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giovedì 18 aprile 2024

La mia Recensione: Adrian Borland - Beautiful Ammunition


 

Adrian Borland - Beautiful Ammunition


“Lo stress, l’ansia, la depressione nascono quando ignoriamo chi siamo e iniziamo a vivere per piacere agli altri “ - Paolo Coelho


Ci sono anni che assomigliano a delle tempeste, precipitose, vogliose di resettare il sistema Terra, in tutte le sue funzioni.

Nel 1994 uscirono Superunknown dei Soundgarden, No Need to Argue dei Cranberries, Grace di Jeff Buckley e venne registrato l’Unplugged dei Nirvana.

E poi Adrian Borland.

I cantanti di tutte queste formazioni sono anime che ora si esibiscono nel cielo, tra disagi, agi e perlustrazioni per noi inaccessibili.

Se il Vecchio Scriba deve scegliere quali, tra questi  album, hanno saputo miscelare meglio il sogno, la positività, l’ombra, il gelo e il disgelo, il flusso di impeti in cerca di luce, è indubbio che quello dell’ex leader dei Sound sia quello a cui guardare con più profondità, dato l’enorme flusso di elementi che ha reso il suo terzo ma primo vero disco solista quello più vicino al miracolo umano. 

Vi sono segnali di arcobaleno, schizzi di una mente che cerca di riparare i danni di un circuito leso e indebolito da abusi precisi, come sono anche presenti paracaduti, fionde, il sudore di una slavina che nella scrittura della musica cerca uno specchio sincero. Adrian crea un insieme di canzoni con l’intenzione di ripararsi ancora di più dalla disillusione, lui che aveva investito sogni e realtà per portare il suo talento sul palco del mondo. Non aveva fallito, così come i suoi compagni di viaggio che avevano fatto dei Sound dei cavalieri dalla bella divisa ma perdenti. Qui sembra di vedere (finalmente, aggiungerei) uno scrittore in grado di adoperare ponti e riflessi per attingere a generi musicali poco praticati o difficilmente associabili al suo percorso. Coraggioso, epidermico, intransigente, dolce, romantico, non manca di dare pennellate della sua psiche frustata e frustrata, ma con l’intenzione di mettere una candela nei versi e soprattutto nell’impianto sonoro, dove le chitarre semiacustiche prendono il sopravvento e prova a giocare con i cambi di atmosfera, di ritmo, per condurre la sua potente sensibilità nei bordi di una costruzione più pop e cantautorale, sfiorando i sentieri di Leonard Cohen, Tim Buckley e Neil Young. Niente paragoni, ma solo l’intenzione di mettere in evidenza la vera indole di un’anima che cerca di alleggerire le lame taglienti della sua chitarra elettrica e della sua voce, che, in questo lavoro, si attesta su un registro medio-basso e quando cerca il cielo lo fa senza gridare, piangere o intenta a far sentire la mancanza di ossigeno.

Il pronome personale Io viene utilizzato all’interno di una quasi totale assenza di interlocutori, e sembra di trovarsi nel vascello di uno Storytelling pieno di acqua da cullare, curare e spargere lontano da quelle dita che in questo disco preferiscono deviare la corrente elettrica per favorire luoghi in grado di offrire un minimo di serenità. Se si scava all’interno dei testi l’amarezza, la delusione, la rabbia vengono sostituite dall’impotenza, la rassegnazione e una incredibile positività che sbuffa, spinge, vuole emergere e nuotare in quei giorni che paiono costruiti per dare ai suoi piedi una strada più sicura su cui camminare.

Assistiamo a un processo concepito ed eseguito quasi totalmente da Borland, mostrando eclettismo, determinazione e la volontà di quella intimità che in qualche modo si era sempre negato. Rispetto ai primi due lavori senza i Sound questo pare essere un colloquio riservato con una mente che si sgancia dai propri cliché per strutturare nuove ipotesi. Certo, la produzione è vicina alla perfezione, le canzoni, pur non mostrando l’idea di essere inclini alla zona della conquista della massa di ascolti (non ha mai corso il rischio, per dire la verità, e sicuramente è stato meglio così), sembrano affermare una indipendenza, come se il momento dovesse essere storico soprattutto per loro. Ma si ha una strana sensazione: si avverte come le sedici edere siano piene di un veleno dalla faccia ingannevole, come una truffa che il rock non può più permettersi. Adrian cerca di scrivere ballate atipiche, spesso forza il colore del suono, alcune volte impasta la zona acustica e quella elettrica come un clown che gioca, maldestramente (ma solo apparentemente) con il dolore, per poi pentirsene e tirare giù la saracinesca e farle immergere nel solito buio…

Si piange, con una levatura spirituale indenne dallo scorrere del tempo, per sorridere e abbracciare il futuro e poi quella canzone nella quale sembra dipingere un raggio di sole mai visto prima: la porta è aperta…

Ma Beautiful Ammunition è un coriandolo che conosce il modo di perdere i colori, di cadere velocemente, di finire incastrato sotto il tappeto, di appiccicarsi alla pelle, come un piacevole fastidio da cui è impossibile separarsi. Il suo cantato fa flettere i famosi nervi, calcola spazi nuovi, perlustra traiettorie visive inimmaginabili e pare correre lentamente, in un ossimoro doveroso e alla fine straziante.

Niente da fare: la sofferenza non l’ha abbandonato ma gli ha permesso, perlomeno, di alzare lo sguardo e di fargli credere che il presente e il futuro non sono più nemici che si guardano in cagnesco.

Quando i toni si fanno drammatici, la paura ci stringe il cuore, si diventa complici della sua fragilità e le lacrime si mischiano.

Il lavoro più delicato nei testi è accompagnato da graffiti sonori che sembrano lontani dalla drammaticità, ma spesso si nota come nessuno possa rinunciare all’altro: la guerra delle parole, le quasi farneticazioni, i punti più bassi, vengono come redarguiti dal pentagramma che vorrebbe una scrittura svincolata dalla tristezza. Missione impossibile, ma tutto ha rischiato di raggiungere i colori della maschera di Arlecchino. Quanta bellezza, inconfutabile, offre questo esercizio, questa lotta con il tatuaggio di un armistizio, che si palesa nella totalità di un album che non fotografa ma scrive il destino, come una identità postdatata che troverà la sua precisazione e la sua eterna forma dolorosa il 26 Aprile del 1999…

Ora non ci rimane che uscire da quella porta aperta, prendere Adrian per mano e andare a fare una bella passeggiata con questo fiume dalla faccia pulita che, se però ti soffermi a guardarlo bene, nella sua oscena profondità, saprà farti tremare le gambe…


    Song by Song


1 - Re-united States of Love

“Redraw the map, push the frontier back”

Un inizio che sembra un congedo: non c’è nulla di chiaro se non nelle note di una chitarra e di una batteria che cercano di stoppare le parole, ma niente impedisce alla voce, al coro con Vikki Stilwell (presente in diversi episodi nell’album), di tracciare un sorriso…


2 - Open Door

“I’ve felt the darkness of the world, but now I need some light”

Lou Reed si affaccia, come paiono fare i Church e gli Alarm, in una adunata che odora di anni Ottanta, con il canto che cerca appigli nel proprio passato. Incandescente in una giornata di pioggia.


3 - Rocket

“We could blast right of here if you put some thrust in me”

Gli applausi del cielo cercano i polpastrelli di Adrian e la sua ugola: come un racconto di Joyce, tutto pare anelare alla primavera. La chitarra elettrica sembra in odore di e-bow, ma poi scivola in un semi approccio blues…


4 - Stranger in the Soul

“But I don’t feel the pain that loneliness brings”

Uno degli episodi più toccanti di questa anima pungente: scava, annaspa, con una chitarra circolare che cerca di estraniare la solitudine dai suoi fianchi, in un groviglio di emozioni nel quale nulla cambia ma si vuole fingere il contrario. Lo stop and go ci mostra la delicatezza, note quasi spagnoleggianti, e un sole incline a cadere…


5 - Break My Fall

“You’ll break my fall and my heart will never know”

Echi iniziali dei Cocteau Twins vengono immediatamente stoppati dalla voce di Adrian che in modo cadenzato avanza nella trappola della realtà, sgomitando con leggiadria nel cunicolo della depressione…


6 - Station of the Cross

“I can’t relive each moment when I got too close to truth”

Il programming trova l’apoteosi, nuove soluzioni cavalcano la scena, in una veste musicale eccellente e piena di novità. Gli accordi del piano sono baratri, mentre la voce angelica vola nel labirinto sentimentale colorando la fiducia e fermando il dolore…




7 - Simple Little Love

“They took apart your simple heart with their calculating minds”

Il ritmo torna a farsi vicino al Country, con la spinta americana del sogno più famoso del mondo che entra nei versi, per poi catapultare l’attitudine australiana dei già citati Church in una girandola ritmica altalenante…


8 - White Room

“Can’t you see how this splits me then you’ll see how I crack”

I Radiohead hanno saputo trarre spunto, come molte altre band, da questo brano irresistibile e straziante: anche il dolore ha una poesia nel suo baricentro e Adrian l’ha trovata, registrata, esibita, con la musica che sembra uno scivolo che, partendo dall’infanzia, conclude il suo girovagare nella morte…



9 - Past Full of Shadow

“Between the lines you misread the signs”

Quando l’autore di Winning decide di toglierci il respiro non abbiamo scampo: la produzione perfetta conferisce al brano la giusta dose di drammaticità, in un circuito soffocante che brama la pelle bianca di un’anima ormai spenta. Segnali di arrangiamenti e di arcobaleni pieni di pioggia conferiscono al pezzo il premio Nobel per il maggior numero di lacrime versate…


10 - Ordinary Angel

“I tasted grace and got drunk on bliss”

Si corre, i suoni adiacenti al pube, si cade e si rotola nel prato alcolico di un sogno mai così apparentemente libero, con la chitarra elettrica che spinge Adrian verso il registro alto della voce per accarezzare le nubi dove gli angeli lo attendono…


11 - Lonel Late-nighter

“A song in the sad key from the heart of man tell me not to be ashamed to cry”

Come collegare le ballads degli anni Ottanta a quelle ancora da rodare degli anni Novanta: Borland cerca il ritornello, il cantato che oscilla, per trovare le lacrime libere di sciogliersi. Uno dei momenti più verosimilmente pop dell’intero album: splendido, innocente e crudele allo stesso tempo…


12 - Someone Will Love You Today

“Could be the man who sells you the paper a cynical sparkle of hope in his smile”

Gli U2 saranno gelosi (quelli di Gloria, per intenderci), in quanto Adrian Borland dimostra un talento che gli irlandesi non hanno mai avuto: come passare dall’ironia, alla goccia pop che invoca l’alternative per poi dilagare, con estrema semplicità, in un ritornello gonfio di aria da baciare, sino alle gocce finali di una chitarra in odore di J.J. Cale.


13 - Forgiveness

“But we are full of pollutants”

Arriva l’inverno della mente, i passi si fanno lenti e le ombre cupe, archi camuffati gettano le loro tensioni nel testo che sgomenta ma precisa il percorso di un’esistenza in cerca di aiuto. Quando i due registri di voce si trovano all’unisono non c'è più possibilità di resistere al dolore…


14 - Rootless

“I’ve been sawing through these chains”

Il brano più atipico di questo album, con le sue soluzioni in cerca di approdo, l’inventiva del cantato, una impalcatura che cerca sostegno nel talento. Tutto fugge e probabilmente fa di questo episodio il meno convincente…


15 - In Passing

“These yellow lights are not enough to illuminate this night”

Un arpeggio, un cielo, un bisogno che non trova identità e permanenza: la sensazione è di un doveroso tentativo di mostrare le crepe di una mente che ricorda i giorni passati e si ritrova con i calici vuoti…



16 - Shoreline

“And you wish you had a life at least somebody you could die for, why don’t you open up and breathe?”

Il momento più alto e toccante è riservato alla fine: chi non piange non ha cuore, non ha passioni…

Si entra nella psiche di un sogno, il contrasto con il rumore assordante della tragedia che imperversa nel calendario e la scommessa di non forzare la mano. Le parole vincono, rubano la scena, e la voce diventa il palcoscenico di un teschio che cade nella sabbia ancora ricoperto di pelle e di battiti del cuore. Quando si plana nel ritornello le lacrime si sono già ossidate…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Aprile 2024


giovedì 11 aprile 2024

La mia Recensione: James - Yummy


 

James - Yummy



Sia la gioia l’unico contagio ammissibile, approcciabile, condivisibile e abbracciabile. La musica rischia di perdere la sua antica peculiarità, che era quella di avvicinare le menti e i corpi.

Ci pensano i James, con il loro diciottesimo album in studio, a dare, come spesso accade con loro, l’esempio, lo stimolo, la possibilità di mantenere inalterate le qualità e di trovarne delle nuove. Il loro approccio è ancora quello di un gruppo di persone intente a rinnovare il proprio passaporto e la propria identità, proponendo nuove forme stilistiche, generando stupore per l’intenzione profonda di non sedersi sul passato: troppo intelligenti, troppo avanti per lucrare sull’amore dei loro numerosi estimatori. Yummy è un boato docile, programmato per insinuarsi senza far troppo rumore, ma con l’indiscutibile qualità di spingere a impegnarsi nell’ascolto. Per molti ci sarà parecchio da fare per poter accettare, in primis, questa volontà di scrivere canzoni ermetiche, poco accessibili alla facile masticazione se non in brevi momenti, specialmente nei ritornelli, e, inoltre, per riuscire a ingerire chiaramente questa intenzione di un corpo scrivente che sembra essere "limitato" a quattro dei nuovi membri della band di Manchester. In molti, sia musicisti che ascoltatori, rimangono ancorati a ciò che li ha fatti incontrare, facendo preferire un lato decisamente immaturo e nostalgico che non consente di apprezzare e considerare il bisogno di una identità di crescere. Un continuo cappio al collo che fa spegnere ogni flusso nuovo e innovativo.

Ci sono momenti in cui un insieme sonoro può essere un imbuto: questo ci fa cadere tutti insieme nello spazio della bellezza e non c'è nulla di sensualmente più appetitoso di un arcobaleno che fluttua nel tempo. I James lo prendono e ci mostrano le sue intensità sino a farcene sentire la fragranza. Non sono mai stati legati al territorio di provenienza, mai figli diretti e devoti della loro città, bensì musicisti in grado di sorvolare il mondo e di assorbirne gli odori, le tensioni, i sogni, arricchendo il loro vocabolario attitudinale, navigando sui cambiamenti, mostrandoli, e arricchendo le nostre vite con pulsioni, riflessioni, danze in modo continuo. L’ultimo lavoro dimostra tutto questo, partendo dai suoni, da un incredibile groove generale che seduce e fa scuotere, per proseguire con i testi di Tim, ancora una volta abili nel rinnovare linguaggio, direzioni, dimensioni per confermare l’altissimo livello di scrittura. L’esperienza dal vivo con un'orchestra e un coro gospel ha consentito loro di rinnovare il repertorio, ma è stata sicuramente anche un’occasione per suggerire nuove possibilità con queste dodici sirene ipnotiche. La vita, la morte, il successo, l’ansia, le esagerazioni, il dolore, l’ironia sono solamente alcune delle traiettorie del cantante. Ma la musica sa fare altrettanto: non solo sposa perfetta dei testi, ma genitore desideroso di dare disciplina a talenti sempre svegli, capaci, in grado di portare il tutto in uno stato di grande levatura. Sensazioni ed emozioni multiple si ritrovano iniettate di positività, come un atto che non può cessare di esistere sebbene il mondo sembri optare per il suicidio. Qui troviamo la gioia di vivere attraverso la freschezza della produzione di Leo Abrahams, le sensuali movenze di miscele continue del pop più mirato all’eleganza, l’utilizzo di una elettronica che si inserisce nella radice di generi musicali diversi, come un circolo sensoriale che rifiuta un’unica dimensione. Inoltre, l’ascolto diventa visione, un film che cambia sceneggiatura, proseguendo abilmente nel variare fisicamente i tratti dei personaggi. Così facendo, tutto diventa adunata, presenzialismo, assistenza, amicizia, un comitato di idee che progrediscono senza stancarsi mai. Nel quinto decennio del loro incredibile percorso artistico, i James di questi ultimi anni sembrano più spavaldi, meno interessati alla politica del consenso e, come muli giustamente ostinati, percorrono le scelte con orgoglio e soddisfazione, per poter manifestare che la musica, almeno quella della scrittura, appartiene a loro. Dopo, è tutta un’altra storia.

Ci si commuove spesso, i punti di domanda sembrano missili con il vestito da festa, innocui in quanto non uccidono, ma certamente con l’intenzione di non passare indifferenti. Infatti, lo stomaco si ritrova spesso a chiedere ossigeno, si capisce bene che la qualità che ha sempre fatto parte del loro dna (quella di comunicare in modo diverso le cose che si sanno e di dirne altre del tutto sconosciute) è ancora ben presente. Cambia il vestito, non il loro essere studenti, per primi, di se stessi. Fa male, lasciatemelo dire, pensare che una band debba essere l’esecutrice dei sogni di chi li ama. Queste nove anime voltano le spalle, camminano nelle canzoni come nei respiri dell’arcobaleno notturno, come spiriti invisibili, ma alla fine, quando la giornata si sveglia, ti accorgi che avevano ragione, depositando nel cielo brani che lentamente si appiccicano al cuore, lubrificando quelle vene sempre meno capaci di far passare dentro se stesse nuove molecole.

Si, Yummy è un disco sorprendente, moderno, incline a raggruppare suoni e vocaboli in un giorno nel quale la noia e la malinconia cercano un appiglio, un aiuto. Eccolo, presente, costante, propenso a essere un abbraccio eterno che, se apparentemente sembra di difficile assimilazione, in realtà ha fatto un patto con il tempo. Sono pazienti questi giovani vecchietti, perspicaci, cavalieri del gusto con le mani grandi, per poter prendere le nostre incertezze e collocarle nella zona dove tutto riposa. 

Salvifiche, rigeneranti, letterarie, queste dodici canzoni sono il sorpasso nei confronti dell’ignoranza, timbri insospettabili di una nuova modalità di appartenenza ai colori di un lavoro prodigioso, dispettose perché negano a tutti l’accesso alla facilità dell’inganno. Si deve studiare, spostare il baricentro dei vizi e seppellirli, per l'eternità…

Sempre di più emerge la sensibilità della loro arte, non più un megafono che attira le attenzioni, ma un insieme di pagine da leggere in silenzio: questa è la vera magia di questo ultimo album dei James…




Song by Song

1 - Is This Love


Una coperta affettiva, in grado di andare oltre le domande, permea i tessuti sonori e come un intervento chirurgico degno di Houdini, riporta per un attimo la band nei territori stilistici dei primi anni 2000. Si sogna, ci si contorce dolcemente nei pressi di un brano che collega una strategia minimalista degli strumenti a un volo epidermico dato dal cantato di Tim.



2 - Life’s A Fucking Miracle


Il mondo, con i suoi caotici assembramenti sociali, riesce a trovare una stabilità con la consapevolezza che la vita sia, in modo laico, un miracolo indiscutibile. Lenta, diritta, arriva al centro con un ritornello che stabilisce il voluto contatto con la realtà che deve essere aggiornata, cambiata e assemblata. Vistosa e rigorosa, consegna pienamente al mondo la flessibilità del loro concepire la creazione artistica.



3 - Better With You


Tim Booth e Chloe Alper diventano gli attori di un disegno d’amore che rivela come la dolcezza sia una prerogativa dei James da sempre, qui con l’abilità di una progressione che, partendo dalla lentezza, riesce a sviluppare trame angeliche. Liberatosi da catene pesanti, il cantante vola leggero nella corrente dei venti. Come portare gli anni Cinquanta ai giorni nostri…



4 - Stay


Straordinario esempio di come la tensione sia capace di veicolare la mancanza di appigli, sfuggendo a ogni definizione, per essere un camaleonte in cerca di sfide, questo pezzo dimostra l’alchemica struttura dell’improvvisazione, dei flussi coscienti che non richiedono di essere inseriti dentro delle regole. Un arpeggio di chitarra che odora di cielo, la batteria che ci tiene in pugno con la sua semplicità per fare di una pop song la carezza di cui abbiamo bisogno.





5 - Shadow Of A Giant


Jon Hopkins presta dita e talento per l’introduzione del brano, in quello che è l’episodio più sognante e di maggior durata dell’album. Si sale sino a incontrare le stelle, con gli archi che diventano il termometro della nostra emozione, per una incredibile capacità di estendere le note in una progressione che avviluppa i sensi. Si viaggia tra la tristezza e l’attesa, con la voce di Chloe che in lontananza bagna il nostro volto sino a quando il violino tzigano di Saul ci fa piangere…



6 - Way Over Your Head


L’uomo Booth ancora una volta volge lo sguardo verso le condizioni in cui la precarietà, la debolezza e la povertà non hanno modo di sorridere. Ci pensa lui però con questo testo e la musica sembra aspettare il coro finale, in grado di far vibrare i palpiti. È un invito a cercare qualcuno che faccia dormire la sofferenza ed è proprio in questa parte della canzone che molti amanti dei James potrebbero essere accontentati: a volte accade l’armistizio tra chi vuole andare avanti e chi resta indietro. Quando la band costruisce un palazzo sonoro come questo ci si rende conto che l’amore per loro non finirà, perché tutto qui sembra un raccolto di frutti lungo le note che lentamente gonfiano il petto…



7 - Mobile God


Un’arma, costante e pericolosa, palesa la sua esistenza: la musica è una vibrazione continua, un sondare le possibilità espressive, per lasciare al testo l’analisi di una realtà soggiogata dall’uso tecnologico della comunicazione, in cui la vera schiavitù attuale mostra nuove catene. Il groove è un impasto di elettronica e chitarre che con un accordo secco circondano il testo sino ad approdare al ritornello che libera i circuiti cadenzati dal coro che vibra nei circuiti di satelliti pieni di informazioni che intasano la nostra vita. Clamorosa!



8 - Our World


Il mondo precipita con il proprio sconvolgimento fisico, irriconoscibile rispetto a poco tempo fa, saturo di alienanti egoismi e sperimentazioni. Il fischio iniziale è un meraviglioso inganno rispetto all’argomento trattato e, come per i migliori momenti degli Smiths, il contrasto tra parole e musica rende l’attenzione una miccia continuamente in stato di allerta. Melodica, pop, in realtà vive di un caos reso gentile…



9 - Rogue


La vita deve essere uno stato cosciente, non un ammasso di eventi. Partendo da questa considerazione, sia le parole che la musica rendono accessibile l’intuizione, il dovere e una nuova coscienza. Nel tentativo, riuscito, di mantenere l’esistenza in uno stato in cui le decisioni siano consapevolmente strutturate per migliorarne le condizioni. Le chitarre semi acustiche tornano ad abbaiare ed è gioia pura, il cantato incalzato e ll basso di Jim che ci catapulta, con morbidezza e vivacità, in una danza effervescente.



10 - Hey


Gioia, allegria e dinamicità fanno di questo episodio quello maggiormente intento a rendere fisico il sorriso e la risata, in un atto puro di positività senza compromessi. Inizia però come un vampata dolorosa, caotica, per poi perdere l’afflato elettronico e divenire una ninnananna moderna che invece di farci dormire ci fa intendere come la musica sia un ponte tra il vero e il bisogno di cambiare le nostre convinzione. Il titolo viene ripetuto più volte per poi dilatare gli incroci micidiali degli strumenti.



11 - Butterfly


Il momento che farà esaltare chi ama i James da sempre. Tutte le loro caratteristiche del passato qui si depositano in un brano perfetto, un bacio alla loro storia, un grazie e un inchino, in cui l’abbraccio al tempo dona entusiasmo e grande gioia: se esiste un luogo dove tutti saranno contenti è proprio nell’angelica dimensione di questo episodio. L’inizio è un filo psichedelico che poi diventa, nel cantato di Jim (per pochi attimi) un abbraccio a “Really Hard”, tratto dal loro album di esordio Stutter, e i momenti più delicati della loro storia a cui siamo affezionati.  Ci si commuove con immensa gioia liberatoria…



12 - Folks


Pare un addio, un sorriso amaro, che con il violoncello e la tromba sembra farci intendere il tempo come una questione davvero molto lunga. Il cantato diventa evocativo come non mai: mostra le rughe dell’energia e la preoccupazione, la sua voce come sabbia di una clessidra che si sta per depositare tra le braccia dell’infinito, quello silente, privo di voce. Toccante, drammatico, il congedo riserva emozioni e colpi di tosse: le sue preoccupazioni sono anche le nostre. Le note del piano, distorte in lontananza, sembrano provenire dal teatro della paura, poi tutto si scioglie, l’armonia e la melodia tracciano la strada su cui le parole di Tim diventano rugiada per fare di questo ultimo episodio un valzer anomalo nel contesto di una pop song che bacia l’infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Aprile 2024


domenica 10 marzo 2024

La mia Recensione: Jo Beth Young - Broken Spells


 Jo Beth Young - Broken Spells


“ Non sapendo quando l’alba arriverà, lascio aperta ogni porta.”

Emily Dickinson


Un’adunata silenziosa pilota la musica: da quella praticata da tutti fugge questo ordine superiore che è organizzato da una truppa celeste, per renderla molto di più di un evento emozionale.

In questa ristretta organizzazione quella scritta, composta e cantata da JBY ne è sicuramente la punta di diamante, la rappresentazione evidente che esiste un effluvio che rende gli odori i custodi di uno stordimento piacevole ed essenziale. Perché la cantante inglese con il suo nuovo dipinto sonoro costruisce ponti, cascate, abbracci per un incontro che ha diversi concetti da esprimere, il che la rende una cittadina con il passaporto che le consente di arrivare in ogni terra vogliosa di seminare negli ascolti questo straordinario tributo al lavoro cosciente.

Ciò accade quando Broken Spells penetra nell’anima: si diventa residenti viaggianti come lei, anime in transito senza sosta.

Diverse novità rispetto al precedente Strangers: in questi cinque anni lo studio del canto e della costruzione delle onde che fanno delle sue canzoni un corto circuito di un cosmo elegante, aggraziato e pieno di ispirazione, trova specificazioni importanti dando, oltre al suo piglio folk contemplante atomi di World Music, una maggiore presenza di una elettronica fine, vitale, mai pomposa e inopportuna. Piuttosto: un insieme che crea un idillio unico, magnifico e pieno di bolle colorate, come se un arcobaleno ci abitasse dentro.  Ci si ritrova così a nuotare nel suo spazio celeste con maggiore intimità e una incredibile realtà imprevista. L’ascolto stordisce, illumina, rende la pelle del cuore umida, con la sensazione di vivere una sospensione continua nei confronti delle storture quotidiane: ci concede la speranza, l’emozione, il dovere di cercare una positività che nelle sue nuove composizioni costruiscono un moto inattaccabile. Abile nell’essere una polistrumentista dalle idee chiare, raduna attorno alle sue dita musicisti dotati di pazienza, veloci nella collaborazione, per fare di questi brani una folla di stelle compatte, costruendo un cielo a sé, lento, virtuoso e infinito. 

Peter Yates alla chitarra (Fields Of The Nephilim), Jay Newton al pianoforte  (Abrasive Trees), Jules Bangs al basso (Herija), John Reed alla Steel Guitar, Ben Roberts al violoncello (Silver Moth/Prosthetic Head) sono un combo allineato al progetto di Jo, una condensa di talento, che si muove dentro le nuvole, con il compito di mantenere rarefatte le idee iniziali, portandole però di fronte all’eternità senza timore.

Seduce e conquista la certezza che questa artista sia in grado di legare il passato e il presente in quanto il mistero, la paura, la coscienza, il trambusto sono perfettamente allineati, in una forma di disciplina che non contempla errori, superficialità e scelte scellerate. La perfezione: eccola, raggiunta, definita e mostrata per stordire come un terremoto di baci lenti, occhiate oblique ma mai velenose, perché la dolcezza per Jo Beth è un atto conclamato di rispetto. Mentre si ascoltano questi nuovi dieci battiti di ciglia, si avverte decisamente la sua maturità nel creare un concept album, sonoro, emozionale, il ventaglio dei suoi segreti mostrati quasi del tutto, con la convinzione che alcuni siano rimasti nelle sue mani, magari da presentare in futuro. L’attitudine è quella di dare a questo bouquet moderno con le impronte di electro folk, ambient, artpop, progressive, la possibilità di connettersi con un umore che faccia emergere l’istinto di musica barocca che è sicuramente all’interno della sua sensibilità, forse magari inconsciamente, ma questo non conta. Quello che è importante è il fascio luminoso di sinapsi in contatto, nel miracolo di epoche diverse, di un acclimatamento con la storia e il futuro, qui posto non come un'ipotesi ma come un territorio nel quale queste note già lo costruiscono. 

La sua voce è un pilota vellutato, senza nevrosi, senza scatti fastidiosi e anche una educata camminata tra colorati cambi di registro, una marea gentile che scoperchia i nervi, un racconto letto lentamente con attenzione e premura. Non è il caso di scomodare altre cantanti, di fare i confronti: un ascolto serio mostra la sua identità unica, in grado di farci vivere la piacevole condizione di un matrimonio tra la sua ugola e le nostre orecchie. Ma non si pensi che la musica sia un cuscino, una coperta, un bastone su cui il tutto si tocca per creare una condensa. Assolutamente no: è un respiro continuo, un viaggio parallelo, una insieme di identità naturali con la sapiente autorevolezza, determinata alla convivenza con queste vibrazioni vocali per un collettivo che ha anche modo di mostrare validità individuali. 

Non si commetta l’errore di fare di questo album solamente un elenco di complimenti: occorre viverlo, rendere solida una partecipazione, divenire noi stessi una musica per capire le dinamiche che hanno permesso a quella di Jo di creare non un evento, bensì quella che dovrebbe essere normalmente questa espressione artistica, la biomeccanica di un lavoro educativo ed esplorativo per le nostre anime.

Penelope è bionda: costruisce e disfa per dare al sogno una colonna sonora che mantenga la fantasia una costante, perché la realtà non è più in grado di darle spazio. Beth sì, ci riesce, in abbondanza, con qualità, sciogliendo la cattiveria, imbrigliando questa dannosa natura umana con la sua elegante propensione a mostrare un’altra dimensione, possibile e indispensabile.

Porta nei centimetri della nostra immaginazione la zona dove vive (l'Irlanda del Nord), allungando l’idea che abbiamo di quei luoghi, creando movimenti acquatici laddove invece sono presenti zolle di terra, in una meravigliosa occasione di trasformazione, rendendo possibile il contatto tra l’aspetto reale e quello onirico. Il suo laboratorio mentale illumina il vento e, quando le canzoni trovano la luce, ecco che ascoltarle significa scrivere una nuova incredibile storia.

Broken Spells rappresenta un’occasione per sentire il volto celeste teso ad allungare la mano, come se la sua intenzione fosse quella di generare la nostra pace: occorre meno di un’ora per avere una guida maestra, per ritrovarsi nell’incanto, per sentirsi più leggeri…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Marzo 2024


https://jobethyoung.bandcamp.com/album/broken-spells


La mia Recensione: Adrian Borland - Beautiful Ammunition

  Adrian Borland - Beautiful Ammunition “Lo stress, l’ansia, la depressione nascono quando ignoriamo chi siamo e iniziamo a vivere per pia...