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sabato 20 aprile 2024

La mia Recensione: Healthy God - Poison, healing, poison poison

 


Healthy God - Poison, healing, poison poison


Che meraviglia assoluta è sorprendersi ancora, dopo una vita di ascolti musicali, e provare una gioia così precisa, limpida e fluorescente?

Il tutto è organizzato da un’anima sola, un autore italiano, di Milano, che ha vissuto una trasferta a Londra per tornare a risiedere in Italia, nella calda e accogliente Sicilia.

Quello che ci apprestiamo a sperimentare è un’esperienza che avvolge i sensi e li sparpaglia nel tempo (conoscenza musicale e memoria in questo ascolto sono estremamente importanti), nei luoghi che hanno reso la musica un tempio indiscutibile dove regna la qualità, il valore, il senso di un operare con precisione una mappatura di capacità che tornano sempre utili.

Daniele rincorre gli abiti luccicanti del piacere, perlustra i movimenti del dolore mettendo sopra loro una mano, per proteggerlo, si getta nei corridoi lacerati dei rimpianti e dei rimorsi, stabilisce un contatto sonoro con l’elettronica cristallina e seducente dei Suicide, innesta pillole di post-punk senza esagerare, scrive un trattato di misteriosa psichedelia con maschere di cerone, non tralascia di certo di imbastire un manichino di Alternative per donare attimi di leggerezza nei quali la classe evidente fa schiudere un sorriso, mentre nei dintorni l’urlo delle difficoltà spinge per prevalere. Queste sette composizioni, però, dimostrano un equilibrio strategico, per fare della sua musica un menù completo, digeribile, dai sapori multipli e con la sorpresa finale di riuscire a sentire un profumo intenso dalle note appoggiate su un pentagramma che pare essere stato scritto tra case abbandonate, acciaierie e scorribande psicotrope.

Tutto sembra un’analisi che, partendo dall’essere esplorativa, è in grado di suggerire un’apertura nella quale il conscio e l’inconscio discutono per determinare una realtà che, oltre a essere limpida e precisa, sappia spingere l’attenzione verso una partecipazione diretta da parte degli ascoltatori.

Brani come segnali intermittenti, SOS multipli, corse affannate, villaggi pitturati da una mente consapevole che il paesaggio, per poter essere comprensibile, vada vissuto. Ed ecco che l’artista si butta, con un paracadute che arriva di sicuro dai primi anni Settanta, nelle articolate strutture elettroniche, capace di convogliare beats strepitosi, un drumming fantasioso e potente, chitarre acide che lavorano per sfibrare i nervi della storia inglese, per stabilire il recinto della sua mente fervida e fertile. Si ha la sensazione che siano venti e non sette le canzoni che possiamo ascoltare: un dato che già rivela la potenza di un disco che è un trattore intento ad arare gli ascolti sino a trasformarli in obbedienti granelli di terra.

La voce, il cantato, i testi: da quanto tempo il Vecchio Scriba non sentiva un compattamento del genere, con la capacità di commuovere, preoccupare e far interrogare? Colpisce come la drammaticità si coniughi a una stramba dolcezza, un veleno che pare mutare verso il liquido che può ricordare la fragranza di profumi che sanno stordire.

Il registro è spesso alto, la metodica è quella di paroli brevi, secche, ben pronunciate in inglese, e la sapiente e davvero profonda capacità di divenire un corpo unico con le musiche. Esiste una sacralità in questo disco, un utilizzo davvero effervescente di cambiamenti strutturali che allargano il campo di azione delle possibilità: è come abbracciare un fucile e trovare nella canna proiettili di tipo diverso e, quando il dito preme il grillento, l’esplosione è un arcobaleno in bianco e nero che sfida quello colorato.

Senza esitazioni andiamo a metterci nei pressi di queste fragorose e ben pettinate composizioni, per poterci cibare di un lavoro che mi auguro riesca a incuriosirvi e a dare materia ai vostri impulsi, con l’intento di essere alla fine dell’ascolto maggiormente disciplinati nell’accogliere un album così potente…


Song by Song


1 - Eternal Internal Fight 

Un synthpop iniziale in odore di Human League scuote subito la pelle, che con il passare dei secondi si ritrova addosso lacrime di un electropop in fase perlustrativa. È come se ascoltassimo il silenzio sacro di una processione di intenti fuori da un capanno abbandonato.


2 - Can’t Go On Can’t Let Go

La rincorsa del post-punk più sottile, il suo latrato che inquina il sole, ci presenta un brano nel quale la chitarra esibisce con grande intensità la storia del suo sviluppo, con un cantato che, modulato, potente e a tratti sguaiato, impressiona. E quell’arpeggio che si presenta prima del ritornello odora di immenso, come gocce che dalla storia americana dei Television arrivano ai giorni nostri…


3 - White Walls

Si parte dal 1971, l’anno in cui nacquero i Suicide, e si raccolgono per strada chitarre acide, un loop che ossida e corrompe. Poi la chitarra allarga la sofferenza e fa cadere tutti i mattoni di queste pareti bianche pronte a tingersi di grigio…


4 - The Dance

Torna il duo di New York (Suicide) il tempo necessario per mostrare l’inizio di un ululato che pare avere tentacoli di generi musicali compressi, intenti a tener segreta l’origine, in un trambusto che rimane convincente per tutti i centocinquantadue secondi…


5 - Catholic Guilt

Ecco la canzone più intensa e seducente, una estensione di elementi concentrici che abilmente fanno uscire bolle di ossigeno: tutto è qui in attesa di graffi e indagini sonore che smantellano molte convinzioni. Appaiono gli Ultravox, si sente l’operato dei Cabaret Voltaire nel cercare un concetto e definirlo, per poi entrare con il cantato quasi comatoso nella poesia dell’indagine. Il ritmo è una scorribanda, tra altalene e tuffi nel vuoto…


6 - This Is Not A Game

Gocce di noise provenienti dalle balbuzienti labbra dei Liars sono solo il pretesto per scrivere un brano drammatico, dal ritmo sincopato, dai beats minimalisti ma alquanto efficaci, per dare poi alle chitarre la possibilità di generare uno splendido caos stellare…



7 - All These Sufferings Must Lead Somewhere

Trecentouno secondi di pura ipnosi, con svariate modalità, all’insegna di un ritmo lento ma astutamente prodigo nel convogliare l’attenzione verso un gioco analitico dove solo la voce sembra voler spaziare tra la dolcezza e la malinconia. La chitarra, uscita da Seventeen Seconds dei Cure, fa da collante a questa strategica dispersione di semi, in un vortice dal climax intenso, travolgente e mistico. Si piangono lacrime di metallo, si vive la frustrazione di dolori che si acquattano come iene in attesa che la nostra debolezza li convinca ad attaccarci…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Aprile 2024


https://open.spotify.com/album/3H2W22PIH9hkzHatz8UlDv?si=clRCrtCtSwWt-Z0fjjGvdQ

lunedì 8 aprile 2024

La mia Recensione: Estetica Noir - Amor Fati


 

Estetica Noir - Amor Fati


La gioia e la dannazione della vita è tutta nelle mani grasse e velenose del tempo, colui che rimane giovane, immortale e ha il dono di far nascere esistenze e di condurle alla morte. 

Su questo egocentrico ed egoista essere, maligno e generoso, si è concentrato nei millenni uno studio profondo, specifico, che non ha saputo cambiare le cose. Non si è nemmeno imparato ad accettarlo, tutte le fatiche sono scivolate nella disperazione, anche nella rassegnazione, e ognuno di noi olia i meccanismi dei propri sogni per trovare forza e consolazione.

Che è quello che ha fatto la band torinese Estetica Noir, nel suo nuovo lavoro che altro non è che un concept album che affronta parte delle tematiche citate, per divenire, attraverso queste nove composizioni, un punto di riferimento, di partenza, un semaforo celeste al fine di ripartire verso una coscienza che rischiari le tenebre e le faccia arrendere un po’.

Amor Fati rivela attitudini completamente diverse rispetto al passato, una costante pressione nei confronti della forma e del contenuto con l’abilità di attraversare il tempo anche musicalmente parlando, con appigli nobilissimi e riferimenti che sanno come far apparire l’insieme come un quadro raffigurante il passato già immerso nel far breccia verso il futuro. Meno cupo, meno legato a cliché di impronta gotica, questo disco osserva, descrive, amplifica l’obiettivo di non provare vergogna nel visitare prospettive diverse, finendo per scaldare i muscoli del cuore e aprire i corridoi della mente. 

Il percorso rivela maturità, ingegno, elasticità sensoriale, incursioni in territori poco praticati dal gruppo in passato, una semina di nuove esperienze che edulcora il linguaggio artistico e lo rende forte, preciso, dinamico e coinvolgente. I generi musicali di cui è composta questa perla sono un abbraccio climatico, umorale, con l’abilità di cucire questi notevoli fluidi con una produzione eccellente per mano di Riccardo Sabetti, un mago al servizio della bellezza e del valore del materiale scritto da questi quattro psicologi sonori.

Ci si commuove con l’elettronica, i beats, i flussi siderei di una nuova faccia liquida della synthwave, qui capace di rivelare nuove dinamicità. Il tempo, dicevamo. Ecco: la setacciatura compiuta mostra anche nei confronti della musica l’abilità di renderla sognante, fisica, veemente, criptica, animalesca con garbo, in una furia che sembra un dizionario di semiotica, un amplesso sanguigno che non risparmia energie per rendere il tutto comprensibile.

Canzoni rabdomanti in cerca di luce, di una illuminata dimensione che strutturi il tutto verso la dilatazione, con la sapiente manovra di rendere anche le gambe, in costante movimento, capaci di danzare per rendere lieto il più possibile l’incastro di argomenti impegnativi.

Si noti come le chitarre siano compagne di viaggio, complici di un ensemble che è strutturato per far vincere le composizioni: anche sotto questo aspetto la maturazione è evidente, porta, oltre a una novità, la volontà precisa di curare gli argomenti con una divisione dei compiti che non cede a nessun ricatto. E la voce è un ciliegio in fiore in grado di interpretare molto bene la fiumana di parole vitali e profonde, interessanti, ben scritte e ottimamente espresse in una modalità che mostra una stratosferica densità.

Il godimento dell’ascolto passa attraverso le varianti, le corse e le passeggiate nelle atmosfere molteplici, in un flusso ventoso che porta a bordo temperature e oscillazioni emotive aperte verso l’aggancio con strutture che, anche se ricordano cose che abbiamo già sentito, la band sa esprimere meglio, per un risultato che inclina la soddisfazione nella commozione: ci sono brividi ricorrenti e stordimenti che baciano stupori, con la certezza che sia, tutto questo, solo l’inizio di un cielo nuovo che loro hanno saputo inventare…

Il Vecchio Scriba è certo del valore di questo album, lo è molto meno della capacità della massa di attribuirgli il plauso che merita e l’usufrutto, in quanto, per davvero, queste canzoni sono docenti universitari, informazioni indispensabili per maturare una crescita che indirizzi l’esistenza nell’associazione della realtà e del sogno in un nuovo Eden…


Song by Song


1 - Burnout

Why did the screen become your god? Why do you show guns instead of love?”

Ed è subito tempesta, spettri ebm e synthwave acida adunati in un assolo corale di urla che girovagano nella notte per donare frutti consapevoli da innaffiare. Giochi di synth come raggi di temporali e la voce che, raddoppiata, si insinua nella testa mentre si danza già sconvolti… 


2 - Pain

A lot of lies ruined my reputation. Art brightened my empty days.

I couldn't be all I wished. Fragile dreams.”

Lo stupore diventa consapevolezza, l’odio, la vita, la solitudine, l’illusione, il tutto viene confiscato da questa corsa melodica che, tra coldwave col trucco serale e un gioco elettrico che giunge dalle sponde germaniche degli anni Ottanta, rivela un’estasi nevrotica che rende stremati ma di fronte alla verità relazionale.





3 - Summer Shine

You were the danger I loved, the dreg, the alien god, 

you were the pleasure of someone who dares.”

La canzone che più mostra l’impatto con l’italo disco degli anni Ottanta per poi planare verso i confini che i Depeche Mode non hanno mai saputo perfezionare, è un vapore pieno di artigli che ha scelto di essere più lento rispetto ai due brani precedenti, riuscendo a seminare tensione e interesse, anche attraverso un cantato che mostra notevoli differenze rispetto a tutta la carriera vocale di Silvio Oreste.


4 - Faded

I'm afraid of dying when this time will end. I want to play again.
Can you hear me? I'm fading away.”

Ecco il dialogo con Dio, un faccia a faccia velenoso, dove la volontà umana si precisa con il suo ardire, con la provocazione, con lamentele sapienti. Si danza con un format che sprigiona gioielli synth e un basso struggente e malinconico, creando una culla tra i precipizi di un testo meraviglioso.



5 - The End of Moraliadays

Whenever you'll cry and whenever you'll smile, you know that I will be proud of you.”

Cambio di atmosfera, il coraggio di una disponibilità alla comprensione umana che addolcisce e ci rende teneri cuccioli contenti e sicuri dell’amore. Una coperta mantrica si prende il nostro stomaco, scintille di synth di provenienza Orchestral Manoeuvres in The Dark miscelate poi a un sottile lavoro di diminuzione degli strumenti per poi riprendere e condurci verso la fine del giorno rendono la canzone una chicca magnetica.



6 - Iter Vitae

Marco Caliandro è l’autore dell’unico brano strumentale, un crocevia di seduzione che parte dal bacio dei Kraftwerk per congiungersi con esplorazioni ebm flessuose, per fare l’amore con i sogni, in un disegno dove la pellicola di un film muto si prende spazio dentro questa magia surreale…



7 - Strange Hologram

Once upon a time, when the sky was bright, people talked and smiled.”

La Regina dell’album, la Dea della consapevolezza che distribuisce decisioni e impronte notturne, porta se stessa nel giorno. E lo fa con diramazioni elettroniche quasi sospese, mentre le parole sono tempeste senza resa…



8 - Stockholm’s Azure

Where do we go, now? Life is too short to give up, we must stand.”

La permanenza, la lotta, il senso del tutto trovano modo di suggerire un’orgiastica scia sonora, impulsi atavici perlustrano i passi della vita attraverso questo delirio, un up and down che evidenzia un cantato vitaminico e il sollievo di un pentagramma che contiene ricche fasce di luce e tenebra a braccetto.


9 - The Cell

“Do you think to have a choice? Walls of lies surround you.”

Questo gravido tempio di brillanti si conclude con una pioggia lenta e invernale, verso sera, nel momento in cui è concesso in quanto la verità non si può mettere a tacere. La band sfodera un fascio sonoro brillante lancinante, umido, lento, una stella cometa che oscilla come i migliori Placebo della svolta elettronica seppero fare. Ed è un armonico abbraccio tra lacrime e poesia piena di gramigna…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
9 Aprile 2024

martedì 5 marzo 2024

La mia Recensione: Sacred Legion - The Silent Lineage

 



Sacred Legion - The Silent Lineage


“Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti”

Jean-Paul Sartre


Una corsa corsara, le vie buffe di un passato che flirta con le ferite si catapulta nel groviglio nevrastenico di musiche col rossetto, perfettamente fissato al mistero che resoconta se stesso, nell’impermeabilità assordante che frattura attese e pretese.

Dalla provincia di Frosinone tre figure adulte lavorano al tornio, circondano i fianchi dei luoghi comuni che vorrebbero avere sempre la certezza che ogni definizione non possa essere scorretta. E allora la fantasia povera al potere parla di  “Death-Rock, Dark-Wave, Post-Punk”, come impeto di volgare approccio. Ma la band ciociara non ha nel repertorio la necessità di viaggiare con l’identità definita dagli altri: il terreno di manovra è assolutamente improntato su una libertà obbligatoriamente limitata perché necessaria a descrivere le derive umane, dove la consolazione e la cultura, di derivazione letteraria, favoriscono confini maggiormente precisi. Il sacro spazio temporale governa gli spasmi liturgici di composizioni che fanno arrendere ogni circolo vizioso. Sono molto distanti quei gruppi di riferimento ai quali la band di Fabiano, Mirko e Tony vengono associati. L’album è uno scatto da centometrista (data la brevità dei suoi ventiquattro minuti) ma vive della propensione del maratoneta, visto che l’ascolto, quello ripetuto attentamente, mostra l’attraversamento della storia, con la geografia che costruisce fattezze fisiche, sino a dare ai volti una luce che rivela complessità. Tutte le otto canzoni preconizzano un futuro da marchiare nei loro percorsi intellettivi. I tre puntano le proprie raffinate abbondanze stilistiche per accerchiare la realtà, frenando i postumi della sbornia stilistica di diversi generi musicali. È attesa orgasmica, è precipizio di un raffinato combo abrasivo, con le chitarre che martoriano il vascello di impulsi nati nella ricerca. Fabiano articola i pensieri con impeto luculliano, scartavetrando le banalità.

I suoni curano la strafottenza, si dipanano nella scuola di una modalità che favorisce una strana forma di “orecchiabilità”: alcuni ritornelli sembrano favorire l’espressione di “pop gotico in cerca di sbavature imprecise”, una modalità che può far avvicinare anche chi è meno avvezzo a queste inclinazioni climatiche e sensoriali, a questi testi che sondano e portano alla luce un bisogno famelico di congelare le verità.

Cinque parole si ripetono due volte, generando una planimetria degli indirizzi mentali.

Heart - Eyes - Life - Back - Dream.

Eccole, queste regine mastodontiche, che pilotano nel marasma di un lieve cut-up un ordine preciso di intenzioni.

La musica non compie panegirici, non potrebbe: rivela, rappresenta, seduce, martella, graffia, collega l’umore e gli odori di quella scrittura con cui dialoga, combatte, stabilisce patti sanguigni. Il basso di Tony, con fare querulo, riesce ad avvicinare l’apparato uditivo al martellamento con il fiato grosso. La batteria di Mirko è scaltra, usa toni di lancette impervie, caparbie, dove la fantasia di contro-ritmi, stop and go e percuotimenti indagatori stabiliscono l’effervescenza di un tutto che sembra sfuggire a se stesso. Allora si riscontra la notevole dose di spazi che si concedono i musicisti, le pause, gli ingressi e le uscite che fanno da colla alle intenzioni. 

The Silent Lineage non segue il pellegrinaggio di band vedove del passato, non torna indietro a rovistare tra le stelle e i rifiuti, né tantomeno salta nel futuro come un canguro ubriaco. Definisce l’immediatezza, documenta, sapendo molto bene che gli stupidi cercano riferimenti, impedendo di individuare la verità e la realtà.

Ed è qui che la band evidenzia la propria lealtà, la capacità di cadere nell’imbuto restrittivo dei generi musicali, preferendo  adottare il sudore, il silenzio, il caos che unisce le anime nei territori famelici delle sessioni di prova. Assistiamo, dunque, all’uscita del seme della loro grandezza, quella unicità che collega la ricerca e che sodomizza l’indifferenza. 

La brevità delle composizioni offre la possibilità di meglio storicizzare i graffi, gli urti, gli inchini ai sogni, fraudolenti, tiepidi, che si tuffano nella vita con poco fiato.

Giocano, dipingono, pastrocchiano con la storia indirizzandosi verso una modalità restrittiva: non abbisognano di ridondanze, di effetti boriosi ad annullare i sentimenti. Ecco, sottolinerei che la compattezza nasce dal cancellare l’ipotesi che la loro musica sia una passeggiata sonora, come abiti in cerca di applausi.

Assolutamente no: chi ascolta queste otto canzoni vede pochi raggi, ma nella loro potenza la verità viene colta ed esposta alle torture, che sono magie (non bianche, tantomeno nere), permettendo all’apparato artistico di essere una profilassi precisa di una ricerca che cura il dolore.

Quando ciò che si sperimenta è privo di istruzioni lo sbandamento diventa la gioia più sublime: perdersi diventa una risorsa e i Sacred Legion sanno come raggruppare i sensi, nel disarmonico e meraviglioso peregrinare notturno,  con sottili ma potenti intuizioni. L’album interroga, esorta, non pretende, offre sciamaniche propensioni al rifiuto della storia nella sua manifesta violenza e per meglio indicizzare l’ascolto struttura la musica nei pressi di stagioni che miscelandosi, cadendo, diventano irriconoscibili. L’inverno è la stagione di queste perlustrazioni. Andiamo ora a seguire le loro impronte e le spine, una ad una…


Song by Song


1 - Flower Phantoms 


L’ingresso di questo vulcanico processo è lento (il brano con il minutaggio maggiore), come una strategica mossa nucleare, incanta con un arpeggio della chitarra e una marcia marziale della batteria, per ossequiare il suono nei tintinnii che circondano le percezioni. Poi, come una scimitarra che scivola nelle vene, si assiste all'accelerazione ed è un salto nel ventre. Si gettano i semi, nel ritornello, di una modalità che prevede due voci nel canto, quasi a gonfiare l’ascolto per una migliore accoglienza. Pilastro, piombo, indice di una direzione che amplierà la propria energica propensione ai suoni roventi.


2 - Back to Nowhere


I tre diventano corsari, la chitarra e il basso sposano l’elettrica danza, con il tappeto ritmico che riduce le rullate e offre battiti potenti e secchi. Sono graffi epidermici che creano una collisione, frantumando lo spazio cognitivo, tornando, alla fine, in un luogo capace di disperdere ogni punto cardinale.


3 - Purify


La ricerca melodica, iniziale, presenta un avvicinamento alla cortesia, alla facilità di chi patisce questo tipo di propensioni sonore. Ma la band si rifiuta di risultare semplicistica e scaraventa via l’inizio nel turbinio di suoni famelici, feriti, mentre perdono la gravità. Proprio qui, in questi pochi secondi, il drumming torce i passi del ritmo e diventa il sovrano che governa la chitarra e il basso. Il cantato conosce la discrezione, si tuffa nella disgrazia con eleganza, senza urlare, seguendo il piombo delle parole…


4 - Dig Me No Grave


Centimetri e metri di glam rock precedono la progressione, consentono al basso di struggersi in una distorsione epica e poi via, come in un giorno di dolore senza termometro, nei confini esponenziali di un rock orrorifico che martella le caviglie.


5 - A Taste of Turmoil


Scivola la gravità, il brano diventa una recita post-mortem, un calvario di sbalzi, che portano alla memoria i graffiti del secondo album dei Killing Joke e i primi vagiti dei Southern Death Cult, ma niente si stabilizza in quei pesanti macigni e, come scelta obbligata, i tre marinai decidono di inventare onde sonore che li conducano nel sottosuolo terrestre: la velocità, che pare il pilota di questo naufragio, in realtà è data dalla scrittura di un testo pieno di miracoli radioattivi.


6 - Black Sun Ritual


Echi di Punk Islam dei CCCP aprono le danze, mettendo distanze tra loro e la band emiliana. Tutto diventa mistero, il sangue esce scosso, la lentezza, il crescendo sonoro stabilisce un piano strategico: tutto deve arrivare come un’ipotesi e divenire preciso come una forma di preghiera. Un sibilo pilota il fare impetuoso e la rarefazione sonora scende sino a incontrare il basso che scoperchia il passato di questo impeto sonoro. Invece della chitarra, a essere grattuggiato è proprio lo strumento di Tony che marchia la pelle. Come una sfida, per essere decisiva, la canzone offre ampie sfide musicali, con il cantato di Fabiano che scompare verso la fine, come risucchiato in uno strano e mefistofelico rituale.


7 - Hole In The Heart


Il botto sopra il cielo di Frosinone: con l’attitudine di un grappolo di centimetri hard-core, il brano presenta la coesistenze tra l’ardore e il rifiuto, con i suoni che circoscrivono perfettamente le parole. Nella ricerca stilistica, si noti come il brano si autosospenda, per tornare al graffio del giro armonico iniziale sino a ospitare una brillante voce femminile che spiazza e conquista.


8 - Shards


Si giunge alla fine di questo affresco maledetto in stato di grazia con la canzone che offre i propri fianchi a diversi, probabili e scontati accostamenti, ma il Vecchio Scriba li rifiuta. I tre non cercano originalità, vette dalle quali guardare con boria eventuali colleghi sconfitti. Si gettano, invece, nel labirinto lavico per lasciare la scia di ruvidità sibilanti, per stordire, non di certo per ammaliare conferendo così alla composizione un brillio, che la distingue dalle altre. Esperimenta, coglie la chance di un divenire e scrive il futuro di questa band che ha esordito facendo tremare la notte…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Marzo 2024


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-silent-lineage





domenica 11 febbraio 2024

La mia Recensione: Thalatta & The Babasons - Uanema

 





Thalatta & The Babasons - Uanema


“ ’A troppa derettèzza fa trasì ’ncurrìvo” - Chi vuole fare troppo il furbo finisce col dare fastidio a tutti.


Detto Napoletano


La polvere della precipitazione, dell’arroganza, della violenza ossida il cielo e la terra, nel tempo di un degrado in salita e in discesa.

La musica potrebbe raccontare tutto questo, ci prova, sbagliando spesso a puntare il mirino, disperdendo un compito che l’arte non può negarsi. In arrivo sulla nostra disordinata propensione alla dispersione un album che è un lavoro pregno di anarchia, imprigionato nei limiti dell’uomo che la nega, fisicamente, mentalmente sino a farlo anche con i sogni. Sono storie che attraversano il tempo, come furti autorizzati per spiegare la dannazione umana, utilizzando sistemi multipli che arricchiscono la comprensione. 

Pare di veder passare tra le strade di Pomezia LA VECCHIA ‘O CARNEVALE, la maschera doppia che comprende una vecchia signora e Pulcinella sulle sue spalle, mentre con le sue nacchere (le Castagnelle) porta a spasso racconti, scherni, frustrazioni e scherzi per svelare l’inettitudine locale e non solo, come uno sguardo che svela e abbatte le maldicenze. Il titolo del lavoro è una esclamazione di stupore, di sorpresa (Wow, Dio mio…eccetera) ed è quello che sa generare nel cuore del Vecchio Scriba: gli alimenti con cui il tutto viene presentato spaziano, spezzano il fiato, come spezie miracolose che sanno cambiare perfettamente il gusto per ordinarlo, assemblarlo e tributare l’applauso del palato. Un disco che parrebbe essere una sessione serale di prove tecniche per un concerto: via la tecnologia, i software, la produzione che gonfia un prodotto e nasconde le reali capacità rappresentate. Semplice, diretto sporco, senza artifizi, decolora gli inganni e mostra i pugni, con testi che eseguono autopsie continue, e musiche capaci di camuffare combat folk con un rock esagitato e violento a tratti, dolce in altri. Ma c’è un sudore che cade sugli amplificatori e che ossida le bugie, le finte strutture e offre alla musica la verità. 

Uanema è un virus benigno, malefico, un cantautorato fine che si tuffa nella forma propulsiva dello scontro, del disturbo, sequestra l’inutile e presenta il conto, tra solitudini, voli angelici, traffici loschi, disperazione e soprattutto una abbondante dose di rabbia educata alla costruzione di un cambiamento, prima individuale e poi collettivo. Chitarre che partono dagli Smiths per arrivare alla Darkwave, al proto-punk, sino ad afferrare per i capelli l’alternative, sviluppando tra le sue trame fiumi usciti dai vaporosi anni Settanta. Il basso è un animale libero di ferire, con dita prensili, soffocanti. I due strumenti coesistono perfettamente in quanto privi della morbosa attenzione verso gli effetti: scevri della finzione, seguono una linea diretta che impatta e finalmente ci sgombera dall’ingombrante moda attuale. Il drumming è un vomito integro, spavaldo, concentrato, con la tecnica del cuore che spazza via la storia. 

La voce è una forma epilettica, che veste la passione e si appiccica ai colori, divenendo sempre di più un termometro che rivela calore e meditazione, tra slanci e frenate proficue, moderata e potente, fissa l’ascolto nel pianto a dirotto, mai sazio, nell’applauso delle emozioni che sa procurare.

La lingua napoletana e quella italiana si schierano dalla parte del sostegno ai concetti espressi, alle storie, alle favole sbilenche che debbono essere raffigurate attraverso una scrittura molteplice, mai avversarie, ma portatrici sane di ricchezza. La musica pare essere la prima risorsa ubbidiente a queste avventure, la radiografia pulsante che ipnotizza, non divaga, sempre certifica la verità che trova nei versi e nei percorsi ritmici e melodici un sostanziale bacino espressivo, dove si pescano elementi che ci rendono più maturi. I brani sanno spesso presentare, al loro interno, cambiamenti di atmosfera, di ritmo, con splendidi controcanti e cori che danno all’insieme una forma di completezza che non abbisogna di sovrastrutture. Canzone dopo canzone ci accorgiamo della loro attenzione per la storia di personaggi che provengono anche dal passato (Villanella sballata), in una processione di morali e accadimenti che si scambiano il palcoscenico, tra l’ironia e il polso fermo. Nulla vacilla, non esistono momenti di decadimento artistico: come se le nostre mani, in questi trentasette minuti, continuassero ad arrossire e i nostri timpani a raccogliere le scintille di fuoco che queste parole e questi movimenti musicali vogliono generare. Ci si sente come tramortiti, accarezzati, tra feste e giornate in cui la solitudine ha il significato di emarginazione: i quattro di Pomezia lottano, urlano, si arrabbiano e cercano di creare una nuova sensibilità utilizzando la realtà, le leggende, le storie, le tradizioni di luoghi che paiono sempre più allo sbando. Si oppongono: ascoltate con attenzione come i loro flussi coscienti creino dipendenza, attraverso gli arpeggi della chitarra e i pugni di Thalatta, Dea che sta tra il nero e il bianco, creando vortici di grigio per sveltire una presa di posizione. L’emozione di questi brani è solo la fine di un abito nuziale, la sua coda, in quanto, se si presta accurata attenzione, ci accorgiamo di come il tutto venga messo sul fuoco, per scaldare una sensibilità che la musica moderna non offre più. Il disco italiano più necessario di questo 2024, e non solo, è qui, attivo, votato allo struggimento e al consolidamento di necessità che abbiamo disconosciuto. Otto attestati intellettivi spalancano il centro del sistema nervoso centrale e lo mettono innanzi a una scelta: o avviene uno scatto interiore o si muore…

Quello che arriva è un terremoto proveniente dalla coscienza, alleata in modo magico alla storia dello sperpero, e il risultato è una collezione di brani come perle vere, senza prezzo: sta a noi nutrire il risveglio, e questo album ci presenta il conto, cercando di dare alla resa, alla pigrizia una serie di sberle più che meritate. Grinta, passione, metodo, nel progetto finale di un lavoro che disintegra il superfluo. Non vi capiterà più di ritrovarvi tra fiumane espressive che sono volte a destabilizzare l’inutilità quotidiana…


In conclusione: quando l’arte sveglia i battiti cerebrali, quelli del cuore si aggrappano a essi come un circo gioioso dove la maturazione è l’unico obiettivo raggiungibile. Un’opera fuori dall’ordinario, un vascello temporale che ci mette sulla rotta di una crescita umana inespugnabile….


Album Italiano del 2024!


Alex Dematteis 

Musicshockworld

Salford

11 Febbraio 2024


https://thalattaandthebabasons.bandcamp.com/album/uanema-2




La mia Recensione: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

  Sinéad O'Connor - The Lion and the Cobra In un mondo che cerca la perfezione, i capolavori, lo stupore garantito senza dover fare fati...