odore di anestesia, nell’apoteosi di sussurri e suggerimenti che spesso sono davvero praticamente invisibili.

Mic Jogwer, Paul Richter e Luca Sammuri sono riapparsi, come prede scheggiate, come cilindri sonici in un giorno di lavoro, con la valigia piena di storia, geografia, sociologia e una dieta che invita l’egoismo moderno a sciogliersi. Esplorano con sempre maggior meticolosità gli anfratti del Post-punk, diminuendo ancora di più la fantasia, le illuminazioni, mettendo a tacere l’istinto e lavorando, piuttosto, su poche linee, su ampi loop da cui trarre la vitalità che serve sia a loro che a noi. 

Un’orchestra mentale invita le note a essere discrete, trasparenti, feroci, come cannibali antichi che sanno come mordere le caviglie: la malinconia non viene lasciata sola, bensì accompagnata da una visione che spinge a un’unità umana degna della scuola filosofica del 1900 che, guarda caso, veniva proprio da un’altra città tedesca.

Un disco come un viaggio con un sacco di iuta sulle spalle, a raccogliere, a seminare, ad aspettare, a sorridere, mai a far piangere, perché quello non è il loro compito.

La claustrofobia del vivere moderno entra nella nebbia di chitarre obbedienti, del drumming secco e votato alla semplicità, con il basso che rimane affezionato ai Red Lorry Yellow Lorry per un tappeto che, grazie a tastiere velate, rende omogenea l’intensità e la erige al ruolo di semaforo mentale.

Riff non complicati ma profondi affondano, il cantato di Mic è sempre più uno scheletro con palpitazioni sghembe, irresistibile e provocatorio, con il suo inconfondibile accento a farci sorridere come tenera forma di abbraccio. Le sue parole, però, sono lamine e spine che non tornano mai nella sua gola…

Il suono è un marchingegno oscuro, un mistero che cerca l’ampiezza del pop, tossendo, prendendo da quella Leeds di cui si diceva prima le particelle velenose delle sue fabbriche, per un ipotetico ponte con Berlino, al fine di seminare un invisibile territorio di morte e lutti.

Il trio non cerca di essere convincente con canzoni piene di varianti, di trucchi e accessi colmi di eccessi: preferisce una modalità desertica, insieme al sole e alla luna, al caldo e al freddo e il dolore e la poca gioia tutti confluiti in pochi accordi, raggiungendo il risultato di essere maggiormente convincenti e in grado di divenire uno specchio mai appannato.

La magia delle dodici composizioni sta tutta nella direzione, in questi proiettili gentili con il bavero alzato, insieme alla dose perfetta di struggenti affermazioni, nelle quali i rapporti tra l’io e gli altri pare essere un film quasi muto, per generare oscillanti proiezioni colme di sudore e tosse: incute paura, il giusto disagio e, se si presta attenzione, tutto è perfettamente posizionato tra il meccanismo freddo e distaccato e una generosa esplosione affettiva.

La produzione conferisce la giusta continuità rispetto al precedente, e in essa è ben chiaro che i quasi quarant’anni di carriera ci propongono persone molto distanti dagli esordi, ma con la stessa propensione a fare della musica un lavoro serio e non un parco giochi privo di specifiche premure.

Il fascino con loro diventa la palestra di una intelligenza che non può avere tanti seguaci: sempre stati avanti loro e queste tracce dimostrano, grazie a un’ossatura verticale e mai pomposa, di lasciare da parte le velleità del successo, che è per loro un avvenimento inutile. Tutto ciò lo si comprende bene perché sono undici sentenze, dove nessuno sale sul loro treno ma, davvero, credetemi, è preferibile per la massa evitare i suoi binari.

Molte band attuali sono cresciute grazie ai PTB e hanno poi preferito imbalsamare la ricchezza dello spirito con la bellezza estetica, quella sterile.

Il rosa, il blu e il nero: tre colori messi di fila, come un logico mantello di appartenenza, con la pelle, il cielo e la morte saggiamente rappresentati in questi solchi.

Non possiamo fare altro che avvicinare le orecchie al suo interno e deglutire la gioia e la paura, come unico atto intelligente… 



     Song by Song


1 - Follow Me

I synth pieni di crepe e la chitarra malinconica battezzano l’album. E poi un’anima si pone domande, cerca risposte nel cielo e nelle persone per una canzone piena di dolore in transito, con la pelle che trema in questo riff elettronico figlio dei Kraftwerk e nelle chitarre piene proprio della luce cupa di questa band ai loro esordi. Un invito che è la risposta muta di chi adora questa prima traccia, come una cosa buona e giusta…



2 - Can’t Do Without You

Eccola la canzone pop, o meglio, che prova a entrare in un posto di cui la band non ha mai voluto fare parte. Diventa un singolo, un generatore di collante tra quel genere e l’indie elettronico, con il ritmo che assume le sembianze di un mantra semplice su cui si appoggia la linea del synth.




3 - Dancing With Ghosts

Si provi a immaginare un punto nel cielo in cui le traiettorie chitarristiche dei Mission e dei Red Lorry Yellow Lorry si incrociano. Ecco: da qui parte un arcobaleno di bellezza liquida con invocazioni, desideri verso una metrica essenziale e tipicizzante per i Berlinesi. Ed è stupore e gioia in miscelata danza.



4 - Fighting for the Right Side

Come tradurre la claustrofobia in un calendario in cui le candele sono spente e spinte da questo basso a portare la voce sulle pareti tappezzate da un profondo bisogno di giustizia. Chitarre che assorbono il glam, quasi hard rock, brevi attimi e poi è poesia decadente per condurre questo pezzo sul loro podio di cui noi non possiamo che desiderare di condividere lo spazio.



5 - Why Can’t We Just Move On

Ci ritroviamo nella dark electro zone degli Slow Readers Club, con Manchester che chiama a sé Berlino. Una grazia sonora viene invasa da una tristezza che paralizza. Ed è mantra come una epilessia genetica che sparge sale e miele…



6 - Black Swan (But I Know There’s More to Life)

Siamo al punto più alto, dove il Dio del volo perde il fiato. Nasce un pianto onesto su questi tasti in bianco e nero, sulla voce grigia, su questo cigno che pare volare tra le pareti di un testo perfettamente adiacente alle frustrate di una chitarra che cerca di graffiarci il respiro, per una sensazione di ipnotica dannazione senza fine…



7 - Like We All Do

Ogni lampo ha una invisibile forza contraria: ecco ciò che accade in questa improvvisa corsa che ci ricorda i Belfegore, con quel medesimo impeto che raggelava la notte. Il crescendo di chitarre rock (nei pressi dei Cult di Sonic Temple) ci induce a una gioia di cui non si conosce l’indirizzo ma, come farfalle drogate di vita, ci arriveremo trafelati. E gli errori dell’esistenza trovano in questo piccolo gioiello urbano un catino perfetto…



8 - Friday Night Out 

Accordi ingannevoli precedono uno sputo fumogeno, velenoso, con il ricordo dei primi singoli dei Fields of the Nephilim (specialmente nel giro del basso e nella “semplicità” della chitarra), a rendere questa canzone la sintesi dell’evoluzione della band della capitale tedesca: tutto qui è visione poetica, in chiaroscuro, in stato di peccaminosa forma di avviso per ciò che potrebbe succederci…



9 - Please Don’t Ask Me Why 

Mai dimentichi del loro disco d'esordio, i tre sciorinano canzoni come gocce d’acqua piene di memoria. Il brano è un abbraccio temporale, un bacio alle tempie e un invito a leggere la vita dei sentimenti con attenzione. La voce diventa esiziale, propedeutica, recitativa sulle agghiaccianti vibrazioni di una sei corde in stato di trance…



10 - I Can Read Your Name in the Stars

Terzo episodio in cui il pianoforte prende il palcoscenico: è solo il trampolino di lancio per una serie di parole che sanno essere una fionda gentile, in attesa del tuono. Che arriva, dolcemente, come se il tutto fosse la base di una inconsueta ballad, per un baritonale approccio dimenticato al fine di favorire l’inclinazione di una serie di inaspettati sorrisi…



11 - Stay for the Night

La gloria deve avere una corona ben visibile da tutti. Si chiude sempre un percorso con l’infinito che illumina il passato. Così fa questa canzone, sintesi sontuosa e perfetta di un delittuoso atto di bellezza che fa del loop congenito e sviluppato in tre precise fasi lo spettacolare anfiteatro di una barriera corallina sonora che fa piangere malgrado tutto. Una densità onirica, una sequenza di riferimenti resi sottili e quasi nascosti, ma in queste poche note succede il caos, il suo contrario, in un avvicendamento ondivago, con il cuore del pezzo che mostra i bagliori della sua complessità quando viene a mancare il drumming e il synth. Proprio in quel momento capisci le zone di smottamento che sa produrre questo pazzesco brano che chiude l’album e apre il cuore verso una paranoica e irresistibile volontà di circondarsi di questa magnetica dipendenza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Marzo 2025



https://pinkturnsblue.bandcamp.com/album/black-swan


ORDEN-RECORDS BERLIN - MusicBrainz



http://www.shamelesspromotionpr.com


giovedì 20 giugno 2024

La mia Recensione: The Dharma Chain -Nowhere


 

The Dharma Chain -Nowhere


La musica continua a volare, a spostarsi, a infischiarsene dei confini, dei trattati, e corre, passeggia e assaggia brividi di connessione ininterrotti.

È il caso di questa band Australiana che dal paese natio è emigrata a Berlino e che presenta l’album di debutto. Esattamente come la vita reale, anche quella artistica dimostra la volontà e l’abilità di spostarsi in zone diverse, di addentrarsi con intelligenza e muscoli perfettamente oliati nella psichedelia più acerba, con le vampate poderose del garage rock e una lieve predisposizione ad affacciarsi allo shoegaze, il tutto con eleganza e sensualità.

Ma si assiste anche un impeto vigoroso, quasi aggressivo, calmato da una maturità davvero notevole, favorita da una produzione che esalta gli spigoli e li smussa perfettamente. Le composizioni creano un ampio stato emotivo, visivo, suggellando l’amalgama tra la danza e l'introspezione, con momenti di dolcezza come nel caso di Her Head, un vascello mentale che ondeggia tra un arpeggio di chitarra e una poderosa distorsione, sino ad accelerare mantenendo uno status onirico.

Quando giunge Clockwork si prova una strana gioia: sarà data dalla tensione di un feedback quasi allucinante, dal basso torbido e da una chitarra che sembra un sitar in cerca di un abbraccio, oppure dalle due voci che si abbracciano. 

YSHK (You Should Have Known) è un mitra gentile, che conduce alla consapevolezza grazie a inevitabili bordate chitarristiche che potrebbero provenire dalla zona di Bristol dei primi anni Settanta, con il supporto di un synth paradisiaco.

Più visiti queste canzoni e maggiore è il coinvolgimento, l’esperienza che trascina l’ascolto a divenire una identità ben precisa, con in regalo una temperatura corporea in aumento, provocando quasi un piacevole stato febbrile.

Quando la ninna nanna elettrica di Somewhere arriva, tutto diviene poesia con pennellate che rendono le nuvole azzurre, in uno spazio onirico che decisamente mostra la dimensione shoegaze del gruppo, facendoci immergere in bisogni nuovi, emergenti, con il fazzoletto che si gonfia di tenere lacrime.

L’apoteosi giunge con Greenlight, il momento più intenso ed elaborato, una collana di coralli che sequestrano la luce e si regalano la profondità del buio, in uno stato di tensione palpabile e avvolgente. Il caos viene ammaestrato, condotto alla riflessione, prima pulito e poi intossicato da una chitarra lancinante e dal connubio del basso e della batteria che sembrano proteggere le parole, consegnando un gioiello incontestabile.

Un debutto clamoroso, intenso, una notevole propensione a rendere la musica nomade, conflittuale ma anche serena, meravigliando e scuotendo la mente di chi l’ascolta. 

Si viene trasportati nella zona della curiosità, dove tutto si amplia e non ha fretta di definirsi. Un grandissimo abbraccio alla band e un grazie immenso: sono lavori come questo che fanno dell’ascoltatore un privilegiato e un clamoroso beneficiario di splendide “torture accennate”, definendo in modo nuovo la parola delizia…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Giugno 2024


https://anomicrecords.bandcamp.com/album/the-dharma-chain-nowhere


mercoledì 5 giugno 2024

La mia Recensione: The Halo Trees - Where The Deep Ends

 


The Halo Trees - Where The Deep Ends


Esistono luoghi nell’anima che sembrano deserti silenziosi, in attesa di una conversazione che possa veicolare compagnia, scambi, vibrazioni, determinare una possibile ricchezza per annichilire la fiumana di incertezza che quei posti generano. In un contesto del genere The Halo Trees potrebbe essere tutto ciò, un sostegno e una presenza per generare appigli e un senso diverso per la propria esistenza. La band proviene da Berlino e incorpora un ipotetico ponte con l’Inghilterra, l’Australia e gli Stati Uniti, in quanto il loro immaginario visivo e sonoro prevede una valigia costantemente piena di desideri, di curiosità e soprattutto di malinconia, il sentimento che risiede in ogni parte del mondo, e nel caso specifico perché le loro musiche paiono uscire da colonne sonore di film provenienti dai tre paesi citati e rendono il tutto amalgamato e perfetto. 

Il mistero, la penombra, la delicatezza, la potenza accennata e mai devastante, il porre domande facendo della curiosità un punto di partenza, sono elementi che escono come una pioggia autunnale da queste dieci composizioni, che si trasformano in semi nell’atrio del cuore e della testa, per ossigenare con realtà e sapienza le nostre smisurate esagerazioni, visto che la saggezza, l’equilibrio e la poesia sono il marchio di fabbrica del quartetto della capitale tedesca. La duttilità nel visitare diversi generi musicali è sorprendente ma ancora di più lo è il fatto che il loro stile viene confermato, e questa riconoscibilità diventa il loro passaporto, per confermare quella unicità che in questi casi spesso, invece, si perde.

L’incertezza, la confusione, la fatica del vivere, la presenza, la volontà di saper manovrare le parole, l’insicurezza dell’eccessiva informazione che destabilizza, la tridimensionalità delle cose sono alcuni degli argomenti che l’abile Sascha Blach sa affrontare, per un connubio sonoro che ipnotizza per precisione, in una danza mentale più che fisica che conquista definitivamente. Si vivono estasianti paralisi con la voce baritonale, quell’approccio che spesso ci ricorda Stuart A. Staples con i suoi Tindersticks e Liam Mckahey e i Cousteau.

Ma generare un elenco di comparazioni svilisce, non serve: in questo album siamo davanti a una profonda appartenenza alla fierezza volta a presentare unicità e differenze. Si sente spesso il bisogno di abbracciare queste composizioni perché si avverte immediatamente il debito verso la bellezza, la ricchezza e il beneficio che l’ascolto genera, per entrare in favole in cui la fine non giunge per via della loro capacità di permeare il tutto ai piedi del cielo, dove tutto inizia e nulla muore…

Si piange dal momento che in questo cilindro musicale l’atmosfera diventa un rifugio, come anche una deliziosa sporca dolcezza da mantenere segregata nell’intimo delle proprie considerazioni. La produzione riesce a rendere perfetta l’alta cifra stilistica della scrittura, un collante, uno scudo, una protezione nei confronti di queste dieci lacrime col sorriso che fanno di Where The Deep Ends uno schermo per tenere la giusta distanza da ciò che opprime. Brani che liberano l’aria da atomi inquinati e la sospendono, come in una fiaba che passa dallo stile fantasy al noir, per legittimare la loro sete di esposizione. 

Si attraversano i decenni, si bussa alla porta della memoria come a quella di un futuro che loro sanno stuzzicare, per mettere mattoni su mattoni, senza dimenticare l’obiettività dell’inganno del vivere.

La profondità e la saggia decisione di arrangiare le canzoni con una metodologia che richiama la musica classica conferisce al tutto un profumo inebriante. Ogni strumento sembra spalleggiare l’accoglienza di quello che conferisce mistero e una grande espressione evocativa: può essere il violino così come l’utilizzo di synth che stordiscono per qualità e precisione in un notevole gioco di equilibri.

Come suggerito nel testo della canzone finale, siamo ospiti, ma soprattutto testimoni di una qualità fuori dal comune e stupisce il modo in cui il gruppo, con il terzo album, conferisce un senso di continuo bisogno dell’ascolto, di divenire una carta assorbente, per stipulare un contratto con la dipendenza, una droga che non dà assuefazione bensì beneficio.  

Gli ascolti si trasformano in viaggi dove la lentezza genera l’estensione della fantasia, l’interiorizzazione e la proiezione di immagini che escono con eleganza da storie che sono scritte per divenire la nostra occasione di accoppiarci con la magia…

E allora che sia Alt-Pop, Post-Punk, Progressive, Alternative non ci interessa e non è per quello che possiamo amarli: saremo costantemente devoti al loro essere una pellicola cinematografica in bianco e nero, in grado di ridicolizzare i nostri finti colori facendo sì che questo album ci governi e ci disciplini, dando alla loro arte lo scettro del comando…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

5 Giugno 2024


COP International


https://thehalotrees.bandcamp.com/album/where-the-deep-ends-album-2024


giovedì 28 marzo 2024

La mia Recensione: L’appel Du Vide - Metro

 

L’appel Du Vide - Metro


Toh, la Sassonia, uno degli stati federati della Germania, ci presenta quattro suoi emissari di bellezza dalla stupefacente Chemnitz, famosa per la statua ritraente Karl Marx, ma per il Vecchio Scriba soprattutto per le numerose band che l’hanno resa una culla segreta di innumerevoli splendori.

Quattro anni di attività hanno dimostrato che il trattato pelvico e mentale di questo combo è una macchia radioattiva di chirurgica propensione, una scossa epidermica che va oltre i generi musicali proposti, tra un quasi Deathrock, un sicuro Post-Punk e un sublime Noise Rock impastato di candelabri per illuminare il torpore e la sofferenza di quella città che non è mai riuscita a invadere il mondo, ma che il prossimo anno vedrà come capitale europea della cultura.

Questo lavoro è un processo di combustione, cavalli di razza lanciati al galoppo per saltare ostacoli colmi di banalità e volgarità: i tedeschi qui adoperano strategie razionali ed emotive, un grimaldello, una vanga, uno scalpello e un tornio, per rendere l’ascolto trucioli consapevoli di cosa sia essere uno scarto della società.

Un continuo trambusto, nello spartiacque celeste di confusioni rese palpabili, con doverosa precisione, curando il suono, le sue regole oltraggiose e spavalde, per massacrare le coscienze più che i timpani, per un giro del mondo pazzesco, comprendendo gli Stati Uniti (la strabordante Portland su tutte), così come l’Inghilterra della ferrea Manchester, per approdare all’intuizione della qualificazione delle melodie come streghe risorte dopo un lungo letargo, per donare fuochi fatui e manciate di incenso dentro le nostre narici.

Qualcosa di primitivo, frutto di carbonare conquiste pre-medievali agguantano il flusso sanguigno di queste composizioni, per materializzarsi nel proscenio moderno dell'insulto, nella girovaga danza dietro le sue quinte. 

Si rende evidente che la loro ambascia ha la volontà di progredire, di lasciare il proprio nucleo e divenire un affronto, uno scontro, tramite brani che vagano nel cielo come torbide nuvole nel tentativo, riuscito, di far piangere i raggi del sole: quando nel cielo vola il ferro nessun paradiso si sente sicuro.

Agli occhi dei quattro operai metalmeccanici la storia dell’uomo è un cimitero da portare nella fragranza dei loro volti, un puzzle di machiavellico ardire, la tracotanza che impera e conquista, destruttura e amplifica il dolore partendo dal punk per finire appiccicato dentro movenze piene di spasmi e fuochi artificiali, nel marasma di un’adrenalina incontenibile.

Sbava in modalità terrifica, si aggroviglia in uno spasmo che fa male alla testa, con pungiglioni continui, relegando il piacere nel teatro morto dell’illusione. Canzoni come grattugie colme di sangue, microscopici attentati che con il passare dei minuti diventano un boato nucleare nei confronti di una pace che a loro proprio non interessa: ancora una volta il Vecchio Scriba porge la guancia a questo misterioso e ribelle gruppo offrendosi come vittima sacrificale, cosciente e felice.

Il ritmo, spesso assassino nella sua velocità corrosiva, si porta dietro bordate di basso, lame di sconquassanti chitarre, il volgare e straordinario drumming, altare seducente di ogni grimaldello fisico.

Quando il pianoforte e i sintetizzatori osano mostrare i loro respiri, si cede a un infarto imprevisto: come druidi senza rispetto giocano con i  nostri sensi, vomitando portate di bellezze straordinarie e al contempo stranianti, dove la commozione si genuflette.

Suse, Friday, Flatty e Rene: questi i nomi di questi furiosi armellini armati che hanno composto un trattato di follia che la scuola di Francoforte, con i suoi straordinari filosofi, avrebbe premiato con una laurea all’alienazione applicata, con bacio accademico.

Ora basta, è innegabile che si debba fare i conti con le singole crepe e inoltrarci in un getsemani che attende di essere respirato, tra ulivi più che mai piangenti…


Song by Song


1 - Nacht

L’avvio è un infarto, Sheffield pare resuscitata, e poi è un groviglio che parte dai Killing Joke mentre plana a Frisco, e perdere il libero arbitrio per essere la palestra dove tutto deve essere preciso, con monumentali e rapidi cambi di ritmo, e un cantato che è secco, sintomatico e abrasivo.


2 - Verschwiegen

Semi primordiali di vapori pieni di artriti che giungono dai Fields Of The Nephilim si palesano nei primi secondi. Poi è sevizia, barbarico e atomico sventramento, con il supporto di chitarre magmatiche e Rene che ci mostra il respiro di Rozz Williams. 


3 - Offenbarungseid

Il Post-Punk ferito, che segue i Bauhaus mentre si truccano il volto, prende la rincorsa per attaccare i nostri corpi, già chiaramente feriti. Tutto diviene una locomotiva piena di profughi mentali, inferociti, che abbracciano la chitarra che non perdona: strappa, cuce, dipinge vascelli grondanti di sudore e gelatina appiccicosa. Il fiato manca, ma si vive una stratosferica gioia nera…


4 - Woanders

Eccola la Germania aliena, irreprensibile, maestosa, inafferrabile, che ci fa aspettare, con i giochi di chitarre e batteria, per divenire rogo e strazio. Il tempo è oscillante tra il 1977 e il 1980, i luoghi sono le vertebre di Londra e Detroit, in una festa Post-Punk di incredibile effetto placebo…


5 - Verbrennen

I Banshees aprono le danze, poi è il cadavere maestoso della band, la sua unicità, a emergere: un brano che è una processione, un armistizio, una resa che conosce le tenebre quando inizia il cantato e il drumming si fa cupo. Restano solo detriti e ventagli caduti per terra…


6 - Fleisch

La testa si china, gli occhi cercano trattati di medicina antica, le note cadono dal cielo come scheletri lenti e pieni di polvere, in uno spettro industriale lento che si trasforma in un omicidio hard-core di disumana coralità, per giungere, in seguito a un trattato di educazione imposta, a giocare con missili Deathrock per poi, again and again, confluire nell’hard-core. Devastante!


7 - Warteschleife

Nessuna tregua, per carità, non si fa, non si deve, e i quattro picchiano, se ne fregano del buon senso civico, e continuano a seminare proiettili, nel caotico girone Dantesco, piazzando zombie nei suoni e sorrisi maligni nelle trame armoniche…


8 - Ausgeliefert

Berlino chiama, Amburgo piange, Brema oscilla, Francoforte aspetta: una canzone che, come un Bignami, fatica a contenere lo scintillio di questi semi neri come vermi gongolanti. Si brama, si attende, si arricchisce, si scalda la pelle del suono in una danza che rende uno straccio ogni pensiero…


9 - Fragezeichen

Il delirio, con la prima parte del brano che ribadisce una metodica nevrotica e ombrosa, la sorpresa di un finale stratosferico, con quel piano che uccide ogni carezza, fa sì che il congedo sia un nuovo shock epidermico, con la storia del primo e blasfemo Post-Punk che emergeva dalle rive del Mississippi, capace poi di penetrare nel cuore della foresta nera tedesca. Un delirio che riassume tutto ciò che abbiamo udito e che rende questo album uno specchio spettrale di clamorose pulsioni e di bellezze macabre e potenti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Marzo 2024


L'album sarà disponibile dal 29 Marzo


https://sabotagerecords.bandcamp.com/album/lappel-du-vide-metro-lp


La mia Recensione: Loom - a new kind of SADNESS

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