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mercoledì 10 agosto 2022

La mia Recensione: Final Body - Nothyng

 La mia Recensione:


Final Body - Nothyng 


Prendi una città, Seattle, e trattala male: il Grunge ha fatto bene solo a lei perché ha tolto visibilità per almeno tre anni a tanta musica che veniva prodotta all’inizio degli anni ’90 nel mondo. E i danni sono stati evidenti. Ora lo scriba arrabbiato volge lo sguardo, con fiducia e amore, a tutte quelle band che anni dopo quel periodo stanno cercando di uscire da quei confini, che cercano di legittimare la loro musica partendo dal desiderio di esplorare generi diversi, di prendere distanze da un’attitudine musicale che forse incomincia a essere una spada di Damocle.

Ciò di cui vi sto per parlare non sarà una band e tantomeno un album che vi farà gridare al miracolo, ma è comunque estremamente importante in quanto pieno di adrenalina, di riferimenti agli anni 80 senza per questo privarsi della possibilità di aggiungere qualcosa di nuovo e di diverso.

È un lavoro variegato, capace di esprimere attraverso le sue canzoni il desiderio di portare nel capoluogo della Contea di King fascinazioni e riferimenti diversi, di condurre i cittadini verso territori dove alcuni sentimenti possano trovare una forma espressiva diversa. Ed è per questo che la mia attenzione si fa intensa, scrupolosa, quasi maniacale. Nothyng è una porta mentale del porto di Seattle che spalanca percorsi, navigazioni e sogni per conoscere modalità che per decenni erano totalmente scomparse: il Post-Punk nella cittadina americana ha avuto accessi numerosi e validi verso la metà degli anni 80 per dover poi vivere l’abbandono e il disinteresse.

La produzione è stata affidata a Ben Jenkins, ingegnere musicale e musicista, che ha saputo dare ai quattro la volontà di curare il suono prima di tutto, di prestare attenzione agli arrangiamenti poi, per conferire al lavoro di debutto caratteristiche di freschezza e forza, con un approccio più inglese che americano.

Le canzoni sono coinvolgenti per lo stile, per l’attitudine di non cercare una hit, vettore dal facile accesso, quasi come se quello fosse il vero concept dell’album: la volontà di creare un discorso di protezioni nei confronti del proprio fare artistico. Non il successo, bensì le idee come minimo comun denominatore.

Inevitabili gli accostamenti, ma non possono togliere all’ascolto la fluidità e l’individuazione di contributi personali. 

La peculiarità più evidente è quella di essere riusciti a dare luce a una musica che ha il DNA ben piantato nelle tenebre: l’elenco di band che potrebbero ricordarci l’origine di questa cifra stilistica sono molte, ma nessuna di loro ha quote cosi alte di bagliori, di sguardi verso il sole.

Elementi di Darkwave, miscelati al rock, circondano le canzoni con in aggiunta, in alcuni momenti, un synth che sposta i luoghi di definizione, per dare maggior ossigeno e chance di allargare la propria radice che è ben affondata negli anni 80. Ed è consolante vedere che non sono dei truffatori, degli opportunisti come gli Interpol o i White Lies, che non hanno fatto niente altro che copiare e incollare senza apportare uno stile proprio come invece è facilmente individuabile con i Final Body. Sollievo, gioia, felicità che contagiano perché, per quanto siano riconoscibili le radici, i rami profumano di novità, le foglie hanno colori e sostanza diverse.

Poco più di mezz’ora di ascolto per dieci canzoni che danno l’impressione di essere velocissime: il tempo è una variabile che non appesantisce, ognuno può sentire l’incanto e il desiderio che si concentra su una composizione piuttosto che un’altra, ma non si ha mai l’impressione di essere imprigionati nella pesantezza. Le ombre dell’esistenza arrivano più nei testi che nella musica, perle di saggezza che considerano una realtà che si sta riempiendo di distanze nei rapporti, per rendere, alla fine dei conti, l’esistenza più pesante.

Allo scriba non resta altro che puntare le canzoni e mostrarle, per avere un quadro negli occhi e una mano salda nel cuore…



Song by Song



Agitated


La trama del synth scorre sino a quando tutto diventa Post-Punk, il cantato spinge gli occhi a danzare, sino a quando le chitarre si elevano e in certi momenti il fantasma di Adrian Borland emerge per scuotere i nostri nervi. La drammaticità attraversa i muscoli e la mente accende il cero in cerca di una calma interiore che non arriverà.



Satin


Se l’inizio il brano ricorda i Cure di Seventeen Seconds, poi tutto si sposta tra The Sounds e O.M.D., ma non temete: i quattro di Seattle sanno concedere a loro stessi per primi un bouquet di rose fresche, non troppo imparentate con quelle degli anni 80, basta saper ascoltare gli intarsi della tastiera, il basso nuvoloso che spinge la canzone verso la modernità.



Lose Health


Ed è magia, la stanza si riempie di mistero e dolore, la voce sale in cattedra, gli spazi vuoti sono sfiorati dalla chitarra in odore di Sua Santità Robert Smith e poi lo spazio che il synth si prende allarga il cielo con una nuova ferita. Incantevole, saprà sedurvi.



Save Your Breath


Il cuore si accende di rugiada con Save Your Breath: tutto qui profuma di prime ore del mattino, con un invito a salvare il proprio respiro e questo concetto, scritto prima dell’avvento del Covid, pare una premonizione. Dal punto di vista musicale, notevole il gioco di alternanza del lavoro della chitarra, con il basso che si contorce su un giro che offre echi di Killing Joke, mentre il synth offre alla band la possibilità di separarsi da facili accostamenti.



Curtains


Eccola la canzone che vive di se stessa, forse anche per se stessa: una rondine che vaga per il cielo di Seattle, offre il suo battito post-punk puro, quasi in modo morbido, sebbene il ritmo sia veloce, forse causato da un cantato sensuale.



Life Person


Un gattopardo sonoro avanza nella notte, la voce sembra quasi uscire dall’ultimo album dei The Doors mentre le note sono brividi di pace, sino a quando, alzandosi il ritmo, tutto sembra dirigersi verso Londra, anno 1981. Le linee melodiche sono diverse e perfettamente collegate tra loro, riuscendo a dare alla canzone la sensazione che un missile dalla faccia pulita sia passato a salutarci.



Shadow


Altro esempio brillante di quanto in questi anni chi decide di risiedere nella zona del post-punk possa escogitare il sistema per colorare il passato, navigando dentro le perle del passato per poter concimare le proprie illuminazioni emotive.



Devil


Aggressiva, dall’impeto vigoroso, Devil ci porta una band volenterosa di affrontare la parte più teatrale del cantato e di schegge di Australia che echeggiano chiaramente per questa tensione che sospende uno strumento al fine di dare spazio ad un altro e poi riunire il tutto in un movimento tribale.



Run Away


L’elenco qui potrebbe essere infinito, se viviamo solo della volontà di trovare dei riferimenti (vincerebbero almeno quattro band), ma poi, dato allo studio la possibilità di scovare materie prime, queste arrivano: il brano è una frustrata di aria fresca che riesce a paralizzare le quantità di elementi che arrivando dal periodo 1982-1983 potevano annullare il senso della scrittura di questa gemma.



Beg


La sorprendente Beg conclude questo album: si evidenzia chiaramente la volontà di scrivere una goccia di sangue con il sorriso, per un’atmosfera che pare essere quella di una gioia che sopravvive alle intemperie. Diversa da tutte le altre, questa stella finale sembra aprire al futuro della band scenari diversi, una decadenza solo accennata, concedendosi una delicatezza cucita con l’abito grigio.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

10 Agosto 2022


https://finalbody.bandcamp.com/album/nothyng


https://open.spotify.com/album/515fpoV8n7A0gPjURLEPWo?si=g2tAEKfUQqa_3Dtti6Blsw






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