Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin
Nel caos del disagio, esiste un corrispettivo silente e un programmato attrito, che disarciona il sapore acre della rabbia, come un’ostinazione che va esposta, già crocifissa.
La band Edna Frau stupisce ancora una volta, per un fatto davvero desueto che va necessariamente spiegato.
L’album di esordio di quasi cinque anni fa, My Ego is Bigger than Yours, pareva un secondo se non addirittura un terzo lavoro, per la sua elaborata propensione a muoversi dentro zone multiple, come in cerca di un aeroporto musicale dove poter esporre la fiumana di idee, presentando la piacevole difficoltà nell’accogliere grandi canzoni ma forse strutturate come un atto di presenza. Non un difetto, per carità, tuttavia nella sua incandescente bellezza si fatica a sostare.
Invece ora pare di trovarsi davanti a un incrocio da attraversare con il rosso e il nero, senza indugi, con quella irruenza giovanile che vuole smuovere le acque del cielo.
Un progetto robusto, rovente, appassionato e sofferto, però il dolore non è un lamento bensì una benevola forma di integrazione con gli sviluppi di sogni, incubi, accertamenti, attestati ironici e il guitto di una mescolanza musicale ridotta e comunque maggiormente in grado di insinuarsi nell’accoglienza di un ascolto che è educato a considerare le basi trasformative di un post-punk connesso in modo diminuito all’elettrodark che era molto presente nelle tracce dell’esordio.
Ci si ritrova così nel viaggio ondivago tra la Germania, gli Usa e l’Inghilterra, come una lampada che acceca per poterci far vedere solo l’indispensabile.
Stupisce come i testi di Vins Baruzzi e le musiche di Andrea Fioravanti sappiano esercitare il bisogno di guardare verso la schiena del tempo e dei luoghi.
I punti di contatto ci riportano alla entusiasmante parentesi dei tedeschi Stimmen der Stille, così come agli Actifed, ai Brotherhood of Pagans e ai Sound degli esordi.
Ma è solo una finta, una scusa, perché i ragazzi usano la musica come razzi, riflessivi, per colpire la stagnante inattività del cervello.
Si spiega in tal modo la scelta delle chitarre di essere acido rovente che spara note come una baionetta, e la voce che nella sua teatralità ritrova i Killing Joke per il tempo di creare storie nelle quali l’accattivante cattiveria è solamente l’inizio di un incendio.
Musica come una rasatura inevitabile, con il nerbo caldo di vicende colme di saturate delusioni. La band suona come se fosse un’edera incattivita dal clima, porta il suo carico vitaminico nelle frustrate di un drumming che non ci fa danzare bensì rovistare nella nostra esigenza di portare la malinconia altrove. Il basso è una fabbrica di olio nero, che conserva il sapore degli anni Ottanta, mentre la chitarra ci scaraventa nel silenzio di dita che parlano un linguaggio che ci conduce ad accogliere un’anima colta davanti a un palazzo mentale incandescente e in fase di tremolio.
La voce e la modalità del canto è un labirinto rimbalzante, scarnifica e ci riporta sull’attenti, ospitando una dolcezza elaborata da testi che, finalmente, sentenziano, e la morale viene esposta, come è giusto che sia.
Anche solo per tali motivi quest’opera andrebbe mummificata nelle nostre orecchie, sviluppando, coscientemente, un grazie ispirazionale e devoto. Ricchezza e fragore qui superano di netto le sei creature artistiche: la sensazione è quella di sostare nel tempio desertico di un silenzio che alza le tende, in quanto ogni traccia ha nel suo dna un senso fertile della disamina, del disgusto, palesando l’allergia per il pop e prendendosi, prepotentemente e in modo meraviglioso, la possibilità di divenire ipnosi, nel sodalizio del matrimonio perfetto tra l’arte espressiva e l’ascolto.
Un disco pazzesco, per l’abbondanza di estasi razionale, per gli ingressi di ricordi che sembrano attuali, per la teatralità dell’impianto musicale che raccoglie l’elettrica danza e la commistione raffinata di un rock maturo con il cappotto grigio e il bavero nero.
E quando le stilettate ci riportano agli amati Belfegore del Vecchio Scriba, ci accorgiamo della convivenza, in modo meno esagerato rispetto al primo album, di quella ondata magnetica di electro band degli anni Novanta che conquistavano le dance hall ma non l’anima…
Lo spazio americano del disco si nota quando si riscontrano punti di contatto con la formazione Californiana Burning Image: ed è un sorriso del petto mentre affitta graffi nella mente.
L’energia di queste sei canzoni va oltre la bellezza: il buon gusto del gruppo di essere meno dispersivo ha segnato la convivenza con la schiettezza del loro sentire interiore.
La perfezione è stata raggiunta: abbandonata definitivamente l’idea di uno spazio musicale italiano, i ragazzi diventano piloti di uno spazio emotivo che si abbina in modo ricco a quello mentale: fuggono, fanno scappare, per poi presenziare, nella addomesticata ma elaborata forma canzone, al loro diniego nel cratere centrale dell’album, che andremo ad analizzare tra poco.
Significativo, nel cantato di quasi tutti i ritornelli, l’accostamento, nobile e rilevante, con la modalità espressiva di Mark Burgess dei mai dimenticati The Chameleons.
Ma è solo un attimo: Vins si nutre del suo immaginario e sposa le trame stratosferiche di Andrea rovistando nel suo presente. Ecco l’ennesima sorpresa, l’irruente capacità di spodestare i paragoni.
Le note musicali sono tutte parole gravide di urgenza e metodo, i testi sono amplessi sonori che tengono per il bavero la pazienza: un disco che va di fretta ma che è fatto per anime che sanno espandere la calma…
Passiamo ora all’approccio di ogni truciolo di questo lavoro: fate spazio e abbracciate questa band perché le lacrime, quelle migliori, non sono mai rispettose…
Song by Song
1 - The Laundry Of Sins
“If you need color sin wash
or are you here for black or white?”
Una rovente corsa, imbastita da un basso velenoso, ci conduce a sentire una modalità di canto prossima al buon Vanian dei Damned, mentre la struttura corrosiva della chitarra pare nascondersi. Invece è un veleno che fa il paio con il testo, uno schiaffo all’esistenza altrui, alla volgarità e alla sporcizia attitudinale. Un maestoso palco dove vengono esposti, con saggezza, dei saliscendi dinamici ben strutturati e, in mancanza di una falsa eleganza, la band vira verso una totale e devastante sincerità…
2 . Slow, Be Gentle I Am Virgin
“It’s time for my heart to know who you are”
Il ritmo sincopato potrebbe convincerci che l’insieme stia per rallentare l’intensità ma, davvero, assistiamo al suo clamoroso opposto: l’enfasi si presenta nel basso gracchiante, nel cantato a un registro vocale più alto e solo apparentemente più melodico. Il drumming è un insieme di alberi che hanno la funzione di catturare l’eccitante esposizione di un antico post-punk in cerca di vendetta. Il titolo, ironico e sarcastico, è solo una goccia di un oceano razionale che, come un bandito, non desidera l’approvazione ma vittime…
3 - See Me
“Taking off with your dreams
throwing away problems”
Si va in Germania, si vibra con una propensione alla drammaticità che stuzzica la pazienza, con il crollo del muro della visibilità, con l’immenso approccio (che non è mai un didascalico trucco) di un ritornello che abbraccia la foresta nera e la Dusseldorf più meditativa. Una cavalcata anomala di una chitarra che si appiccica al rumore e all’evasione in modo spettrale…
4 - Again
“Again a bad choice
they will be tests of survival”
Un gioiello in odore di Echo & The Bunnymen nel suo inizio, ma poi capace di sostare nelle zone terremotate di uno stile chitarristico più attuale, con inclinazioni darkwave e l’anima imbevuta di riverbero. L’episodio più esasperato dell’intero progetto ci offre la possibilità di una riflessione attraverso il gioco perfetto di altalenanze espressive. Epica, devastante, soffocante, la canzone è la ciliegina, in fase di ipnosi, che ci fa andare il bolo alimentare nei canali della nostra mente.
Chicca assoluta con un finale che pare uscito da Juju dei Banshees…
5 - Day One
“Describe all your feelings and fears”
Ed eccoli i semi del primo album ripresentarsi: l’attenzione nella mescolanza espressiva ci conduce a una elettronica nascosta ma pulsante, mentre il binomio voce-chitarra crea un’abbondante inclinazione all’abbandono metafisico. Una rincorsa, un pianto esasperante viene accumulato in questa semplice ma granitica sequenza di accordi. Il suono diviene così l’anima di una mortalità in cerca di rifugio…
6 - Working On Myself
“Too many thoughts are running in circles inside me”
La conclusione presenta un ospite, un elemento noto per il suo percorso artistico nei Sorry Heels.
Il brano è una ballad cacofonica, un grido lento, un lancinante passo di danza negli echi elettronici e nei vapori di un drumming elettrico e in grado di abitare le zone impervie della lentezza.
Vengono esposti i sentimenti del dramma con stigmate pop innevate di disperazione, per consegnare alla conclusione il rispetto dato da inevitabili riflessioni.
Radiofonico (ovviamente per i circuiti interessati alla divulgazione di una rabbia ammaestrata), magnetico e fluttuante, quasi a due passi da un aspetto onirico che mai prima si presentava.
Uno stupore anche offerto da un ritmo che, quando rallentato, ci consente di sentire le varianti elettro-dark della band.
Quando la malinconia crea un sorriso, l’atmosfera diventa un innesto prolifico per il ricordo…
Vins Baruzzi - Voce
Andrea Fioravanti - Chitarre e polistrumentista
Federico Guardigni - Batteria
Dario Foschini - Basso
22 Dicembre Records
https://ednafrau.bandcamp.com/album/slow-be-gentle-i-am-virgin