The Cure - Songs Of A Lost World
“La vita dei morti dura nella memoria dei vivi” - Cicerone
Fa male.
Potrebbe bastare così.
Si entra nel mondo della verità, di ciò che non è possibile negare, dei flussi di coscienza che fanno allibire, frenano, gelano e congelano senza possibilità di replica.
Un tuffo alla mente, altro che al cuore: i Cure tornano, ma solo discograficamente parlando, e il Vecchio Scriba non si riferisce all’attività dal vivo della band quanto piuttosto al significato, all'affetto, all’adorazione e al bisogno di portare tale unicità nel luogo della continuazione inflessibile. Con questo combo non esiste la separazione e la lontananza.
Un album problematico, un esercizio di verità che nulla ha di artistico se non la forma, tuttavia non vi è dubbio che ciò che si ascolta e si legge sembri davvero una deposizione, scritta e suonata, di una arrendevolezza totale davanti all’imminente, come se il trattato della logica umana debba avere una certificazione in questa declinazione.
La sofferenza esplode con classe e tappeti di sensazioni appiccicate al gioco dello scherno, dei vapori, dei loop continui che caratterizzano le otto tracce di SOALW, il numero perfetto perché ingloba anche un minutaggio solo apparentemente non abbondante (quarantanove minuti), dimostrando, invece, il totale disarmo innanzi a questo vulcano, lento ma non lentissimo nella sua schiuma liturgica, che pare alla fine sommergerci tutti, senza pietà. Rimane la consolazione di una penna, quella di Robert Smith, capace di far uscire dolcezza e comprensione, senza però eliminare la sua nuova solitudine, il suo smarrimento e quelle domande che alla fine sono macigni insostenibili per chi, come lui, è dotato di sensibilità.
Claustrofobico e sporco, con i dipinti che cadono, uno dopo l’altro, sull’asfalto delle nostre preoccupazioni, in un abbraccio, forzato, volto a trovare un supporto impossibile.
Il suono, la sua ricerca, la ferma convinzione che Disintegration abbia insegnato che le lunghe introduzioni non siano solo atti preparatori è evidente, ma qui finalmente, diventano attestati di un lavoro che sa come escludere la parola per accentrare le attenzioni, sfiancando, innervosendo chi della pazienza non conosce la preziosità e il valore.
Snerva chi non coglie le infinite sfumature di ingressi e uscite degli strumenti per poter manipolare il tutto solo in un’apparente staticità. Morto e sepolto il lato pop, non rimane che accucciarsi nelle sfumature dell’esistenza, nel mai programmato conteggio degli affetti scomparsi, in uno sguardo al passato che evidenzia i vuoti affettivi: ci portano a questo le parole del leader ma anche la musica, in un impasto algebrico e contiguo all’album del 1989.
L’atto più ribelle di questo quattordicesimo lavoro è la nudità, la concessione dei dubbi, la memoria spalancata come i crateri che esibiscono il vuoto al suo interno (la morte dei genitori, del fratello ecc.) che sono l’avamposto di una identità mutante che ha in sé i postumi di un passato bollente e pieno di ferite (non scordiamoci Pornography ma soprattutto The Top) e che trova l’obbligatorietà dell’arresto, di una visione che esclude la modalità della fanciullezza.
Un disco adulto per gente morente.
Una bordata con tessuti delicati, per non spaventare, per non far accrescere velocemente il dissenso: alla fine la vera protagonista del tutto è la voce di Robert (again and again and again), qui paralizzata ancor prima che paralizzante, in un calvario mnemonico che srotola la pergamena dei ricordi nella sua ugola ancora potente e graffiante, come se la ruggine trovasse, in quelle vibrazioni, il lasciapassare della credibilità.
Sconvolgente, asciutta, girandola acuta e impazzita, questo dono del cielo si è genuflesso dinanzi a una costruzione ritmica perlomeno incline alla lentezza, con due eccezioni, per sollevare il corpo ma non l’umore, relegando l’eventuale danza a una continuazione, solamente diversa, di un accasciarsi in pieno disagio e consapevolezza.
L’album più triste dei Cure?
Sicuramente. Non c’entrano i sistemi operativi bensì l’intensità di un male evidente che non ha possibilità di scioglimento: davanti alla scorza dura della morte non vi è arte in grado di sfidarla.
Diviene inevitabile la presenza di due strumenti in clamoroso eccesso: la tastiera e il pianoforte, dove spesso le campionature ci mostrano fraseggi di musica classica imbottita di modernità.
Non soltanto Roger ma anche Smith: ecco una compensazione, un laboratorio che vede due anime sofferenti (non scordiamoci il cancro al sangue del tastierista dei Cure) in un pellegrinaggio nordico, per sconfiggere l’idea che la Coldwave sia soltanto una lastra di ghiaccio abile nel farci ballare.
La band decide di ripristinare il momento conclusivo di Sinking per generare un caos camaleontico, colorato con tutte le sfumature del grigio, come punto di contatto con una copertina che già ci fa intendere quanto sia presente nel lavoro questo senso di precipitazione e stabilità che soltanto la pietra sa donare. Un’opera del 1975 che pare essere la chiave di ingresso interpretativo di questo agglomerato di consapevolezze impervie che necessitano della musica, più che delle parole, per conferire al tempo (inteso come ritmo) il senso drammatico della staticità.
Si spiegano in questo modo i riff ripetuti, la brevità della fantasia, la forma canzone ridotta al lumicino, l’intenzione di imbalsamare la fantasia in quanto considerata una nemica inopportuna.
Le composizioni delineano in modo impressionante il raggio d’azione di questi dieci anni in cui tutto si è sviluppato: una tartaruga che dalla capitale inglese è arrivata alle scogliere di Dover, per testimoniare, attraverso la musica, la fallace intenzione dell’eternità.
E su questo argomento il gruppo ha costruito quattro dischi: non si può negare il dna, impossibile soprattutto per chi ha sempre avuto paura della demenza senile.
È in questa caverna concettuale che si individua la necessità di non avere fretta nell’ascoltare la regina, quella voce su cui molti hanno costruito il legame. Qui, anche se si tratta solo della seconda volta nella quarantennale carriera, tutto è stato scritto da Robert Smith e lui per primo ha deciso di effettuare l’operazione che prevede, da parte dell’ascoltatore, la capacità di saper accogliere ciò che accade e non ciò che accadrà: una delle tante lezioni di questo album.
Che trasferisce, partorisce e pone fine a ogni sogno e velleità e che in questo è più devastante di Pornography, perché non necessita del delirio dolorante dell’anima bensì di un’accortezza, devastante e imponente, che si chiama arrendevolezza.
La musica fa arrendere.
Come le parole.
In un parco giochi di Felliniana memoria con il senso gotico di Tim Burton, per una spruzzata di ossigeno tossico mal conservato.
Non c’entra ciò che si vorrebbe sentire, ma quello che si definisce: il funky arriva e sorprende, il rock fa lo stesso nell’unico episodio concessogli, per la purezza di un concept sonoro che nulla ha a che fare con i messaggi: Robert non cerca l’audience, bensì uno specchio muto che urla senza suoni e lui, come un mago delirante e tuttavia lucido, trasforma il tutto in un vocabolario di cui noi siamo costretti a imparare termini che questa volta, pur avendoli sentiti pronunciare tante volte da lui stesso, trovano una forma elastica che scavalca la sicurezza.
Songs Of A Lost World ripresenta le trame di Wish, solo per quell’istante in cui l’amarezza si concede un bicchiere di whiskey, per riprendere i tuoni di un brano che non faticherete a immaginare come invecchiato nel tempo.
Raccoglie anche il desiderio di assottigliare la produzione che da sempre ha cercato di dare vita a composizioni in procinto di morire: tutto diventa alienazione con fiori secchi, con il distributore di idee in riserva perché se si è senza benzina non significa non si ha l’auto…
I Cure sembrano morenti, stanchi, sfiduciati però, più di tutto, emozionati: la base di una gioia perversa per i numerosi fans, che, senza rispetto, si butteranno a cantare questi testi per testimoniare il loro amore. Quell’amore prevede il silenzio, il rispetto, lo studio e l’individuazione di questo spogliarello dell’anima di cui si diceva pocanzi.
È arte come quella antica, quella che volta le spalle, che non ascolta, che offre la schiena poiché non interessata al confronto, in una micidiale forma di rifiuto del rifiuto, senza bisogno di affondare gli artigli nel nichilismo centrico.
Ci si ritrova con suoni molto affini agli anni Novanta (in un brano Never Enough sembra risorta e quasi felice di graffiare ancora…), ma con la certezza che sia un gioco perverso volto a storicizzare quell’epoca in quanto vi erano ancora anime presenti e determinanti.
Un lavoro somigliante a un pallottoliere che spara missili, lenti, sudati, mai tentennanti: lo potrete adorare così come detestarlo come farebbero le persone con la puzza sotto il naso, ciò nonostante non potrete negare la fatica e l’immersione nei circuiti dove la luce della vita si trova a inchinarsi davanti a quella della morte. Nello stesso cielo accadono cataclismi, che in questo album vengono messi in campo nella partita dello sconforto.
Piange la musica, la voce, l’anima, in questo vagabondaggio che offre un aspetto traumatico per quanto incline alla concessione, al ristoro che non consola e che regala qualche anno in più da vivere.
I testi sono maniglie, sentieri, racconti (anche intimi), come perlustrazioni che non hanno il lato giusto per essere giudicati: la capacità di Smith di flirtare con una bellezza incandescente ma irraggiungibile è rimasta e forse è addirittura più voluminosa.
E poi lui, il drumming, vigna dai contenuti poderosi, che per una volta non fa rimpiangere quello di Boris Williams: accade quasi sicuramente perché vi sono dei punti di contatto e, prima di tutto, una libertà artistica mai ricevuta prima.
I giochi ritmici sono ali metalliche: è la prima volta, da quando Jason Cooper è entrato nella formazione, che l’attenzione si incentra sui suoni, doverosamente cupi e pieni di artrite, per meglio configurare l’invecchiamento del soggetto, della concessione segreta di un uomo e del suo gruppo qui più che mai coesi nell’eliminare i dubbi.
E le verità mostrate parrebbero facilitare il paragone, appunto, con Disintegration.
Non per il Vecchio Scriba.
Quell’episodio, ingiustamente considerato un capolavoro, presentava l’esistenza forzata di canzoni diverse tra di loro, e comprendeva (sicuramente) un blocco unito, ma era evidente che vi era dell’uva buona e altra meno.
Si era in presenza di riempitivi e di diversivi, di singoli fatti per scalare le classifiche.
Che c’entra Alone con quell’album? Un singolo che, anche se ricorda nella modalità momenti di quel disco, è una canzone che affligge, urta, impressiona, decolora l'umore, gonfia l’aria di tossine multiple. Solo i Cure, in questo viaggio nella completa maturità, possono permettersi un'operazione simile, come indiani dalle frecce ancora piene di vigore, al rallentatore…
Si celebra l’infinito della vita eterna, lo smarrimento della presenza in attesa di spegnimento e la musica pare un rosario moderno, con guitti, pergamene e pezzi di calce che cadono sulla epicità di un lavoro che per bravura e validità può convivere con la band che con The Top ha reso il suo percorso artistico finito dal punto di vista della sincerità in cerca di manutenzione. Le produzioni successive mostravano forza e una straordinaria programmazione, facendo morire l’istinto e il trambusto impellente.
Che qui trovate, rallentati ma vivi.
La presenza della musica classica camuffata diviene intrigo e castigo, gioco e ubbidienza, in un contrasto evidente che fa cadere il sogno, il vero protagonista dell’album.
Si palesa nella sua ostruzione, negazione, nel modo felino di versi che non lo menzionano ma che ne fanno sentire la fragranza, con il risultato di far divenire le lacrime di Robert Smith il palcoscenico dove le parole trovano luce e apoteosi. Diventano i momenti in cui il cantante decide di immergerle nel vaso dilatatore di ricordi e di storie nelle quali non esistono più i respiri di chi si è amato (il riferimento al fratello è davvero calzante, oltre che la radice quadrata di un dolore non ancora in fase di constatazione amichevole), per poter usare un violino (spesso campionato) su cui disegnare la debolezza e consegnarla.
E poi una cosa meravigliosa accade, elegantemente, di nascosto, come un suicidio in diretta: la concessione pubblica di un patto con la paura che, partendo dal bisogno di ripetere lo stesso giro armonico, giunge sino a parole che adoperano la stessa modalità. Si conferma, si sgretola la fantasia e si offre il limite, anche quello dell’arte.
Un altro aspetto è la scaletta: divisa per colori, per umori e bagliori, per dare modo agli otto episodi di giocare da soli come pipistrelli in volo obbligatorio, con le corsie delle grotte che non permettono di virare, perché l’album si può ascoltare solo seguendo questo ordine per avere l’illusione di gestirlo, di capirlo e ancora peggio di possederne il senso.
Ma…
Inutile: SOALW è un labirinto che arretra, non permette di correre, di cercare spiragli, come una sedia elettrica si stabilisce nel cranio prima che nel corpo e allora, sì, fa davvero molto male.
Un’opera che sicuramente mostra alcuni limiti ma che vive di una grande sincerità. E per questo motivo non si può che applaudire…
Song by Song
1 - Alone
Una dolce piuma, sotto forma di abbraccio, apre le ali per chiuderci nel suo intimo sorriso: l’apertura è un flusso di musica classica con il trucco adatto a un'occasione speciale, che è quella di fornirci le prime indicazioni di cosa accadrà. Minimalista, con il suo incedere che raccoglie a mano a mano mirtilli di suono, il brano ci riconduce al climax di Wish con la lentezza che ipnotizza e seduce.
Poi arriva la voce ed è gioia, mentre le note di una mente lucida si sciolgono nella gola che ancora una volta sa come rendere il suono una foresta in attesa del pianto…
2 - And Nothing Is Forever
Aumenta la gittata dell’armonia musicale, con una miscela malinconica data da archi e pianoforte, come un anticipo accattivante di una quasi esplosione, una crescita che ci fa vibrare, nel puro stile Cure: l’unicità di questa band ha molteplici verità e la canzone ce ne mostra una, attraverso un’affermazione che rivela l’antica paura dell’abbandono, ed è proprio in quel contesto che la musica si fa ottocentesca con i transistor, per meglio legare l’ampiezza di questo percorso…
3 - A Fragile Thing
Un momento di leggerezza, un quasi incontro con la spirale pop: attenzione, è un bluff in quanto tutto pesa anche se la melodia e la voce sembrano parenti stretti di un raggio solare. Basta il ritornello per capire come l’essere sornioni permetta alla band di giocare, laddove invece il testo sfianca e logora: e pensare che ci sarà chi lo prenderà per il pezzo più soft di questo lavoro. Apparentemente parrebbe di ascoltare uno scarto, riveduto e corretto, di una parte di Wendy Time, con in aggiunta fiori e petali crudeli, mentre le note fanno smorfie scherzose…
4 - Warsong
L’impegno sociale del testo permette alla canzone di essere vibrante, connessa alla realtà, con grande energia e probabilmente una delle più belle della band degli ultimi trent’anni. Nel suo mistero i muscoli rivelano l’antico versante rock, con l’odio delle liriche che rende rovente, ma con classe, l’intero ascolto.
5 - Drone:Nodrone
Il funky di Kiss Me Kiss Me Kiss Me torna, con in più la vibrazione sonora di Never Enough: quando i watt tendono le braccia, l’impatto diventa una forza e l’ascolto un momento di estasi, zuppo di nuvole in caduta libera…
6 - I Can Never Say Goodbye
Il fragore di The Same Deep Water As You apriva le sue piogge malinconiche. E torna in questo nuovo episodio: non esiste armistizio e pace nel dolore per la perdita di un fratello e il brano conferma l’incredibile capacità di Robert Smith di scrivere testi che inquadrano il lutto, lo smarrimento e il rimpianto. Così come la musica, una carezza su una sedia a dondolo che pare riuscire a mettere in scena anche quello che erano i Cure più di trent’anni fa: davvero toccante…
7 - All I Ever Am
Simon Gallup torna a spingere, a lanciare la band ed è ipnosi ad alti ritmi, con chitarre piene di ruggine e l'ammaliante voce in tono baritonale che stupisce e rende il tutto una scossa tellurica notevole. Rimangono impresse nell’ascolto la sensazione di positività delle chitarre, mentre le parole affrontano (come solo Smith sa fare a questi livelli) la tensione per la paura della morte, con il tempo che si assottiglia sempre di più. L’ultimo momento dell’album in cui si hanno ancora delle difese…
8 - Endsong
Qui crolla tutto: un apparato polifonico, previo un lungo atto di minuscole variazioni, rende quasi impossibile sostenere l’introduzione, perché la drammaticità che si sente già paralizza. E quando arriva la voce di Robert Smith tutto diventa temporale, con le note che portano via il cielo in uno dei brani più toccanti di sempre della band inglese. Il caos trova un covo e si srotola, per poi raggomitolarsi nuovamente non in un gioco ma in una obbligatoria modalità riassuntiva. Ed è così che le lacrime scivolano con l’ascolto, mentre pare presentare una canzone che avrebbe potuto sostituirne diverse di Disintegration. Torna la morte, per rendere epica e sacra la tensione, con i confini della sicurezza che abbandonano i respiri. Epico, fragoroso, con cimbali e chitarre incatramate, questo delirio di tensioni trova il suo emissario che rende davvero amara la consapevolezza della velocità con la quale la vita ci abbandona, facendolo, per contrapposizione, con una semi-ballad.
Alone e Endsong sono i confini di questo ritorno, fratelli siamesi di una fede incrollabile: quella di un cammino consapevole mentre è tempo di andare a dormire…
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