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giovedì 13 novembre 2025

La mia Recensione: The Black Veils - Gaslight


 

“A volte, la mattina, con il sole, si stenta perfino a credere che ci sia stata la notte”.

da Gaslight, film di George Cukor


I territori sembrano spesso una fionda in attesa, un vulcano discreto e lento in cerca del possesso eterno. In questo il cinema ha dato linfa, ali, catene, spilli e molto altro, finendo per creare un cordone ombelicale con la musica. In questa occasione, per il titolo del quarto album della band bolognese, è proprio la pellicola a stimolare e a proteggere queste dieci maestose composizioni.

Ci ritroviamo anche, però, nella Francoforte della discoteca Ratinger Hof, in mezzo ad anime danzanti, crocifisse dalla paranoia, come esistenze robotizzate e stantie, nel pieno degli anni Ottanta, per ossigenare un funerale e la sua festa. Perché in questo lavoro la morte diviene la benedizione di fortune non considerate, un lasciapassare obbligatorio, gentile e sicuramente accomodante.


Un’opera che dimostra una organizzazione del metodo e, seppur mantenga l’acidità delle traiettorie post-punk, in questo episodio l’alterazione, perfetta e sublime, viene offerta da un’indole elettronica nelle sue numerose forme e ostinazioni, un dark electro che si sposa ad affascinanti scintille synthwave e a grappoli di onde semantiche tipiche dello shoegaze più velato.

Un disco come marea mistica e dolorosa, con primitive purezze in gentili processioni, riportando i transistor e gli amplificatori sul palcoscenico della recitazione più antica. Timbriche squillanti, mantra e loop che si annusano, testi come carbone in procinto di trasformarsi in una sacra cenere.

Non è la vista ma l’udito a essere soggiogato da queste trame, lunghe lame ammaestrate, bensi l’immaginazione, che qui viene espansa e trasportata come un’altalena ballerina, avanti e indietro nel tempo.


Come dei gorgheggi, le canzoni fanno espatriare il senso ormai annoiato del consenso spirituale, creando improvvisi dibattiti dentro la nostra coscienza.

La danza diviene rito pagano autorizzato dall’odierna maleducazione, da storie antiche qui sintetizzate e gettate nei watt e nell’ugola, come una trasmissione dati ordinata.

Ci si ritrova spesso a rimembrare la Neue Deutsche Welle (NDW) e si incontra il piacere del sarcasmo, quello beatamente macabro, crudele ma sincero.

La gamma dei colori, dei suoni, le associazioni, le programmazioni sono parte di una profonda maturità mostrata da questi tre musicisti che sanno esplodere, esplorare, gettare il fango della mediocrità e farla diventare una percussione mentale continua.

Aperture e chiusure nei confronti del loro decennale passato mostrano l'ecletticità, la chiarezza di visioni teatranti, di prese di posizione atte a stordire, coscientemente, ogni certezza. Ed è qui che si manifesta pienamente il loro capolavoro.


Musiche che fanno correre la mente, che la elevano e che l’affossano senza pentimenti. Rischiano, scommettono e se ne fregano, come soldati ligi solo all’obbedienza artistica che non riconosce altri poteri.

Tutto ciò non è niente altro che un arcobaleno in bianco e nero da cui piovono chiodi e coriandoli, per correlare un insieme di cavi elettrici mentali in costante discesa.

Le tematiche dei testi di Gregor Samsa paiono sostenere la gramigna sonora, martellare l’aspetto del passaggio tra la notte e il giorno, tra i sogni e gli incubi quotidiani, facendo sì che Mario d’Anelli e le sue chitarre e i suoi synths siano la musa per il basso selvaggio e spietato di Filippo Scalzo.

L’ascolto di questo disco sembra una maratona in cui smembrarsi, perdere i liquidi e prosciugarsi di ogni banalità.


Severo, spietato, con notevoli richiami a quegli anni così fertili che i tre non hanno esitato a sondare, per poi aggiungere il proprio dolcissimo e tenebroso pessimismo.

Come se Poe diventasse una trinità musicale, senza oppositori…

La paura come risorsa, il dolore l’occasione per cambiare l’abito ai pensieri, in un energetico scambio di fluidi, per far appassionare le danze e portare le anime in un rifugio che non conosce serratura…

Sì, tutto entra e tutto esce da questo luogo marittimo, celeste, un condensato sublime di arricchimenti nebulosi e palesamente in ottima forma per conoscere la nostra sottomissione.

Canzoni come la Rhodolia rosea, per non sentire la fatica dei pensieri, per dare all’umore una illusione ventriloqua.

Si evidenziano iconicità antiche, movimenti oscillatori, una empatica propensione a usare i synth come spazzole vetrate riempiendole spesso di affascinanti movimenti armonici, tuttavia l’insieme si fa illusorio e quindi sublime.


Le note rendono l’aria un parcheggio ovattato da rumori bellicosi, quasi osceni, esuberanti di certo ma, soprattutto, sopraffini forme cristalline, in grado di riempire le parole, di svuotarle, per ripetere l'esercizio con le note, e tutto sembra andare davvero troppo in fretta, dando al nuovo ascolto la possibilità di conoscere infinite ripetizioni.

Oscena e stupefacente diventa la certezza che queste dieci tracce siano un faro del futuro immerso nel mare della musica che fu, come se lo sguardo, della madre leonessa, divenisse un tappeto dove far correre il futuro…

Un lavoro inadeguato per la maggioranza delle anime vuote: per loro l’invito è di passare oltre.

Per gli altri: una lunga trama orgasmatica attende la liturgia dell’approfondimento.

In quanto i tantissimi cambi di traiettoria, di ritmo, di innesto in ogni singolo brano esplicano perfettamente lo studio meticoloso di questi musicisti, artisti che attraverso quest’opera dimostrano come non esista una provenienza bensì una residenza.

Che è soprattutto mentale.


Immagini lunari, notturne, in cui i disturbanti raggi solari vengono mostrati come indizio, prova, riassunto ma mai come ipotesi, rendendo la perfezione cosa umana e praticabile.

Quando il dna post-punk spalanca le braccia all’elettronica, vediamo pillole ebm conficcarsi nei liquidi della sinuosa dark electro, per riempire gli argini e svuotare i dubbi.

Il cantato spesso cerca il riflesso, lo schianto, la forma metrica e la poesia decadente, passando da trame poetiche al registro alto in odore di urlo e vomito, creando un innegabile e immenso beneficio per il nostro ascolto.

Dolente, gravido di artigli, perlustratore dell’animo, questo approccio vocale sembra portare il cabaret dei Virgin Prunes nella pianura padana, come elettroshock desideroso.

Il duo che si prende la responsabilità di essere fionda di vetro respira tra le correnti balsamiche tedesche, come quelle dei Killing Joke, alitando brutalità e impeti, come obbedienza morale all'oscurità, qui portata alla luce con questi zig zag verticali, senza mai dare l’impressione che la stanchezza possa ingabbiarli.


Impressiona il Vecchio Scriba questa pressante forma nei confronti del lamento, mai espresso, mai nella forma dell'invettiva diretta dei testi ma veicolato dai paesaggi sonori. Le parole sono semi neri, aratri, pertiche, sberle di velluto nero: il dolore arriva solamente alla fine…

Concludendo: questo arcobaleno in bianco e nero non ha bisogno dei nostri occhi, gli basta il malumore della nostra ipocrita esistenza per sotterrarci con la sua angelica bellezza nera…


Song by Song


1 - Nyctalopia


La ferocia degli Abwärts, band tedesca purtroppo poco conosciuta, entra nel basso che stupra le orecchie, con la chitarra che diviene un eco del cuore e la voce un gesto nel quale il genocidio viene circondato dai terrifici e pulsanti bagliori della coscienza. Gravido di un tormento post-punk, il pezzo rende compatibile il ritmo e l’ossessione…



2 - Comedy of Menace


Ci si trasferisce al Markthalle di Amburgo: il ritmo e la poesia nevrotica del basso passano attraverso i tackle di una chitarra abrasiva e il cantato diventa la spugna di occhi enormi che sanno mentire in modo perfetto. Il solo di chitarra rende merito a Bill Duffy e il cerchio con gli anni Ottanta si spezza perfettamente.



3 - Gaslight


Moti Coldwave invadono la sala da ballo, il cinema abita le pupille e la salvezza dell’anima passa attraverso il peccato. La musica si presenta come una Bristol immersa nella nebbia, tra dipinti ebm e spazi allucinanti di dark electro in cerca di loop e catene…



4 - Buster Keaton


Si cade: nel testo, nel ritmo, nella esplosiva eleganza di frame nervosi, di paranoia in fila, e i bagliori dei Cabaret Voltaire tornano ad abitare il pianeta della band, con il ritornello che ci fa capire l’importanza degli Psychedelic Furs. Ma tutto è corda elettrica, eclettica, una poesia visiva che corre senza fiato…



5 - The Spectral Link


Non un pezzo cuscinetto, tantomeno un ponte, bensì l’insieme armonico di tre anime che sperimentano il fragore del cielo, mettendo in contatto Alan Parson e i Kraftwerk, ma non nel secolo scorso…

Il futuro non può che essere un disastro e questo brano ce lo rappresenta in anticipo, con colpi di frusta, attraverso un synth che si assume il ruolo di  raccontarlo, in modo spudorato, rendendo visibile (all’inizio) la paura, per poi creare mulinelli e colori che da rosa diventano neri. Tace l’ugola, per un silenzio solo apparente perché tutto diventa frastuono…


6 - Black Kittens Against Privilege


La commozione, la frenesia, l’entusiasmo della morte trovano il vestito perfetto, il giusto racconto, il fantasma che si palesa ridendo tra i solchi, guardando il mondo in bianco e nero. E così fa la musica: una marcia funebre che fa il resoconto della nostra modesta forma di arbitrio. I suoni e le corde vocali diventano una equazione e le chitarre si mescolano al synth per foderare il dubbio. Sconcertante bellezza a cui cedere…


7 - Tightrope Walker


Il vuoto umano, dell'esistenza, qui viene raccontato, come raggi x, come un’analisi del sangue di cui, di certo, non accetteremo il responso. Violenta, nera, psichedelica nell’umore, la  canzone è una frustata generosa al cuore, in quanto il cervello ha già mostrato la sua dipartita… Riportare in vita la Bat Cave con una sola fiamma ossidrica è davvero un miracolo, nero…



8 - Piggies


I D.A.F. prendono in affitto un sogno: tornare a vivere per pochi minuti e lo fanno in questo delirio, per accettare chitarre piene di liquidi shoegaze e benedire i graffi di una metrica vocale che si sposa alla spinta voluttuosa di incredibili e rabdomanti passi a perdifiato…




9 - Have You Seen Bunny Lake?


Si piangono cuori putrefatti, si visitano risate beffarde e si balla come robot senza più il peso dell’anima, nel vortice ebm che cerca il matrimonio con trame chitarristiche ascendenti…


10 - Seed of Revolt


Louis Wain, un gatto, un vestito nero, e l’elegante brano di chiusura ci mostrano probabilmente la resistenza sonora del terzetto bolognose: la ricerca melodica viene riservata all’ultimo brano, con voci raddoppiate, Stop and go e stratificazioni armoniche con il doppio petto, per uscire verso un funeral party che ci rende tutti felicemente depressi…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

14 November 2025


Gregor Samsa - Voce

Filippo Scalzo - Basso

Mario d’Anelli - Chitarre, Synth


Icy Cold Records

Metaversus


https://open.spotify.com/album/2yHLnynl3gYRrYn8gVuQNz?si=zY2YFc2CTWivf6FdAlSZvQ


https://theblackveils.bandcamp.com/album/gaslight-2





giovedì 30 ottobre 2025

La mia Recensione: Òvera - Divergenze Condivise








Òvera - Divergenze Condivise


“Cercami tra le tue dita

e osserva ogni cielo cambiare

e se vorrai immaginare

non potrai mai perderti

perché sarò con te

ad accoglierti”

Paolo Benvegnù - Se questo sono io




Senza nome, con dei germogli: tutto è definito in questa distesa identitaria, di costruzione, l’approccio alla precisione, il vanto di una modestia che rispetta il tempo.

Quest'ultimo, da sempre, ha guidato la formazione pistoiese che, con quarantadue anni alle spalle lo ha sempre definito, circondato, approcciato e rispettato.

La loro storia li conduce ad allungare i propri semi, impeti, caratteri, precisando ogni intento con una classe infinita, distribuendo sorprese, spargendo il sale sui sogni, invertendo la rotta dell'attualità, senza dispersioni di energie, fregandosene delle mode, delle apparenze, sfruttando l'opportunità di nuovi strumenti, mantenendo una spiritualità folk che soffia sulle stelle la sua antica essenza al fine di  divenire un gioco serio per incroci perpendicolari. La loro musica, in questo nuovo strepitoso lavoro, è un’acrobazia inaspettata, una stretta di mano che coccola e scuote, una discarica di qualità in cerca di sistemazione, un dialogo fitto con le osservazioni, le descrizioni, un cancellino continuo sulle approssimazioni, una dolcezza che non dimentica di precisare l’infinita infelicità terrestre, un portare avanti gli elementi che sono ormai senza uno sguardo da parte della maggioranza delle anime.

Il disco è dedicato a Paolo Benvegnù, un altro germoglio infinito che risiede dentro le esistenze dei quattro uomini che in lui hanno trovato un compagno di strada…

Sono brividi, belli, certificati, e il nostro grazie abbraccia questa splendida dedica.

Un progetto che consta di nove nuove composizioni, di una serie di cinture che allacciano il senso dei nostri rifiuti, di indicatori coscienti, di una fertile capacità di scrittura che qui si fa più armonica, totale, in cui ogni membro ha offerto, donato, fertilizzato le altrui qualità per dirigere il tutto verso il mare della completezza. Stupisce come non sia un viaggio tra i generi musicali, bensì un accordo continuo con il necessario lavoro di perlustrazione, in cui le note sono un mezzo parziale, così come i testi: l’insieme sembra una rete in cui le stelle si avvicinano agli occhi delle nostre percezioni, in un dialogo fitto, che sequestra i sensi.

L’elettronica non come mezzo artistico ma come veicolo di luce tra le luci, un imbuto, un abbraccio, una scossa e un sussurro che permea queste creazioni per condurle alla perfezione. Tutto ciò permette al tempo di essere un elastico, una scusa che sublima l’introspezione, per fare di tutte le tracce di quest’opera l’inizio di uno specchio morale e attitudinale.

Canzoni come un martello che, ricoperto di seta, colpisce lentamente…

Tracce come un microscopio lasciato tra le onde del cielo…

Un album come un ascesso, un amplesso, un fremito, una scommessa muta che gira nei solchi per renderci un respiro centripeto.

La storia di questa scrittura evidenzia impalcature, gemiti, e un antico sentire dove nulla deve essere temporale bensì un’aurora boreale dei sogni che qui non hanno bisogno degli occhi.

Le musiche e le parole vivono, molto di più che in passato, di un’azione contigua, continua, di macchie di colori su cui tutti hanno messo le dita. Certamente Stefano Nerozzi rimane il musicista che scrive moltissimo e tuttavia non si ritrova da solo, accerchiato, da parte di Alessandro Pacini e Andrea Signorini, per rendere tutto armonioso, completo, esaustivo, vero, efficace… 

E che dire poi di Pasquale Scalzi con il suo Flicorno?

Un pennello dai movimenti antichi che sublima il tutto con grande maestria…

Note come respiri notturni, parole come raggi solari che non illuminano ma fertilizzano il cammino: un lavoro significativo, disturbante per chi si disinteressa degli odori dell’esistenza e gratificante per chi rallenta le proprie idiozie.

Gli Òvera rimangono nei pressi del senso, della poetica vocazione a suggerire, mai grezzi, mai negativi, sempre volenterosi di essere alunni dentro il mistero dello scorrere del tempo. Un arpeggio, una sequenza di intuizioni, un approccio che non rifiuta le decadi passate, come menestrelli curiosi della novità, ma in grado di incidere con gli strumenti della propria cascina.

Un disco che architetta il vuoto, costruisce dagli sprechi, delle emarginazioni, con attenzioni peculiari e una devota ostinazione alla manualità, al senso antico dell’arte che nasce e si sviluppa nel quasi anonimo luogo del silenzio…

La produzione di Gabriele Gai regala intimità, un collage, un puzzle attento a far combaciare la struttura delle composizioni con il suono, generando un senso logico che protegge dalla fuga. Nessuna canzone regina, tutte vette che si guardano in volto, con il loro percorso, con la magia del dolore che si affianca a quella della verità, molto più valida di quella del sogno e delle speranze. 

Incursioni, come lampi geniali, negli spazi della malinconia, incontri che ispessiscono lo sguardo, con la complessa e grave propensione all’autenticità, che rende il tutto scomodo e facilmente evitabile…

Ma i quattro archeologi del fare artistico hanno le spalle come mattoni, amano la polvere che nasconde, perché consapevoli del fatto che  non conoscono impedimenti per la loro crescita, umana e artistica, che passa anche attraverso scontri, scazzi e dubbi.

Tutto ciò si sente e veicola gioia: una verità senza maschera consente alla fiducia di germogliare…

Gli Òvera diventano un’opera all’Opera, uno spettacolare combo che, dimentico degli amplessi postmoderni, riabbraccia l’antico con i colori del futuro…



Song by Song


1 -Ad un passo da te

Il ticchettio del tempo, un temporale iniziale, un arpeggio medievale e poi via sulle spalle del tempo, il confronto e l’attesa, nello scenario magico di una musica che genera stratificazioni. Come se il cantautorato non dimenticasse le filastrocche, con uno sguardo alla successione di accordi che consente, in questo episodio, sia la forma canzone che l’istinto alla progressione della musica progressive.



2 - Metaverso

Il teatro del tempo svela oscena bellezza, molteplicità, metodiche, generi musicali diversi, una vocazione al graffio, mai alla sintesi, per note che si fondono, che corrodono, con le parole che dipingono, strappano, limano, per poi condurci nel ritornello a ballare sul testo  solo apparentemente leggero. Un pezzo che offre la sapiente duttilità del combo pistoiese, in uno stato di grazia che accoglie diversi riferimenti stilistici ma sempre in fuga dalla definizione precisa. L’anima pop emerge, senza dubbio, tuttavia è arrossata, in fuga, con una libertà che fa compiere un balzo senza ritorno…



3 - Contare sulla distanza


Il Trip hop che richiede il supporto di Jean Michelle Jarre, il senso della pausa, del silenzio, il mantra che ci ricorda Teardrop dei Massive Attack e poi una direzione che non consente più riferimenti. Un brano che concentra il tutto sulla ciclicità del sublime cantato di Paolo Ferro, qui alle prese con il selvaggio problema della metrica: vince la sfida portando le corde vocali sui cieli plumbei delle movenze, muscolari ma tenue, della musica. Si capisce come questo sia un esercizio su cui costruire l’intero lavoro, una poesia elettronica che distribuisce verità e lacrime come respiri…



4 - Erbe selvatiche (feat. Alessandro Fiori, ex voce dei Mariposa)


La bocca si spalanca, il teatro dei regali ci offre un’accoppiata inimmaginabile, il vortice di un toccante genio creativo che consente a due voci di essere protagoniste di una ninnananna senza fine, con le polveri di un intenso lavorio musicale che scuote per leggerezza e profondità, un brano che avrebbe fatto felice Luigi Tenco… Epicità e attenzioni, premure, coriandoli sonori come un mantra che addormenta i fremiti, con un drumming e il basso che quando si presentano diventano lo scettro su cui tutto sfuma con tenerezza…




5 - La luna sopra me


Pare di essere in Belgio, nel paese in cui l’elettronica ha versato sangue azzurro, creando anche le basi dell’ebm.

Il brano più lontano dal suolo pistoiese diviene in realtà il frutto delle loro abilità, dei loro studi, dei loro non vincoli…

Metrica, ripetizioni, flash sonori, cambi visivi, di scenari, in un massacrante ma gentile bombardamento che ci ricorda i Lassigue Bendthaus e gli inganni sonori dei Coil, per un insieme particolarmente intenso, fuori da ogni preventiva illusione. La grandezza della band qui trova simboli e residenze per il futuro…





6 - Spalle coperte


Stefano Nerozzi apre le danze, Gabriele le allunga e la band, tutta, le continua attraverso il tempo con uno stile che ci ricorda la Nouvelle Vague, i chansonnier francesi, per poi fertilizzare il tutto con un testo crudo ma vero, come sempre, diventando l’emblema di una scrittura che sa essere un elastico senza remore…


7 - Cerco lacrime


Quando la bellezza crea equivoci, verità, perplessità, affanni e paure, una giostra in disuso che invoca calma, dignità, e i luoghi giusti per palesarsi. Questo fa Cerco lacrime, il miracolo che genera trambusti, con l’ardire della musica che, attraverso il drumming poetico ma sicuro, porta l’intera struttura ad approdare nel delinquente esercizio del testo, così gravido di tensioni e amarezza che congela i respiri…

Ed è in questo luogo che gli Òvera esalano la distensione, il perimetro preciso della pazienza descrittiva che, per quanto  ferisca, diventa una moglie sincera e perfetta…

Nel suo tappeto sonoro ondeggiano richiami, albe e tramonti, ma soprattutto il bisogno autentico di dare alle parole un abito notturno con il quale apparire nella storia della canzone italiana che Mina sin dagli anni Settanta ha saputo rendere perfetta. E il Vecchio Scriba spera che sia proprio lei, un giorno, a cantarla…




8 - Tutto cade 


Accenni di rave, di Prodigy, di anni Novanta in cerca di memoria, ma poi sembra di sentire i Man of Moon approdare in Toscana, per stipulare un contratto di contatti e abbracci. Tutto scorre, tra la voce filtrata, tremante, tra i beats e psichedelici richiami che rendono l’insieme semplicemente armonioso…



9 - Pioggia calma


La chiusura in realtà diventa l’apertura, incontestabile, al contatto con il passato della band, mentre lascia i germogli di ciò che sono divenuti consentendo agli strumenti di essere parentesi, accenni, piramidi e coperte per assorbire la pioggia calma che consente la fertilità.



Òvera:

Stefano Nerozzi - Chitarra elettrica, chitarra battente, mandolino

Andrea Signorini - Basso, cori

Paolo Ferro - Voce

Alessandro Pacini - Batteria


con:

Pasquale Scalzi - Flicorno

Gabriele Gai - Elettronica, campionamenti

Alessandro Fiori - Voce e Synth in Erbe Selvatiche


Produzione - Gabriele Gai


Etichetta Discografica - Vrec


Distribuzione - Audioglobe



Alex Dematteis

Musicshockworld

29 Ottobre 2025

Salford








My Review: The Black Veils - Gaslight

“Sometimes, in the morning, with the sun shining, it's hard to believe that night has passed.” From Gaslight, a film by George Cukor Ter...