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lunedì 20 gennaio 2025

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali


 

Auge - Spazi Vettoriali


Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel nulla. Esiste una controparte che invece disegna traiettorie per sublimare la coscienza e la conoscenza, come atto, coraggioso, di un inizio che possa scrivere, sulla coda delle stelle, un epitaffio lucente.

Questo è ciò che fa la band fiorentina Auge, un condensato crescente di nervose progressioni coscienti, disturbatori privati che, nella marcia inarrestabile di un percorso artistico, arrivano a posizionare fasci luminosi nelle ombre. Ostili, antipatici, sconnessi dalla realtà che fugge dall’impegno, i quattro artisti ne ridisegnano il volto, con un’amarezza adulta e perciò controcorrente, non desiderabile. Nel loro profondo approccio all’analisi del tempo e dei luoghi dove l’esistenza pullula di particelle omicide, loro raccolgono i suoni attuali, criptandoli, ossigenando ipotesi e frastuoni, gravitazionando senza tentennamenti in una lastra in bianco e nero dove le macchie sono ipnotizzate da un’enfasi moderata, che fa approcciare le composizioni all’arte della poesia che anestetizza il presente.

Un disco folle, romantico, impulsivo, pieno di mediazioni linguistiche e sonore, per poi rendere grigi i battiti del cuore, spettinando ogni necessità, utilizzando la strategia dell’innesco di dubbi in catalettica esuberanza, in un tripudio di bilanciamenti che snervano ma, innegabilmente, consolano.

L’ossatura ritmica questa volta, nel secondo di tre album tematici previsti, si sposta dal precedente, con trame rarefatte solo nei momenti opportuni, perché, è bene precisare, ci troviamo in un martellamento di coscienze seppur raffinato. La narrazione, peculiarità della scrittura, qui si divide il ruolo con la musica, in un combo che stravolge pratiche e conoscenze, facendo compiere il miracolo di un approccio poco italiano. Niente a che vedere con i suoni, gli stili, le attitudini: la band fiorentina corre in un sistema creativo che emargina le pratiche semplici e si tira su le maniche per far capitolare la noia e la pochezza. Arte come penna offensiva, con garbo, ma atta a ottundere.

Oscurità e limpidezza sono i cardini, gli elastici, gli interruttori di continue partenze orgiastiche e quindi dolorose, per qualità e insistenza. Melodie profonde bisognose di ritmiche per spaventare il concetto di immortalità: ecco il primo grande merito di un disco che, come un martello temporale, cerca anime sensibili e coscienze in stato di veglia.

L’eleganza entra come anestesia, come un appuntamento galante ma senza alzare la voce: sono composizioni che cercano l’apertura mentale, spazi, appunto vettoriali, che possano far abitare nuovi destini.

Ed eccoci agli argomenti, alle invettive mascherate e alle grandi occupazioni del gruppo: non un criticare, tantomeno un prendere atto, bensì un disegnare la traiettoria di esigenze che non nascondano la gravità dei fatti. L’emozione diventa elettrica, caratterizzata da tensioni che manifestano il bisogno di condivisione.

Tutto parte da musiche che sono linguaggi sensoriali, fari nel ventre di un luogo che li ospita, consentendo alle parole scritte di divenire anch’esse corpo, nel binomio maledetto di un ossimoro che conquista e seduce il pensiero.

Stasi dei sensi.

Allerte.

Venti in cerca di teorie con cui incontrarsi e perdersi negli universi…

Quella che regna maggiormente, però, è la storia di sequenze e morali travestite da racconti (uditivi e suggeriti da sillabe concretamente legate al senso dinamico di un fissativo logico) per generare consapevolezza, attraverso un dolore istruito al contagio. 

Immagini di vita? Sì, innegabilmente, ma maggiormente un idilliaco abbraccio cognitivo che renda informata la temperatura della dispersione collettiva. Ecco, spiegate divinamente, le strade della violenza, delle esagerazioni, dell’atmosfera da sballo di menti corrotte.

Un viaggio che da musicale diventa personale, illustrando e lustrando le orme dei precipizi mentali, che Mauro Purgatorio e compagnia bella disinfettano prendendosi cura del suono, in questo caso per la seconda volta ad appannaggio di Flavio Ferri ma, bene sottolinearlo, con il contributo notevole di Luca Fucci, un funambolo creativo con il senso dell’equilibrio ben posizionato sulle  dita.

La produzione, dei due musicisti accennati e degli Auge stessi, porta il suono ad anticipare il senso generale per quello che è, nascostamente, un atipico concept album, ma preciso nell’abbracciare temi e indoli in contatto tra di loro.

I quattro si fermano, arrestano il tempo, rendono il mondo un silenzio abulico, un ossigeno in cerca di un diserbante, dove le inquietudini  trattengono il giro delle lancette dell’orologio per dare un bacio al passato. In tutto questo sia benedetta Chiara Pericci, una fata della periferia artistica, che in pochi secondi di presenza ci ipnotizza e ci accarezza il cuore. 

Ascolto e trascendenza, nel matrimonio elaborato di congiunzioni ipnotiche, trafugano la semplicità per adoperare filtri e intuizioni, in una passeggiata metropolitana, che devia il percorso e lo rende un’onda ossessiva, nel pieno di una fanciullezza dalle evidenti rughe in anticipo.

Il tutto è Rock, perverso, selvaggio, maledetto con il papillon e un profumo tra il volgare e l’acre, in un urlo che nulla ha di sconvolgente: trattasi di un furto lecito e onesto.

Sintesi, salti, evocazioni, invocazioni, perplessità e trucchetti da maghi ingialliti da luci atemporali sono i protagonisti di questo balsamo per l’anima, che ha il coraggio di bussare alle porte del linguaggio onirico degli Alice in Chains come a quello metafisico dei Massimo Volume. Già questo spiega la proporzione dei confini, dei passi, delle modalità e soprattutto delle capacità che fanno di questo disco una conversione razionale all’indispensabile.

Diviso nel lato A e nel lato B (si parte dall’inizio per essere perfetti, dal rispetto del vinile come idea di base), il percorso mette in contatto i due volti, nei quali quello iniziale ha maggiormente lo spirito della contemporaneità, mentre il secondo ha uno sguardo più attento verso ciò che sta dietro, nei passi che rimangono accesi di vita…

La poetica essenziale disegna un linguaggio più raffinato rispetto al passato, come se la maturità acquisita non dovesse consegnarsi allo spreco. Infatti, in tutte le composizioni svettano le impressioni che lasciano spazio alle interpretazioni, e questo avviene anche e soprattutto con la musica, un caleidoscopio rurale dove il post-rock, il post-punk e un precedere qualsiasi cosa generano flussi ancestrali con melodie e armonie che vengono dipinte da una elettronica sapiente e capace di suggerire e non di spaccare il palco con un'entrata in scena esagerata. In questo, il lavoro di Luca e Flavio è semplicemente perfetto, costruendo matrimoni artistici per l’incanto dei piaceri.

Superiamo l’ostacolo della paura, creiamo certezze approssimative e tuffiamoci nei veleni ipnotici di queste catartiche passeggiate cognitive, una a una…




Song by Song


Lato A


1 - Icaro

“È dal giorno delle menzogne che ti vedo scomparire dentro porte senza ritorno ma con un cielo da esplorare”


Un allarme nucleare, un sinfonia ipnotica, chitarre elettriche ritmiche che graffiano e un giro di basso che sembra una colata del Vesuvio: l’inizio dell’album è un temporale lento, morale e invernale, con accordi pieni, un rock nato negli amplessi esplorativi degli anni Settanta, che si ciba di ipnosi e metalliche scariche in cerca di Spazi Vettoriali…



2 - Ero Lì 

“Io ero lì quando fecero marciare per i viali i non pensanti”

Prendete 1979 degli Smashing Pumpkins e andate oltre, calpestando stop and go, con iniezioni sonore che le portano a sudare il sangue di presenze, e avrete solo l’ossatura della prima, roboante forma di aggressione che conosce, nel finale, un rallentamento, ma puramente stilistico, perché in realtà la canzone continua a essere un missile esplorativo…



3 - Firenze

“Ma in ogni angolo del giorno c’è arte in quel dolore profondo”

L’inizio è quasi uno shock perverso: petali trip-hop fanno da pavimento a una veloce, progressiva e manifesta desertificazione post-punk che vede la citazione, illustre e illuminata dal cantato fuori dal cielo di Chiara, di Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus, che sono presenti in diversi momenti e non solo quando direttamente menzionati. Ecco non una invettiva sulla città, ma un tenere fuori i piedi dall’arroganza e dalla borghesia di un realtà morente…



4 - Lei

“Nascosta nella sua mente ma negli occhi brilla sempre la fiamma intermittente”

Può un arcobaleno entrare nella scia di un cuscino? Può correre nel marasma di un Alternative ipnotico, con il ritmo sincopato e capace di tergiversare, di prendersi pause e poi di distendersi sui propri muscoli, per riportare la luce nella espressione dolce amara di Moltheni, di giovani e vecchi Sonic Youth in cerca di un catrame da addolcire?



5 - Maestrale

“E mentre osservi il mare già le onde gridano senza alcun timore: “it's the secret I love!””

Ogni grandezza ha una calamita interiore: eccola.

Maestrale è un serpente ipnotico, che parte sinuoso e poi, accelerando, porta con sé una tristezza davvero indolente come il maestrale, qui raffigurato come una pepita temporale, sfuggente, grazie a un solo di chitarra che riporta lo stoner rock in Italia, con leggerezza e contorni di hard rock quasi segregati.

 

Lato B



1 - Gravità 

“Non è solo bisogno di calore quello che ora vuoi. È questa forza di gravità”

Prendi l’oceano e dagli del veleno come colazione: una scossa elettrica che accarezza non solo le foglie da un’inclinazione, dispersiva e necessaria, al fine di creare un vuoto cosmico. Per scrivere questo capolavoro (la canzone lo è, innegabilmente), la band raggruppa la sanguigna capacità di Clementi con i suoi Massimo Volume e l'istrionico connubio delle voci di Chiara e Mauro, per far precisare le chitarre e il basso nello scuotimento pelvico di un drumming potente e raffinato.



2 - La Teoria

“Ci muoviamo senza senso dentro la scatola finita polvere che verrà sostituita da altra polvere”

Siamo nel territorio degli ammiccamenti musicali recenti e il bisogno di guardare la progressione mentale di una chitarra appiccicata al rock lento dei Saxon fine anni Settanta, per poi arrivare ai Marlene Kuntz, sino a definire il vero passaporto stilistico degli Auge che è quello di rifiutare maschere e nascondigli ma di allargare il petto della propria cifra stilistica. E lo fa bene in questo maligno camminamento tossico di parole che prendono il caos e lo rendono una teoria fallace e dimenticabile. Un brano che ruba l’inutile e diventa sacralità ineccepibile…


3 - Ognissanti

“Prova ad immaginare, immaginare di essere Dio senza mai più un segreto”

Per il  Vecchio Scriba questo è l’episodio che meglio sintetizza la bellezza, l’esplosione delle polveri, dei connubi dei musicisti e dei produttori, per lanciare le voci inquinate e inquietanti verso una corsa che non permette deviazioni ma mette con le spalle al muro. La canzone ha un impeto violento, un confine millimetrico di un odore marcio di religiosità e convenienze perlustrate e appese fuori della propria stupidità, per far morire i segreti dell’imbecillità. Rock con i grumi sui polsi, voci raddoppiate enfatiche e chitarre malate di verità che assediano l’ascolto e ospitano uno spazio temporale davvero impetuoso. Definitiva, incalzante, necessaria: niente altro che il doveroso appuntamento con la perfezione degli Auge…


4 - Perdersi

“Preferisco perderti nelle mie fantasie e non in un bicchiere d'acqua”

L’identità danza lentamente, tra Tenco, De André e i Primus a basso regime ritmico, in un solstizio che ospita parole sagge e romantiche e gemme musicali a contatto del cielo in una clamorosa quasi ballad, dove il suono maligno dell’assolo è un perfetto calcio testicolare ben assestato. Ruvida, apparentemente, la canzone è un gioco temporale dell’identità che finisce in un eco riverberato davvero sublime…


5  - Universi

“E capisci di essere l’umile ingegnere che può aiutare a tirar fuori i sogni dal cassetto”

Chiara Pericci si trasforma in una fata triste, un angelo grigio con un vocalizzo che fa nascere lacrime mentre l’arpeggio di chitarra ci porta in Francia negli anni Quaranta. Quando arrivano le parole di Mauro, e il suo cantato quasi al limite della stonatura, ci rendiamo conto che il tutto perfetto, anche se pesante da vivere, ritrovandoci coinvolti dal suo prendere fiato e dalla ragazza sola del testo, qui raccontata come se fosse uno specchio termico di Michelangelo Antonioni, tra sudori e pianti. Ed è un crescendo psichedelico, che ci porta in dono l’unico nemico mai assente: Dio.

È un finale pazzesco, insostenibile, con una coda Shoegaze/Post-Rock nei confini di una follia insostenibile.

Se ogni album è un congedo, questo è un silenzioso rumore che anticipa un’ennesima pausa dove tutto accade…


Auge:

Mauro Purgatorio (Voce, liriche e synth)

Matteo Montuschi (Chitarre)

Sara Vettori (Basso, basso fretless)

Riccardo Cardazzo (Batteria)


Produzione:

Flavio Ferri, Auge & Luca Fucci



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Gennaio 2025

L'album uscirà il 7 di Febbraio

domenica 5 gennaio 2025

La mia Recensione: Lamante - IN MEMORIA DI


 

Lamante - IN MEMORIA DI


Che bello aspettare un disco invecchiare, percorrere la strada della pazienza, dello studio, dargli il tempo di circumnavigare i pensieri, governare gli istinti.

Otto mesi dopo la sua uscita ecco un’analisi fitta, dritta, coraggiosa ma in grado di cogliere un esordio deflagrante, per dare alla musica italiana ponti e riflessi, in un mare agitato da una giovane donna che ha avuto il coraggio di aprire le proprie contaminazioni libere nel circuito della memoria. Non fotografie e nemmeno “solo” ricordi: direi, piuttosto, un allacciamento temporale all’interno di istinti e grumi di sangue, per tracciare teoremi, scarti, immaginando la creazione delle note come un’arte che si presta a scuotere la vita. Non esistono classificazioni in questo graffito, che affitta il talento per condurlo in solchi pieni di scorie, maledizioni, ingiurie, macabre pulsioni sessuali che diventano con la sua scrittura il respiro angelico dei peccati. Giorgia Pietribiasi investe la storia recente di operatori messi a disagio  dal buon gusto e li schiavizza, con torture sonore e vocali, con la parte testuale che, ingegnosa e voluttuosa, permea il tutto come un delirio educato che prende in prestito la modalità dell’hardcore italiano molto più del punk, in quanto le liriche sono centrate sul pronome personale io e tendono a includere ed escludere gli altri solamente nella parte terminale delle sue considerazioni. E poi la musica: un fitto cammino nella foresta fresca di incursioni che fanno del suono il presupposto di una sciabolata, per far rabbrividire le definizioni. Lei è scomoda già con se stessa, incespica e rutta versi come un olio che cerca vitamine essenziali. Un aprire le mani per chiudere gli occhi, con fraseggi gentili solo per concedere al fiato di cercare un imbuto per cadere e dare all’equilibrio modo di illudersi. Sono undici rosari, circolari e spinosi, gravidi di pulsioni, garze che dalla sua Schio si affacciano sul mare italiano sempre più sporco e nei pressi dello sfarzo inutile. Giorgia no: parte dai suoi paletti, propositi che, quando si avvicinano all’aspetto artistico, fanno scattare in piedi i muscoli, per sottolineare non c’è alcun punto di contatto con le ultime due decadi sonore di questo stivale sempre più storto. In Memoria Di accusa, difende la dignità, balbetta felicemente nel corollario dei suoi tentativi di immaginare la musica come un deserto che rivela fiori inconsueti.

Immergere le contaminazioni elettroniche per farle combaciare con una attitudine Industrial è davvero ragguardevole, portando l’incanto a stabilire il contatto con una poetica suburbana, invasiva e piacevolmente scomposta. Si alternano fluidi e pugni, nella scelta di operare un marcamento stretto che abbisogna dei fiati per portare le note del pentagramma nella ragnatela della seduzione.

La sua voce, poi, un groviglio nevrotico che accende l’orgoglio di paragoni che stavolta diventano un merito e non una punizione. Si va quindi all’estero, a bussare sulla spalla di Sinead O’Connor, per tornare in Italia con Cristina Donà, e poi fuggire via nel suo petto, perché per davvero il suo canto nasce dal suo cuore, proprio in questo organo che lei spreme, per metterlo poi nel cervello sempre pronto a scaricare watt e deliri.

Nelle sue urla ci sono lacrime che ossigenano le riflessioni, nei suoi ritornelli (che presto potrebbero anche sparire, vista la sua affermazione che la forma canzone le sta stretta) gli arcobaleni entrano nei disagi quotidiani facendola vibrare. 

Taketo Gohara è un produttore capace di dare ai mirtilli il suono delle rose selvatiche ed è stato proprio lui a riempire questo lavoro di venti che rendono solido il volo magmatico di queste composizioni. Una farcitura, una guarnizione, una mano abile per consegnare a Giorgia un trono da cui non scenderà facilmente. La grinta non passa solo dai rumori e/o dalle lacerazioni, bensì dal governare la cosa giusta facendola sposare con l’errore. Ecco quindi canzoni come bambine monelle che prendono in giro le verità seminando dubbi ed esternazioni come pallottole che invece di colpire circondano, finendo per snervare ancora di più.

Un album che odora di pellicola antica, di un sax scassato e mai riparato, per conservare l’odore di cammini continui. Venticinque anni che nelle composizioni paiono essere più del doppio, per seminare confusioni e imbarazzi. I termini scelti per sviluppare un percorso mentale si affacciano agli anni Settanta: un continuo saltare avanti e indietro con il gioco del banale che oscura la bruttezza, ingravidandola con scorie che attraversano il setaccio di una morbidezza sopraffina e incontenibile. Un luna park a intermittenza che passa dagli oggetti alla natura, al tempo, ai rapporti rotti che paiono perfetti, e un’indole propensa a separare se stessa dal suo stesso mondo.

I temi trattati oscillano tra il prato dell’esistenza che scorre nelle sue giovani vene e il dramma di un tempo da far filtrare da qualche parte. Scendono i suoi versi nei meandri di paure che si vorrebbero lontane. Una fila di tracce che lei inchioda, cancella, semina nel suo vocabolario solo apparentemente semplice: i suoi puzzle provocano un’orticaria mentale che non si può che adorare e adoperare per sentirsi sganciati dal senso e cercare un luogo nuovo dentro noi stessi.

Si fa in fretta a immaginare che questo album non sia in grado di fuggire dall’attrazione da parte di chi, stanco e amareggiato da una scena italiana che cerca il successo, voglia uno specchio frantumato da guardare senza pretese, ferendosi nel raccogliere i pezzi, disinfettando le ferite con la tossina infinitamente generosa del suo talento senza museruola, anarchica al di là della sua stessa dichiarazione. Basta vedere come nessun testo parta e arrivi senza conoscere la tentazione di nascondere il cielo…

L’abilità principale si precisa nel pop che si trova sbilanciato, raggirato ma utilizzato all’interno di un circuito che fugge dai generi musicali. Lei va oltre quella presa sicura, scavalca la scuola della sicurezza e, invece di far riposare le canzoni nei canali di boriose definizioni, sprinta e parte per la tangente, sfigurando il volto di chi passa il tempo a voler classificare. Urla, molto, questo è vero, ma lo fa come lo faceva James Brown nei primi anni Settanta: quando l’isteria trova un pretesto, un aggancio, allora smette di essere governata. Questo continua in ogni brano, in un esercizio delizioso per correggere la sua luna interiore.

La bontà e la cattiveria non si sfidano a duello: si ignorano e ci invitano a cedere davanti alla ragione che vacilla e cade.

Si può solo imparare a vedere i nervi distesi dentro un romanzo e qui Tolstoj non c’entra nulla, malgrado il titolo della sua più clamorosa opera: un disco come discarica tra pagine ingiallite, in cui la foto di copertina si ritrova a essere il bastone di un passato che è miracolosamente sopravvissuto.

Si rimane basiti, non confusi e tantomeno felici: dentro una gioia scomposta le lacrime di questo miracolo ci rendono la pelle dell’anima una cometa che non muore nemmeno volendolo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Gennaio 2025


mercoledì 2 ottobre 2024

La mia Recensione: Iamnoone - The Joy Of Sorrow


Iamnoone - The Joy Of Sorrow


Se sia la confusione o la chiarezza a generare un ossimoro come il titolo di questo album non è dato sapere e forse è meglio: con tale dubbio si spalancano cieli turbolenti colmi di danze, con il sale sulle ferite mentre i sorrisi maliziosi si spalancano e vanno, nomadi e infelici, su una dance hall dove l’ipnosi è il marchio di fabbrica del duo italiano, anche se molte cose sono cambiate (in meglio) per rendere queste dodici composizioni un congedo nei confronti del passato e un abbraccio umido al futuro.

Philippe e Seth rivelano un’osmosi che sbalordisce, con una compattezza che non può non essere virale quando si ha l’illusione che la loro “antica” bellezza e profondità si evidenzi ancora.

Ma non vi è dubbio che la propensione sia quella di creare un circolo di appetibilità sonora che sa essere una invocazione gentile a condividere queste perle davvero intense, che volano nei meandri di una turbolenza educata da un uso intelligente di elettronica, nella quale le chitarre sembrano sparite e si incontrano massicce dosi di armonia che nutre la gioia del dolore…

La freschezza, le ipotesi elaborate nella mente dei due, gli istinti incendiari nerastri, la piacevole tossicità di ritmi incalzanti, i testi che scrutano e trattengono, pile di granitiche movenze a raccattare il cadavere di generi musicali ormai consolidati dalla precarietà e da un senso di resistenza sempre più minimo, fanno di tutto ciò qualcosa di necessario.

Gli Iamnoone diventano una coppia di dinosauri volatili e nello specifico due argentavis magnificens, in grado di afferrare i cadaveri dei nostri cervelli e portarli nell’atrio del loro operato artistico tra le montagne sudamericane, per una messa alcolica e robusta, con riti che fanno sudare l’anima e prendere consapevolezze che agitano le emozioni. Il buio si è trovato inevitabilmente cambiato: la band non intende dare consigli ma, come dovrebbe fare l’arte saggia, accende un cero sui detriti e semina dubbi, invita a seguire questa navicella danzante dentro traiettorie che trasformano il tempo in una trottola spaventata, con classe.

Musicalmente spesso dalle parti di una ebm mai esagerata, con flussi antichi di coldwave che rendono il tutto un ennesimo matrimonio forzato e tuttavia perfettamente oliato.

Per quanto concerne il cantato, si fa più melodico, cadenzato, vibrante, con, in aggiunta, la capacità di giostrare meglio i registri di voce.

Ma poi vi è l’innegabile sensazione di uno studio letale nei confronti dei pulviscoli striminziti che sono diventati i pensieri, con la solitudine e la tristezza uniti in un abito primaverile senza cerniera, con la volontà di far rimbalzare attraverso synth davvero magnetici questi due elementi sempre più collegati all’inevitabile declino.

Gli anni Ottanta cadono davanti a questa progressione intellettuale.

I suoni inutili degli anni Novanta vengono messi in panchina.

Delle due ultime decadi rimangono gli argomenti, però la modalità espressiva muta, si discosta e si dirige con rapidità verso l’allontanamento e l’annientamento di quelle catene pesanti che erano l’imitazione e l’incapacità di generare aria fresca nei solchi.

Si può essere freschi con la morte dipinta nelle note? Se hai scritto questo disco sicuramente: ed è stupore saldato con raggi che odorano di metalli pesanti.

Brevi introduzioni, il corpo essenziale dei brani velocemente individuato e poi via con sfumature, arrangiamenti secchi e il senso di corsa che non ci abbandona mai, che fanno di questo lavoro una nube non ancora in grado di essere considerata tossica ma sicuramente pericolosa: sono molte le persone che temono la bellezza oscura e qui non avranno un attimo di tregua. 


Si avverte la piacevolezza della presenza che non è solo descrittiva di un recente passato, in quanto, a mano mano che l’ascolto prosegue, si immagina il tutto nascere proprio in quell’istante e così facendo ci troviamo innanzi al miracolo dell’autorevole autogiudizio.

The Joy Of Sorrow diventa un mistero che cerca un colloquio, una partita a dadi sempre più truccata di una piramide impudica e vibrante, con il peccato che viene dai due invitato a buttare giù gli assi. Quelli dei musicisti sono pieni di matematica e di un incandescente pantaclo, abile nel far dirigere lo sguardo verso le sue cinque punte e collocarsi nelle dodici tracce, per ricoprirle di magia e di una densa atmosfera .

I rapporti, il tempo, gli spazi, le calamite intellettuali che paiono sacrificabili senza compromessi, rendono radioso l’ascolto seppure non vi siano dubbi che gli echi che abiteranno nella testa sapranno far vibrare chi tiene in mano il nostro destino.

Essenziale dare risalto ai ritornelli che spesso rivelano la fantasia concentrica di Seth, fedele nella sua potenza e capacità di conferire ai tratti melodici un senso maggiorato e propulsivo: il suo basso è un trattato di chimica applicata alla fantasia melodica di Philippe, per incontrarsi nella sala da ballo di una festa dove le anime solitarie piangono e ballano al suono di queste canzoni, per immergere la verità dentro la negazione di un futuro e dove, per inciso, il nichilismo non c’entra nulla.

Fedeli alla Cold Transmission di Andreas e Suzy Herrmann come in un patto in cui la reciproca stima sfocia in un party nella foresta nera tedesca, questo combo trasferisce la pellicola italiana fatta di sudore e disincanto all’interno del proverbiale senso pragmatico germanico, per generare un happening infelice in modo delizioso, con l’aggravante di brani che sapranno rimanere guerrieri nel tempo, proprio in  questo che sembra preferire la caduta e l’incapacità. 

Tutto è un eco corrotto, i sensi messi alla sbarra piena di plastica e transistor indaffarati, il ritmo che non concede pause e la musica è una fabbrica di mirtilli che si placano sulle labbra di queste composizioni, in un sensuale manifesto che fa della eroticità un piacevole calvario.

Fertili, galvanizzati dalle loro traiettorie su candelabri di un giorno clandestino, magnetizzano l’ormai sterile post-punk con soluzione saline che danno quel brio nerastro da cui i due sono sempre stati affascinati. In questo album trasformano le potenzialità in una elaborata scena dove la Fura dels Baus si esibisce con loro nel trattenere le tenebre e farle diventare una nuova pietra da lanciare dal centro del palco.

Potente, ammiccante, seducente, l’ultimo atto di questa sfera cerca artigli di gesso, con l’attenzione rivolta al perimetro dove siedono soluzioni da attivare: lo fanno egregiamente, forgiando il carattere con queste conversazioni che hanno la saliva e sputano via la vita da consumare con semplicità, gettandole addosso una paradossale paura in quanto, per davvero, non ci si deve far ingannare dai giochi luminosi di queste tastiere, perché lo scherzo migliore si traveste di semplicità fuorviante…


Ora danziamo e scendiamo sul viscido pavimento per sorseggiare assenzio e Fernet Branca…


Song by Song


1 - In Fear

La balbuziente, l’inarrestabile paura è colei alla quale i due hanno dato il compito di aprire l’arcobaleno delle sommosse: un congedo gentile dal loro egregio Together Alone del 2023, per concedere l’illusione che il loro cammino sarebbe stato simile. Invece no. Basta sentire come la progressione del brano conduca a un’apertura fintamente solare, come mai prima…


2 - This Is Forever

I vecchi Clock Dva e Front 242 potrebbero sussurrare lo schema iniziale ma poi è fuga, progressione, un incalzare la vita con una eternità che si appoggia al basso lapidario e alla vertigine di una elettronica saggiamente circolare, mentre la voce sembra enunciare e presenziare al declino della perdita, che altro non è se non la caratteristica di questa attualità destinata a vivere nell’eternità morente…


3 - Third, Fourth And Fifth

Parzialmente nevrotico, pulsante e magnetico, in realtà questo brano vive sopra l’Olimpo, in un giorno nel quale la vecchia chitarra pare spuntare fuori per concedere poi alle dita di Seth di essere quelle di un fabbro senza pietà. 


4 - MFM

Pensate ai Kraftwerk infanti, semplici e sognanti: portateli in una radura con un computer moderno e l’antica genuflessione melodica italiana, ed ecco questo cancro sul collo cercare una pausa, senza trovarla: tutto è marcia incalzante, un sussurro agitato che scuote l’anima nella notte senza luci…


5 - Soulless

Continua la sperimentazione, quella che precede il brano vero e proprio: è sintomo febbrile, è scissione, scossone per poi divenire magnete. Antichi cenni di Giorgio Moroder e Cher nella parte musicale si fanno avanti e poi è una balestra nel ritornello, con note come precipizi mentali, dove la melodia si rivela capace di connettere gli anni Settanta e i giorni nostri.


6 - Ask The Wind

Unire un piano, un soffio di vento e una sciabolata di basso che il vecchio marpione di Hooky non saprebbe più riprodurre è davvero un fatto micidiale, poi una veste di raso scende e attraversa l’aria con il cantato di Philippe che nasconde molto bene il segreto della sua eleganza in quanto parrebbe suggerire domande anziché determinare la bellezza con il suono decadente che vive nella sua ugola lacerata…


7 - The Age Of Sadness

Quando i due insistono nel loop, nelle adiacenti zone dell’arrangiamento prende vita questo tempio di incanti e trappole, si finisce per fischiettare lo scorrere polemico della tristezza, divenuto macigno. Ma la prodezza balistica sta nei versi iniziali che spingono la mente a focalizzare, a rendere l’interpretazione qualcosa di inutile: meglio viaggiare nelle immagini di questi suoni magnetici, per utilizzare il testo come specchio veritiero del gioco sporco dell’esistenza. 


8 - Fever

Ci prendono per mano con frammenti italo disco dance degli anni Ottanta, per poi metterli nel petrolio e aspettare i germogli di questa tastiera che traccia spilli tanto cari agli Orchestra Manoeuvres in The Dark. Si vola, ci si ferma tra le nuvole, e poi è cadenza battente, è seduzione notturna totalmente febbricitante…


9 - The Labyrinth Is In My Mind

Eccoli i due degli esordi, generosi maghi dentro aghi e fili insanguinati: il brano più cupo che è l’unico momento nel quale gli antichi passi sembrano risorgere. Pura illusione: basta il basso con la sua procedura marziale a mostrare come il passato sia una finestra a cui loro non guardano più. Rimane però la sensazione che come una enciclopedia affettuosa tutto possa ancora essere studiato e proposto, con qualche mutazione eccitante…


10 - 99 Angels

Canzone apripista che potrebbe anche chiuderla, e che fortifica i movimenti fluidi di trame buie, 99 Angels è il colpo di genio semplificato: una struttura ossea ben tornita da petali ebm riesce a devastare i generi musicali adiacenti per diventare lo specchio di ciò che sono oggi gli Iamnoone…


11 - Purity

Ecco apparire l’autore rumeno-tedesco Michael Cretu che gioca con i synth, ma i due italiani sospendono le note per riportarle in movimento, sottile e semplice, nel ritornello, con la parte vocale che  benedice ciò che resiste avvolto in un mantello bianco…


12 - Pain

L’inaspettato diventa atto di gloria, materia di studio e di una forza notevole: Pain è il futuro di un passato musicale ormai rimasto inchiodato sotto la polvere. Gli Iamnoone rivitalizzano, rendono lubrificato quel periodo in cui in poche note si trovavano cibo e bevande. Incline a una inseminazione artificiale del tempo che fu, diventa un congedo magnetico, rossastro, davvero imprevedibile, per permettere alla gioia di dare al dolore il giusto misurino di una punizione instancabile…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

2 Ottobre 2024


https://iamnoone1.bandcamp.com/album/the-joy-of-sorrow

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali

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