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giovedì 27 marzo 2025

La mia Recensione: David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


 

David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


Un’ombra umorale sale dal cielo di Cambridge (lo fa da tanti anni), in costante dilatazione, usando forme artistiche diverse, prendendo il coraggio, il lavoro, il talento e la sfortuna sotto l’ala della sua splendida e ostinata necessità di non lasciare il mondo senza le sue ossessioni, dolcezze, integrità, volontà di fare del proprio mantello lo sguardo della sua purezza.

Questa espressione della natura ha un nome: David Middle, un corsaro gotico, cinematografico, a tratti un mimo della vita, altre volte un cabarettista che sfida il nero trasformandosi anch’egli come il più vorace dei colori. Per avanzare, fermare il tempo, costruire barriere coralline con la sua filosofia diretta, le sue corde vocali acute, spigolose, saggiamente tremende e implacabili, in ebollizione, una polveriera che saccheggia la calma e la conduce verso un atto di fede agnostica…

Un album da solista, mentre la sua anima non ha mai mancato di collaborare con band e progetti paralleli, è una scelta che rende più specifico il suo flusso cosciente, in una modalità che gli permette un focus indiscutibilmente forte e circostanziato ai suoi testi così potenti e in grado di trasformare la realtà, le paure, il silenzio e la memoria come i piloti di un palazzo mentale che mostra in modo ineccepibile.

Usa strategie note in modo inusuale, colora le trame sonore con il vento di una ispirazione continua, spaziando da Klaus Nomi, ai Virgin Prunes, a Rozz Williams, al più cupo Alice Cooper, arrivando a sfiorare la spalla di Genesis P-Orridge e il mento di Marc Almond. Ma è solo l’inizio, una falsa pista, in quanto David ha praterie proprie, come le sementi del suo pensiero così autonomo e originale.

La vita e le sue pene non sono raccontate bensì vissute in contemporanea, come se tutto accadesse mentre ascoltiamo e questa sensazione, divina e massiccia, lascia petali neri sul nostro respiro, rendendoci consapevoli di una dipendenza a cui in fondo non si sperava di avere la fortuna di assistere…

Si può, in questo modo, riflettere su come la pochezza degli strumenti usati in realtà aprano le porte della percezione, dando alle nostri menti lo spazio per allargare la necessità di far fluidificare questo pentagramma che invece di essere povero è ricco di grandi suggestioni. Tasti in bianco e nero e una sequenza teatrante di movimenti che accolgono archi sintetici e handclapping che suggeriscono il silenzio attorno a essi: Middle è un mago fuori da questo tempo, scevro dai condizionamenti, così barocco nella sua fertilità che non accetta forzature da parte delle forme espressive del presente.


Costruisce sentenze che, voraci, danzano nella sua ugola graffiando la volta celeste, l’unico vero paradiso che vede il suo laboratorio essere una cascata di pensieri imbottiti di incantevoli giochi di luce, dove il chiaroscuro è solo lo start dei suoi bisogni artistici, poderosi e olfattivi, sensoriali in quanto l’orchestra dei suoi battiti finisce per invadere tutto, con calma e una disperata intelligenza.

Un album per anime abili nel farsi avvolgere, coinvolgere, per sospendere la parte che si rifiuta di capire l’intensità, il dovere della coscienza, divenendo un distributore di scintille razionali che abbracciano la purezza di sentimenti caduti nella solitudine non voluta. Il connubio tra la musica e le parole risulta così essere un perfetto mantra con il quale cadere nella piacevolezza del dolore.

La ricerca armonica mostra integrità, conoscenza delle modalità espressive e un grande rispetto per quella parte della storia musicale che l’odierno non conosce e non rispetta. David si rivela così un combattente con note come pallottole gentili, mentre le parole sono sciabolate a salve, in grado di centrare lo spazio che sta perfettamente a metà tra la mente e il cuore.

L’artista rivolge l’attenzione verso la natura, misurando distanze e similitudini, coinvolgendo la strada della descrizione armonizzando il proprio spirito complice, maturando con la musica un legame intenso, quasi muto, per poter vivere liberamente una connessione con entità sicuramente più buone. 

Si ha sempre l’impressione di una maturità che induce David a cullare le rughe della propria mente spingendolo verso una forma quasi segreta in cui essere custode e rabdomante, alla ricerca di verità, seppur scomode, ma gestite con autorevolezza.

Quando si ha l’impressione che voglia seminare petali neofolk si avverte una sacralità pagana forse anacronistica, che però offre la misura della sua estensione culturale, e la sua lingua sa essere un dolce veleno che rovesciandosi diventa amaro: miracoli come infissi nel buio…

Accade poi di sentirlo congedarsi dalla vita (nella maestosa Ode to Jacqueline) si avvertono brividi, come se un amico se ne andasse, ed è uno dei momenti più toccanti con i quali si deve fare i conti. La sapiente volontà di donare melodie che si fissano nella mente comporta il fatto che pure le parole facciano lo stesso, finendo per dilatare i centimetri del nostro ascolto.

Le orchestrazioni, minimaliste e mai pompose, danno anche la misura di una produzione curata, in grado di farci avere l’impressione di un racconto in musica che va riletto e riletto ancora: nemmeno una sillaba di bellezza va persa in questa opera meritevole della migliore accoglienza…


Song by Song


1 - No One Hears Me

“Pull me out from the drowning mud”


Una danza appare, nella notte, per essere un racconto tra ansia e sogni mancati. La musica è un gesto balsamico attraverso tasti battenti con morbida propensione verso il registro basso…


2 - Climbing Stairs

“Every fall is a lesson, every climb is a spell”


La contrapposizione tra le note grevi e lente del pianoforte e il cantato di David creano un lampo notturno nel quale cadere con dignità. Un brano che pare arrivare dalla tensione teatrale e cabarettistica del miglior Marc Almond. Ed è apoteosi in ripetizione…


3 - Help Me Please

“I, see faces, but memories still fade”


La memoria qui trova una clamorosa centralità e la cavalcata del basso e il contrappunto del piano ci riducono in brandelli. E poi quella invocazione, che si trasforma in un mantra da tenere nel circuito segreto delle nostre colpe. Un capolavoro senza tempo…


4 - The Whispering Wings

“Underneath the whispering trees”


Il teatro francese sale sul palcoscenico, si cambia l’abito e diviene un eco inglese del Millesettecento, con un’apertura alare del ritornello che pare essere un monito, in cui il terrore afferra i sogni e li uccide…


5 - Final Witness

“Scared to last you 

never rest”


Si danza e senza il drumming è pure meglio: sulle punte, come ballerini classici, mentre il testo compie una panoramica sostenuta da una voce che si fa ago piangente…


6 - Ode to Jacqueline

“My time has come, and now i know I said goodbye”


Il ritmo rallenta e i tasti sentenziano, per poi aprire le braccia dentro un circolo di luci amorose piene di tensioni, inviti, sino al finale con un addio che traduce perfettamente uno spartito così volenteroso di essere riconoscente alla musica classica, che qui si fa ancora più evidente e necessaria…


7 - Gothic Candles (Midnight Mix)

“Through the darkness, we journey hand in hand”


David ci porta costantemente nella notte, nel buio, per attraversare le illusioni dei sogni e le più evidenti e reali forme dolorose, con un’ambientazione musicale gotica, come se Rozz Williams lo incitasse a non perdere la teatralità perfetta del suo cantato… 


8 - Walking with the Dead

“In my heart, the dead will stay”


Una prodezza, un nuovo tuono nel cuore e nella testa, per questa ouverture che diventa una piacevole tortura, che cerca di trasformare un volo libero in un doveroso schianto. Tutto qui odora di definitivo, come se davvero la convivenza con la morte potesse essere l’unica gioia. 


9 - Our Broken World

“Our innocence lost in the hands of fools”


Il cantato iniziale ci riporta ad Hallelujah di Leonard Cohen, ma poi tutto si sposta e si entra in una drammaticità solare, in un contrasto giocoforza ragionevole, e la musica rende il tutto perfettamente coeso e intatto…


10 - A Hollow Heart

“But through the tears, I’ll find my way”


La disperazione è obbligatoriamente un processo lento. E invece David la rende quasi una fase allegra, veloce, dalla voce leggera, e la musica che pare fare il solletico all’inverno…


11 - Dark Love

Il brano più raffinato, più teso e drammatico giunge quasi alla fine dell’album, lasciando petali dandy nel testo e spunti musicali che attraversano le epoche e gli stili per poi farci sentire il gusto amaro di un amore pieno di tenebre…


“A symphony of lust, makes your heartbeat tight”


12 - Mood Swings

“I laugh until I cry”


Una voce filtrata, come mai prima, fa da apripista all’ultima canzone, che è come un epitaffio nascosto, sepolto da una musica angelica con sfumature, in modo emblematico, drammatico. Ed è un soffio dolce che spegne la candela, che subito però riaccendiamo per riascoltare questo album così delizioso e significativo che è un peccato madornale trascurare…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Marzo 2025


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/a-goth-a-piano-songs-of-sorrow

venerdì 21 marzo 2025

La mia recensione: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


C’era una volta e c’è ancora un luogo nel Wiltshire, nel sud dell’Inghilterra, non lontana da Bath, una località resa famosa da una formazione post-punk e darkwave (Bolshoi), che di nome fa Trowbridge e che ha portato per un pò, nel suo ventre, le prelibate peripezie del quartetto.

Nel 1990 la band si sciolse e ora il Vecchio Scriba si accinge a portarvi in un oceano in fuga, lenta, verso il cielo, con una miscela armonica che ha richiami antichi, delicati, profumati, dove il folk, la psichedelia, la pelle inumidita di Alternative e Indie Rock fa da base per un circolo razionale inevitabile. Le undici canzoni sono state scritte durante il lockdown, a distanza: Florida chiama, Seattle risponde, in un percorso solo fintamente separato. Le idee, gravide di umori e maturate esposizioni all’addensamento di pensieri a braccetto con la filosofia, vengono rese libere dal talento, dal lavoro sul senso, sulla schiena di storie dall’involucro protetto dai suoni che spargono tenerezza e curiosità. Molti i luoghi su cui le canzoni planano, molti i riferimenti in  cui si potrebbe trovare un sorriso, un sollievo, ma, soprattutto, grande è il perimetro dei versi, degli arrangiamenti, del cantato, del flusso energetico, dei raggi di sole che fanno dei Bolshoi di un tempo un piacevole ma non essenziale ricordo. 

Trevor Tanner, come sempre chitarrista e voce, disegna, attira l’ascoltatore nelle sue praterie mentali, mentre Paul Clark (tastiere) è il grande artefice di questo caleidoscopio, di questa foresta che cerca di catturare la luce per nutrirsi di speranze. E le loro nuove residenze, americane, hanno favorito un parto artistico nel quale, tra i due poli, vengono compresse sensazioni, dolori, impeti e una folta vegetazione sensoriale: un album come uno slancio che non conosce direzione, per dar senso alla vera libertà.

È rock che sembra nato dalle bave di Lou Reed, dalla psichedelia australiana della seconda parte della carriera dei Church, sino a chiamare a sé il periodo degli anni Novanta di band inglesi che riprovavano il brivido della sponda americana che si ispirava specificatamente a quella di Boston. E quella della band inglese Eat. Inoltre vi è presente l’ebbrezza data dai lavori di gruppi vicini allo slowcore, specialmente poi quando nei ritornelli a prevalere è un senso malinconico.

Non sono assenti gli antichi petali cupi, le bordate di tossine ma il tutto è più levigato, con la capacità di entrare anche nelle zone del country, quasi come una sfida, facilmente vinta, in quanto i due non hanno mai mancato all’appuntamento con l’ironia (come nel brano Cowboy Chords). Però in tutto questo esercizio artistico, le chitarre sono sempre lontane dal voler inghiottire il tutto: sono generose, attente e scrupolose, volenterose nel tradurre il passaggio delle loro esistenze. 

Ci vuole coraggio per scrivere un battito di ali, quando prima si descrivevano passi insicuri nella notte buia delle strade di Londra.

La testimonianza dell’età adulta, di un percorso che cerca lo sviluppo non può legarsi alla nostalgia.

Ci sono elementi di contatto con un’idea gloriosa e pericolosa: orchestrare l’esistenza con canzoni come una matrioska con l’intenzione di un contatto, come se i brani fossero pagine all’interno di una biblioteca vogliose di entrare nei palmi delle nostre mani.

Quando poi arriva Beautiful Creature si capisce come la radice rock americana sia capace di rivelare il lato post-punk di un tempo ma rivestito di una pellicola luminosa vicina all’incanto di un miracolo, perfettamente riuscito. Forte è la presenza degli anni Novanta in almeno la metà dei brani, tuttavia non come limite, bensì come palestra muscolare di assoli in grado di riportare il suono nel luogo che gli compete. E poi i Blue Aeroplanes che spesso fanno capolino, come lo fa la sensazione di un cabaret pop in cerca di un applauso timido, e il recitato di Trevor sale sul palcoscenico della pazzia, con citazioni, riferimenti davvero notevoli. Si danza con consapevolezza, si sorride e si trovano lacrime generose nella splendida e conclusiva This Town, vero gioiello intuitivo, capace di sorprendere e trascinare nell’intima località del ragionamento ogni  paura…

Fulcro, baricentro e freccia libera di separarsi dalle prigioni è la mastodontica Platitudes of Scorn, un trattato biologico, un vocabolario di bellezza che, partendo dalla psichedelia inglese, atterra nella ballad claustrofobica americana, per divenire il pezzo su cui collegare il lato solare e quello cupo dei due artigiani musicali, qui in totale armonia, per dare non solo al brano ma all’intero album un senso di epicità inevitabile.

Hanno colto il senso dello spargimento del tempo e lo hanno lasciato libero di voltare loro le spalle, senza acredine, senza eruzioni inutili di rabbia. Una clamorosa disciplina, resa possibile dalla loro stessa produzione, fa sentire il tutto come un lungo soffio dalle undici piume, dove ognuna rincuora le altre.

Piccole scintille del loro passato  si possono trovare nella penultima composizione, Built in Obsolescence, un crocevia, una pillola che dalla mente di un passato prova ad arrivare alla realtà. Amniotica, nevrotica, elettrica, è sicuramente epidermica in quanto sa come tenere un lasso di tempo enorme comprimendolo in un minutaggio che, seppur breve, è molto rappresentativo per quanto concerne il periodo che fu per loro glorioso.

Non si può rinunciare a Suburbs, quel secondo incanto sonoro che mette i brividi, per la scrittura che brucia le ostilità e ridà senso al vivere della provincia, a storie che rischiano di rimanere inascoltate.

Si può fare a meno del passaporto ma non dell’identità: ecco che la già citata This Town rivela antichi amori rimescolati (The Velvet Underground), che in un momento di freschezza riescono a ingannare il movimento delle lancette dell’orologio, per poi trasferirsi verso i Beatles e l’Inghilterra, per un ritorno a casa.

Che è perfettamente il fattore dominante di questo disco: partire dal limite (il lockdown), per trovare una nuova residenza: quella dentro di sé, per un risultato clamorosamente armonioso e intenso…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers






giovedì 6 marzo 2025

La mia Recensione: The Slow Readers - Out Of A Dream


 The Slow Readers Club - Out Of A Dream


Mani, tracce, odori, profumi, proiezioni (alcune dirette, altre inclini a una diplomatica forma di relativa esibizione), portano il tutto a concentrare il pensiero come il punto finale di una escrescenza in fase di esplosione: esistono fatti che non si raccontano, il mondo non è pronto, e un doveroso silenzio si inginocchia innanzi a una tecnologia diventata rapidamente il baricentro di un vuoto in avanzamento.

Potevano i Mancuniani The Slow Readers Club esimersi dall’esporre il dolore, la rabbia, la preoccupazione, dal descrivere l’impazzito mondo?

No di certo, e in queste nuove dieci canzoni non hanno trascurato di adoperare il costato grondante di sangue e trucioli, con un lavoro che recupera l’antico ardore della band, spiazzando dopo il loro album di due anni fa che aveva seminato sorrisi, segnali di pace, ed esponendo il gruppo di Manchester anche a uno schieramento politico.

Ci ritroviamo con il singolo individuo al centro, in una peristalsi emotiva che non si camuffa in uno scarto, mantenendo, sfortunatamente, il tutto nel corpo di una mente senza punti di riferimento. Tolgono spazio alla fuga e ci invitano all’introspezione, al considerare ottiche che pensavamo non fossero più necessarie.

La musica annuisce, prende in prestito vascelli, ruscelli, brandelli di luce e semina petali doloranti, con un innesto maggiormente moderato dell’elettronica e tuttavia trovando il giusto compromesso per permettere ai flussi sonori di precisare i testi di Aaron Starkie, qui, forse più che mai, il vero protagonista dell’album. Una danza moderata, con due brani che scuotono le gambe, anche se nel complesso si ha la sensazione di farla con una spada di Damocle sulla testa, il che rende tutto pericoloso. Non vi è gioia in questi versi, nemmeno nelle note, donando un miracolo di netta e pura sincerità, nessuna falsità, in quanto il gruppo di Manchester ha messo da parte quello che ora non ha più senso: nessun inganno di sicuro permea queste composizioni che, invece, stipulano un contratto con uno strategico percorso nel tempo. Avanzano, indietreggiano, ma mai ancorate al precisare il come. Questo rende l’opera un’operazione costante nei confronti delle pretese: i fans rimarranno di stucco, probabilmente non felici in quanto mancano quelle canzoni veloci che entrano dentro il cuore. Tutto è più lento, profondo, maturo, ed è una essenziale forma di riscatto nei confronti di chi finge rispetto a  chi ama per davvero.

Brani come fari notturni, con le acque dell’oceano del vivere che tremano, infreddolite e sconsolate: vi è un mondo che prende spazio (quello tecnologico per intendersi) che preoccupa perché sa come oscurare i rapporti, i valori e il tempo.

Il conflitto diventa grido, emarginazione, scempio e la musica il binocolo di una coscienza che traballa, mentre la gente attorno balla senza coscienza.

I lettori sono ancora più lenti, curvi, con gli occhi ingobbiti di Aaron, intento a descrivere approfonditamente ciò che è incline a modificare una storia che ha deciso di cambiare per sempre. In peggio.

Canzoni testimoni.

Canzoni timoni di un avanzare stordito.

Canzoni come sberle mute, senza lividi sulla pelle.

Si evidenzia l’attenzione a moderare l’aspetto volto a trascinare la folla nel luogo della condivisione: le note sono cumuli di nebbia, così come le parole sono sanpietrini che tolgono sicurezza all’equilibrio, sempre più precario. 

Si fa necessario un silenzio opprimente, con la solitudine come eremo interiore, rimanendo ancorati a una socialità come baluardo di una nuova contraddizione. Le bugie, le promesse non mantenute, l’amore propenso a dissolversi sono i temi principali di un concept album visuale, criptico, ma così tanto affascinante da stordire pienamente. 

Per riuscire a trasportare tutto questo in note, accordi, assoli, la dinamica principale mette l’accento su un’accortezza mai notata nei precedenti lavori: piani sonori come piallati da un maturo senso dell’ordine, in un mantra meno esibito, però sviluppato attraverso arrangiamenti carichi di poesia e di una quota abbondante di un nuovo veleno, creato dalla band stessa…

Lo smarrimento genera paura, la paura che esce dalla coda di questa finta evoluzione finisce nei solchi di un vinile che pare una pietra in cerca del suo giusto vuoto, ma vince la volontà di non inchinarsi, nella ricerca di un dialogo senza presa ma a ogni modo preferibile.

La voce di Aaron trova le correnti ascensionali che lo conducono a mostrare le corde vocali piangenti, in un cammino osceno di arricchimento e stordimento, con il falsetto che prende ancora più spazio, con parole che paiono essere paralizzanti ma mai frutto di un flash o di un errore. Piuttosto: ha trovato il modo di elevare la sua già ricca capacità di scrittura e, così facendo, ecco diminuiti slogan e frasi a effetto, per collocare invece le sue visioni in un circuito sensato, fluido, amniotico, introverso, però sempre nei pressi di un lampione con gli occhi tristi e preoccupati.

Il climax viene addolcito (solo apparentemente) da un paio di ballads che, però, alla fine diventano una via crucis in cui le spine sembrano entrare perfettamente nella carne di pensieri che faticano a rimanere forti…

C’è una forma di disciplina, di costruzione di un senso che riesce a galvanizzare il Vecchio Scriba, e lo si intuisce quando la band prende in considerazione l’autocitazione nella rovente Loved You Then che, con Dear Silence, è l’unico episodio in cui il ritmo, veloce, porta tutto via, come se le parole fossero meno ottundenti.

Perimetrale, introversa, caduca, quasi genuflessa, questa manifesta intenzione di adoperare l’arte del confronto che non teme l’affronto diventa l’unico gancio, l’unico modo per portare gli ascoltatori in un abbraccio necessario soprattutto davanti alla devastante Our Song Is Sung, probabilmente il momento più intimo dell’intero catalogo della formazione mancuniana. La voce, l’arpeggio, il synth in ginocchio diventano una poesia operativa che scuote, abbatte e riduce a brandelli ogni resistenza possibile…

Si diventa orfani, prigionieri, bambole, transistor disattivati e quindi liberi di pensare, di ricondursi alla ragionevolezza: dieci ceffoni che alzano l’orgoglio e lo sparpagliano nelle zone buie di un dolore in difficoltà.

Un disco di questi tempi, visti, descritti e portati nel soffitto, per illuminare i passi…


C’è una spina che va tolta e una nuova inserita: probabilmente questa colonna sonora vi condurrà a scegliere, a negarvi la complicità con la stupidità e non vi sarà null’altro che un oceano con l’intenzione di tornare vergine…




Song by Song



1 - Technofear

‘You’re talking too loud I can’t get no sleep’

La guerra cambia faccia, strategie, si inserisce nei corridoi dell’incoscienza e spara, dritta al cuore. I Readers trovano la sintesi, non solo fotografano ma insistono, gettano nel ritmo parole che confondono, assottigliano la verità in una canzone che nel ritornello fa esplodere la sua forza come una fragilità inevitabile, anche grazie al coro che appesantisce senza cedere…

Le chitarre si piegano, lasciano il fraseggio del synth, ma rimangono cucite con il loro ardore post-punk a sigillare una fede assoluta..


2 - Animals

‘And so we shelter here that life outside has got so hard’

Echi di Abba, di Blur, di OMD aprono il palcoscenico per ospitare un sincopato teatro dove l’amore passionale cerca un incantesimo. Ed ecco la coppia sotto la luce della modernità generare fragilità mentre, dal canto suo, la musica prova a tradurre il tutto variando poco e lasciando alla chitarra di Kurtis il compito di ricordarci The Edge ai tempi di Boy. Tutto è fissativo e gli accordi cercano la strada più corta per non ferirsi, riuscendoci in pieno…



3 - Little White Lies

‘Our day is coming, our love is built to last’

Sorprendente, genitoriale, ammaliante, lenta, lontana dal cliché della scrittura dei quattro, dimostra come insistere su un concetto minimizzando ogni ipotesi che differenziarsi sia una scelta obbligatoria. Si ascolta così una poesia che trema mentre un loop rovista, il drumming semplice fa cullare i passi e il basso protegge, con Aaron che porta la sua voce a due passi dal paradiso, che attende la coppia descritta nel testo…




4 - Dear Silence

‘Stepping outside the rubicon no rules apply no law this is fight you fight alone no turning back no more’

Ciò che si invoca ha la consapevolezza di un potere in fase di sviluppo: ecco il silenzio avanzare come ipotesi, come colla, come incipit, come beneficio, come disperato luogo da visitare. Il ritmo è deciso, le rime abbagliano, il significato stordisce e si viaggia nei primi anni Novanta con il suono del treno dei Kraftwerk.  Energica, questa gemma sa offrire miglia di evasioni come una fionda che sa tornare in fretta al domicilio sonoro dei primi tempi di questa formazione. I “vecchi” Readers qui si presentano ed è gioia per chi non sa amare la loro evoluzione…



5 - Know This I Am

‘Know this I am, know this I am, I am the face in the mirror - haunted’

Una chitarra arpeggia nel vento, la nebbia scende nelle corde triste di Aaron, i brividi si affrettano a compattarsi e, quando il cantante prende il registro alto, ci si ritrova a essere cuccioli fragili, con la morte che bussa nelle retrovie della mente…

Drammatica, rivela un cavernicolo totalmente tormentato, diventando un assassino che si culla beatamente nell’esplosione trattenuta di una chitarra che sembra un pugno di sale,  mentre il drumming pare essere un messaggio di Giove…

L’amore, la fede, la speranza mutano per essere proiettili che sanno creare un inaspettato conflitto.

Devastante…



6 - Boys So Blue

‘Fake a laugh, paint a smile, boys in pain all the while, all an act, oh what can I do’

Le cicatrici: come metterle in musica?

L’alcol, la droga, il sesso, prendono piede nella mancanza di rispetto e si ritrovano protagonisti di questo brano che, come una inaspetatta overdose, cerca l’applauso della morte.

La tastiera all’inizio ci riporta a Cavalcade, e poi ecco la chitarra semiacustica divenire il canto assoluto che paralizza ancor prima di quello effettivo di Aaron. È un brano urbano, arcigno, che prova a essere gentile con la bruttezza, vincendo a mani basse…



7 - Pirouette

‘I’ve grown accustomed to thе life I was given, while taking hits from all sidеs’

L’Everest decide di fare due passi, o meglio, di danzare, per portare il bacio sulle tempie di una ballerina che viaggia nella visione di un arrivo mai concretizzato. Persiste la speranza nel futuro mentre una nuvola cupa porta il brano a un ritornello che fatica ad arrivare, con consapevolezza, per scelta, per alleggerire solo al  momento giusto una tensione evidente.

L’elettronica dei Readers qui risulta pienamente disposta a prendersi i riff di chitarra di Kurtis che svetta e porta l’Everest a riposarsi felice…



8 - Puppets

‘We could have been anything but world revolves around greed again’

A dieci anni di distanza da quel Cavalcade che li aveva portati nei circuiti alternativi, il terz’ultimo brano pare ribadire il concetto che gli anni Ottanta sono quelli nei quali si può saccheggiare, ai quali si può volgere lo sguardo. È un momento tristissimo, intrigante, con un tappeto sonoro su cui stendere l’avidità e l’odio con l’unico vero solo di chitarra di tutto l’album, in cui il cuore decide di andare in apnea…




9 - Loved You Then

‘Loved you then but I hate you now does me good just to say it out loud’

Il treno arriva, chitarre e synth in combutta, note acute, lancinanti, il freddo polare che entra nel testo, in un mondo dominato dall'avidità la band decide di esplorare il recente passato e di truccargli i fianchi.

Rapida, incisiva e mantrica…



10 - Our Song Is Sung

‘Searching my mind to find something to say get out of here’

Ed è la fine. Che rimane, implacabile, in versi e note in tinta pastello, per generare lacrime e smottamenti, con la morte che apre le braccia, sorridendo, mentre il cantato spazza via i sogni, in un synth che circonda il dolore con notte piumate, e la chitarra scandaglia gli artigli con dolcezza, in uno iato struggente e paralizzante. La più triste canzone di sempre dei Readers chiude questo album e si fatica a immaginare un brano che sappia condensare la verità con maggiore capacità di questo. E il falsetto, i brividi di una rullata che spazza via la luce fanno di questa chiusura una benedizione.

E si torna all’ascolto della prima per ingannare noi stessi, mentre la verità i quattro l’hanno incisa per sempre…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

5-3-2025

La mia Recensione: Loom - a new kind of SADNESS

  Loom - a new kind of SADNESS “All things fade all things die no more temptation no more fascination” Un viaggio con le lancette piene di i...