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mercoledì 2 ottobre 2024

La mia Recensione: Iamnoone - The Joy Of Sorrow


Iamnoone - The Joy Of Sorrow


Se sia la confusione o la chiarezza a generare un ossimoro come il titolo di questo album non è dato sapere e forse è meglio: con tale dubbio si spalancano cieli turbolenti colmi di danze, con il sale sulle ferite mentre i sorrisi maliziosi si spalancano e vanno, nomadi e infelici, su una dance hall dove l’ipnosi è il marchio di fabbrica del duo italiano, anche se molte cose sono cambiate (in meglio) per rendere queste dodici composizioni un congedo nei confronti del passato e un abbraccio umido al futuro.

Philippe e Seth rivelano un’osmosi che sbalordisce, con una compattezza che non può non essere virale quando si ha l’illusione che la loro “antica” bellezza e profondità si evidenzi ancora.

Ma non vi è dubbio che la propensione sia quella di creare un circolo di appetibilità sonora che sa essere una invocazione gentile a condividere queste perle davvero intense, che volano nei meandri di una turbolenza educata da un uso intelligente di elettronica, nella quale le chitarre sembrano sparite e si incontrano massicce dosi di armonia che nutre la gioia del dolore…

La freschezza, le ipotesi elaborate nella mente dei due, gli istinti incendiari nerastri, la piacevole tossicità di ritmi incalzanti, i testi che scrutano e trattengono, pile di granitiche movenze a raccattare il cadavere di generi musicali ormai consolidati dalla precarietà e da un senso di resistenza sempre più minimo, fanno di tutto ciò qualcosa di necessario.

Gli Iamnoone diventano una coppia di dinosauri volatili e nello specifico due argentavis magnificens, in grado di afferrare i cadaveri dei nostri cervelli e portarli nell’atrio del loro operato artistico tra le montagne sudamericane, per una messa alcolica e robusta, con riti che fanno sudare l’anima e prendere consapevolezze che agitano le emozioni. Il buio si è trovato inevitabilmente cambiato: la band non intende dare consigli ma, come dovrebbe fare l’arte saggia, accende un cero sui detriti e semina dubbi, invita a seguire questa navicella danzante dentro traiettorie che trasformano il tempo in una trottola spaventata, con classe.

Musicalmente spesso dalle parti di una ebm mai esagerata, con flussi antichi di coldwave che rendono il tutto un ennesimo matrimonio forzato e tuttavia perfettamente oliato.

Per quanto concerne il cantato, si fa più melodico, cadenzato, vibrante, con, in aggiunta, la capacità di giostrare meglio i registri di voce.

Ma poi vi è l’innegabile sensazione di uno studio letale nei confronti dei pulviscoli striminziti che sono diventati i pensieri, con la solitudine e la tristezza uniti in un abito primaverile senza cerniera, con la volontà di far rimbalzare attraverso synth davvero magnetici questi due elementi sempre più collegati all’inevitabile declino.

Gli anni Ottanta cadono davanti a questa progressione intellettuale.

I suoni inutili degli anni Novanta vengono messi in panchina.

Delle due ultime decadi rimangono gli argomenti, però la modalità espressiva muta, si discosta e si dirige con rapidità verso l’allontanamento e l’annientamento di quelle catene pesanti che erano l’imitazione e l’incapacità di generare aria fresca nei solchi.

Si può essere freschi con la morte dipinta nelle note? Se hai scritto questo disco sicuramente: ed è stupore saldato con raggi che odorano di metalli pesanti.

Brevi introduzioni, il corpo essenziale dei brani velocemente individuato e poi via con sfumature, arrangiamenti secchi e il senso di corsa che non ci abbandona mai, che fanno di questo lavoro una nube non ancora in grado di essere considerata tossica ma sicuramente pericolosa: sono molte le persone che temono la bellezza oscura e qui non avranno un attimo di tregua. 


Si avverte la piacevolezza della presenza che non è solo descrittiva di un recente passato, in quanto, a mano mano che l’ascolto prosegue, si immagina il tutto nascere proprio in quell’istante e così facendo ci troviamo innanzi al miracolo dell’autorevole autogiudizio.

The Joy Of Sorrow diventa un mistero che cerca un colloquio, una partita a dadi sempre più truccata di una piramide impudica e vibrante, con il peccato che viene dai due invitato a buttare giù gli assi. Quelli dei musicisti sono pieni di matematica e di un incandescente pantaclo, abile nel far dirigere lo sguardo verso le sue cinque punte e collocarsi nelle dodici tracce, per ricoprirle di magia e di una densa atmosfera .

I rapporti, il tempo, gli spazi, le calamite intellettuali che paiono sacrificabili senza compromessi, rendono radioso l’ascolto seppure non vi siano dubbi che gli echi che abiteranno nella testa sapranno far vibrare chi tiene in mano il nostro destino.

Essenziale dare risalto ai ritornelli che spesso rivelano la fantasia concentrica di Seth, fedele nella sua potenza e capacità di conferire ai tratti melodici un senso maggiorato e propulsivo: il suo basso è un trattato di chimica applicata alla fantasia melodica di Philippe, per incontrarsi nella sala da ballo di una festa dove le anime solitarie piangono e ballano al suono di queste canzoni, per immergere la verità dentro la negazione di un futuro e dove, per inciso, il nichilismo non c’entra nulla.

Fedeli alla Cold Transmission di Andreas e Suzy Herrmann come in un patto in cui la reciproca stima sfocia in un party nella foresta nera tedesca, questo combo trasferisce la pellicola italiana fatta di sudore e disincanto all’interno del proverbiale senso pragmatico germanico, per generare un happening infelice in modo delizioso, con l’aggravante di brani che sapranno rimanere guerrieri nel tempo, proprio in  questo che sembra preferire la caduta e l’incapacità. 

Tutto è un eco corrotto, i sensi messi alla sbarra piena di plastica e transistor indaffarati, il ritmo che non concede pause e la musica è una fabbrica di mirtilli che si placano sulle labbra di queste composizioni, in un sensuale manifesto che fa della eroticità un piacevole calvario.

Fertili, galvanizzati dalle loro traiettorie su candelabri di un giorno clandestino, magnetizzano l’ormai sterile post-punk con soluzione saline che danno quel brio nerastro da cui i due sono sempre stati affascinati. In questo album trasformano le potenzialità in una elaborata scena dove la Fura dels Baus si esibisce con loro nel trattenere le tenebre e farle diventare una nuova pietra da lanciare dal centro del palco.

Potente, ammiccante, seducente, l’ultimo atto di questa sfera cerca artigli di gesso, con l’attenzione rivolta al perimetro dove siedono soluzioni da attivare: lo fanno egregiamente, forgiando il carattere con queste conversazioni che hanno la saliva e sputano via la vita da consumare con semplicità, gettandole addosso una paradossale paura in quanto, per davvero, non ci si deve far ingannare dai giochi luminosi di queste tastiere, perché lo scherzo migliore si traveste di semplicità fuorviante…


Ora danziamo e scendiamo sul viscido pavimento per sorseggiare assenzio e Fernet Branca…


Song by Song


1 - In Fear

La balbuziente, l’inarrestabile paura è colei alla quale i due hanno dato il compito di aprire l’arcobaleno delle sommosse: un congedo gentile dal loro egregio Together Alone del 2023, per concedere l’illusione che il loro cammino sarebbe stato simile. Invece no. Basta sentire come la progressione del brano conduca a un’apertura fintamente solare, come mai prima…


2 - This Is Forever

I vecchi Clock Dva e Front 242 potrebbero sussurrare lo schema iniziale ma poi è fuga, progressione, un incalzare la vita con una eternità che si appoggia al basso lapidario e alla vertigine di una elettronica saggiamente circolare, mentre la voce sembra enunciare e presenziare al declino della perdita, che altro non è se non la caratteristica di questa attualità destinata a vivere nell’eternità morente…


3 - Third, Fourth And Fifth

Parzialmente nevrotico, pulsante e magnetico, in realtà questo brano vive sopra l’Olimpo, in un giorno nel quale la vecchia chitarra pare spuntare fuori per concedere poi alle dita di Seth di essere quelle di un fabbro senza pietà. 


4 - MFM

Pensate ai Kraftwerk infanti, semplici e sognanti: portateli in una radura con un computer moderno e l’antica genuflessione melodica italiana, ed ecco questo cancro sul collo cercare una pausa, senza trovarla: tutto è marcia incalzante, un sussurro agitato che scuote l’anima nella notte senza luci…


5 - Soulless

Continua la sperimentazione, quella che precede il brano vero e proprio: è sintomo febbrile, è scissione, scossone per poi divenire magnete. Antichi cenni di Giorgio Moroder e Cher nella parte musicale si fanno avanti e poi è una balestra nel ritornello, con note come precipizi mentali, dove la melodia si rivela capace di connettere gli anni Settanta e i giorni nostri.


6 - Ask The Wind

Unire un piano, un soffio di vento e una sciabolata di basso che il vecchio marpione di Hooky non saprebbe più riprodurre è davvero un fatto micidiale, poi una veste di raso scende e attraversa l’aria con il cantato di Philippe che nasconde molto bene il segreto della sua eleganza in quanto parrebbe suggerire domande anziché determinare la bellezza con il suono decadente che vive nella sua ugola lacerata…


7 - The Age Of Sadness

Quando i due insistono nel loop, nelle adiacenti zone dell’arrangiamento prende vita questo tempio di incanti e trappole, si finisce per fischiettare lo scorrere polemico della tristezza, divenuto macigno. Ma la prodezza balistica sta nei versi iniziali che spingono la mente a focalizzare, a rendere l’interpretazione qualcosa di inutile: meglio viaggiare nelle immagini di questi suoni magnetici, per utilizzare il testo come specchio veritiero del gioco sporco dell’esistenza. 


8 - Fever

Ci prendono per mano con frammenti italo disco dance degli anni Ottanta, per poi metterli nel petrolio e aspettare i germogli di questa tastiera che traccia spilli tanto cari agli Orchestra Manoeuvres in The Dark. Si vola, ci si ferma tra le nuvole, e poi è cadenza battente, è seduzione notturna totalmente febbricitante…


9 - The Labyrinth Is In My Mind

Eccoli i due degli esordi, generosi maghi dentro aghi e fili insanguinati: il brano più cupo che è l’unico momento nel quale gli antichi passi sembrano risorgere. Pura illusione: basta il basso con la sua procedura marziale a mostrare come il passato sia una finestra a cui loro non guardano più. Rimane però la sensazione che come una enciclopedia affettuosa tutto possa ancora essere studiato e proposto, con qualche mutazione eccitante…


10 - 99 Angels

Canzone apripista che potrebbe anche chiuderla, e che fortifica i movimenti fluidi di trame buie, 99 Angels è il colpo di genio semplificato: una struttura ossea ben tornita da petali ebm riesce a devastare i generi musicali adiacenti per diventare lo specchio di ciò che sono oggi gli Iamnoone…


11 - Purity

Ecco apparire l’autore rumeno-tedesco Michael Cretu che gioca con i synth, ma i due italiani sospendono le note per riportarle in movimento, sottile e semplice, nel ritornello, con la parte vocale che  benedice ciò che resiste avvolto in un mantello bianco…


12 - Pain

L’inaspettato diventa atto di gloria, materia di studio e di una forza notevole: Pain è il futuro di un passato musicale ormai rimasto inchiodato sotto la polvere. Gli Iamnoone rivitalizzano, rendono lubrificato quel periodo in cui in poche note si trovavano cibo e bevande. Incline a una inseminazione artificiale del tempo che fu, diventa un congedo magnetico, rossastro, davvero imprevedibile, per permettere alla gioia di dare al dolore il giusto misurino di una punizione instancabile…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

2 Ottobre 2024


https://iamnoone1.bandcamp.com/album/the-joy-of-sorrow

mercoledì 25 settembre 2024

La mia Recensione: Faust'o - Poco Zucchero


 

Faust’o - Poco Zucchero


Il principe si aggira con libri musicali infilati sotto le dita, spaziando in un periodo gonfio di rinascimenti e attitudini a evolvere concetti, spiando dal palco di un teatro, sfiorando la seconda metà degli anni Settanta, trasportando il futuro su una tavola, dove l’uso di poco zucchero rivela gusti e retrogusti che non si pensava esistessero. Giovane, acerbo, profondo e adirato, conosce tuttavia la disciplina per continuare a essere un comico serio, un affabile vampiro diurno, con la testa abbassata su vinili, riviste, fanzine e idee che circolano in attesa di finire su un leggio, l’apripista di un cosmo da visitare.

Faust’o per questo secondo disco ruba, gratta, cita lungamente, passando dal cinema alla letteratura, finanche  a una notevole dose di album, che sono stati aspirati nel circuito intenzionale del suo progetto. Un passo molto addentro al presente, per illuderci di una contemporaneità che si potesse lanciare nel destino di un terribile luogo chiamato futuro.

Con l’aiuto di Alberto Radius alla produzione (e anche alle chitarre) e quello di Oscar Avogadro, Fausto Rossi compie un sacrilegio, una serie di danze fameliche sul cadavere di una società su cui aveva già puntato i fari nel disco di esordio. In questo lavoro però abbiamo una potente escursione nel passato, una metafora che si percepisce cercare innesti soprattutto nei riguardi dei circuiti della approssimazione e dello sbando. L’impronta elettronica ci porta a ricordare il lavoro fondamentale dei Suicide e dei Cabaret Voltaire e poi, certamente, pure di David Bowie, ma non è questo il punto. Sono scatti, sniffate di note, che in seguito vengono prese e lacerate, bruciate sotto i pollici che premono, e riescono a mutare il dna generazionale sconvolto dall’enfasi, dal nuovo, dalla libertà acquisita dal 1968 ma che ormai è lesa, scucita, in un vuoto di senso che Fausto scova, portandolo a smarcarsi da una serie infinita di banalità.

Gioca con i generi musicali in modo serioso, avvolge l’Italia nel bacino di un emisfero musicale totalmente sbilanciato verso la Germania, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Una serie di cliché da punire, utilizzando lo stratagemma di un singolo molto “catchy”, che arriva in classifica, negli spazi normalmente colti da una platea distante dall’impegno, dalla sperimentazione, che della musica fa un gioco.

Gioca pure lui, però, con questo album: spaziando da un primo lato più leggero, brillante, pieno di euforiche mutazioni ispirazionali, per poi, nell’incredibile seconda parte, sfondare la sicurezza con acciaio, martello e fiori di pietra.

La poetica robotica del primo lavoro qui viene catapultata nella frattura e nella distanza, un capovolgimento dei sensi per rendere il baratro una lunga fuga.

Il ritmo (si mettano in evidenza per cortesia i due batteristi che hanno dato un grande contributo, Walter Calloni e Tullio De Piscopo), la melodia e l’armonia (Piero Milesi al violoncello e Claudio Pascoli al Sax) sono l’anfiteatro di una serie di concetti che, attraverso un pentagramma sottile, arrivano a farci sentire quello che i Kraftwerk e i Devo sapevano fare perfettamente: preparare la tavola della follia, eseguendo sentenze sonore prima ancora che asserire o suggerire.

Poco Zucchero approfitta dell’ignoranza del tempo, del troppo finto rispetto, induce in tentazione, spalanca lo sguardo verso l’incredulità, portandoci nei bip elettronici di una serie di sostituzioni davvero notevoli. 

La chitarra diventa un maggiordomo della tastiera, il basso un mago che gioca a nascondino, la voce è un inchino nevrotico, con perlustrazioni sui registri ragguardevoli, ingrassati da parole spiazzanti, con proiezioni protese verso una negatività controllata, come un piano da stabilire con la coscienza dell’ascoltatore.

Riferimenti, appunti, ricordi: sono impianti strutturali che non pretendono la genialità (per quanto, sia chiaro, siano presenti e abbondanti), piuttosto sono i semi di un non so che in cerca il dissenso. Litiga anche con se stesso, spinge il suo talento verso una strada tortuosa, per illuminare la malinconia e l’autocommiserazione, uno schianto che adopera la faccia del rock, ma senza muscoli, senza sudore, senza indossare giacche con lustrini, ma con la stessa caparbietà di Brian Eno: manopole, esperimenti, allucinazioni lasciate cadere su un pentagramma che deve asciugarsi, dimagrire, perdere liquidi…

Un album che ha l’odore del sangue in volo, con sacchetti di plastica e una tastiera sulle spalle, sbeffeggiando il tempo e la musica: c’è una lentezza di fondo che affascina e ci fa divenire, grazie a una serie di ascolti ripetuti, schiavi di un piacere doloroso.

Tutto sembra appassire nelle marce apocalittiche di queste congiunzioni, dello strapotere di una follia che per la prima e unica volta decide di scrivere canzoni che possano cadere nel dimenticatoio, se la scintilla non è passata a farsi vedere dentro questi inconfondibili solchi. Non il suo disco migliore, bensì l’unico in grado di farci intendere l’esordio e di garantirci la sicurezza che il successivo sarebbe stato ben diverso, come si è poi rivelato.


Ora spegniamo la luce dell’egoismo, delle pretese, dei giudizi e andiamo a caricare la nostra obesità intellettuale con la sua dieta, quella che, saggiamente, prevede poco zucchero…







Song By Song 



1 - Vincent Price


L’esordio porta con sé Rino Gaetano a cena con la poesia cinematografica che usa il piano come se fosse una notte piena di alcol a New Orleans. Il basso funky è la coperta di un balbettio continuo di piramide sonore allegre mentre il testo naviga dentro il terrore e l’agonia. L’assolo di Radius all’inizio segue la successione di accordi e il cantato per poi grattare il cielo con le sue propensioni piene di magnetiche evoluzioni.



2 - Cosa rimane


La Motown si affaccia, miscelata a una modalità tanto cara agli Chic con un quasi funky unito a un vapore elettronico che utilizza due sole note per sposare questo vascello che, all’improvviso, attraverso il balbettio di un sax, ci ricorda i Roxy Music. Il cantato è deciso, la voce impastata, come un bulbo nel cervello, con una cadenza ritmica precisa. Il lungo finale ci porta a intendere come la vera storia scivoli nel silenzio di queste lucciole ripetute, che si conficcano nella testa…



3 - Attori malinconici


Prendi delle gocce, falle rimbalzare in uno specchio e poi mantienile vive, dentro una composizione sorniona, come un accenno, che immobilizza la stupidità, in un elenco di gesti e di volti che ci fanno sbiancare. Tetra, come i Cabaret Voltaire che si affacciavano alla sospensione metrica con l’intensità di esordienti loop, questa terza traccia abusa della pazienza, in un terremoto di echi soffocati e la brillante idea di camuffare la forma canzone, dandole uno strattone con un climax elettronico che ci porta a capire e ad afferrare con coscienza quello che accadrà, di lì a poco, con questo tipo di sperimentazione stilistica…



4 - Oh! Oh! Oh!


I primi secondi sono una slavina di riferimenti talmenti evidenti che è inutile elencarli.

Piuttosto: ciò che conoscevamo di questo pallottoliere di sentenze trova in questa occasione l’ironia e il fruscio di una follia che pare devitalizzare i rapporti con la noncuranza. Lo stesso accade con la musica che solo apparentemente si appoggia a un breve lavoro strutturale: a vincere è il suono, l’estensione che è messa all’interno di una gabbia sino a fare del riff di chitarra l’unica sicurezza piacevole. Pop in modo innaturale, selvaggia senza rabbia, riesce a portare una vocale al centro di una attività ludica che possa ipnotizzare le parole precedenti e quelle successive. Scheletrica ma efficiente, anticipa quello che poi sarà fondamentale per il terzo disco di Alberto Camerini. Ciò che fa del disimpegno un ingresso è, in realtà, l’uscita della coscienza verso l’inutilità di rapporti sterili…



5 - In tua assenza


Bowie, subito, poi la magnificenza di Fausto si alza verso i gradini colmi di lacrime di Rossi, con una voce gonfia di pietà e lamenti, come le parole, che sono scuri dentro la parabola (fallita) dei segreti. Una recita che arriva nei pressi delle pareti di Carnival dei Simple MInds, con la medesima teatralità, con un'incursione del sax che sarebbe poi stata utilizzata nel 1980 dagli Psychedelic Furs. Una danza tra le parole, le note, per mettere il bavaglio all’elettronica che stava sbandando: poche note, silenzi inglobati dai luoghi visitati dalle liriche, e un assenteismo che fa di questo brano un gioiello ancora incomprensibile… 



6 Kleenex 


Il trittico finale è un terremoto senza fine.

Si inizia da qui, da questa voce sussurrante, all’interno un tetro tappeto sonoro, con echi evidenti di una modalità cara ai Pink Floyd di Middle, per continuare con un cambio di registro, sotto il tintinnio di un organo, gli starnuti sexy del sax. Ma, più di tutto, pare di essere nello studio dei Can, in un laboratorio di oscena profondità, dove il sesso, la lacerazione del tempo, la fuga inadatta per essere totale, ci introducono al mistero di un favoloso fade away finale…



7 - Il lungo addio


Dio in mezzo a un addio: ed è tuono atmosferico tendente al giallo, cupo, gravido di noia, di liquori lamentosi, di una fuga che è riempita dal mistero, con note che non cercano di essere evidenziate, bensì si mettono addosso un cappotto fatto di brividi, con lampi reggae, con il futuro che fa capolino, con gli intarsi di strategie magnetiche a globalizzare il concetto espresso con incredibile saggezza. Si piange in solitaria, si arrotola il futuro negli scatti della voce, si trema con queste scariche elettriche tetre e malvagie. 

Non un brano ma una sentenza, un testamento dell’intellighenzia che aveva già subodorato il tutto: c’è da chiudere le finestre in faccia al futuro e questo brano è l’unico suicidio qualificato per renderlo possibile…



8 - Funerale a Praga


Quanto futuro in questo pezzo che parte da un violoncello tzigano, come un’artrosi senza legittimità?

Straziante, cadaverico, tristissimo, è una marcia senza forze  militari, per calpestare i movimenti di una modalità dell’esistenza che va decapitata. E sono incursioni rapaci, una pratica sovversiva di usare un circuito melodico che vada a snaturare la ricerca del piacere. Sono note pesanti, lente, che ci invitano ad abbandonare le energie, a rifiutare la deriva, consegnandoci un lungo film nella seconda parte, dove i giochi di potere vengono gestiti dalla glaciale tastiera e dal caldo sax.

La prima è lapidaria, precisa, ripetitiva e paradossale.

Il secondo è un volo nei piani emotivi, un condensato di possibilità che stringono il cuore, l’assenza del cantato ci induce alla memoria delle parole, e in tale frangente questa coda diventa un lunghissimo funerale, un congedo che raffredda la gioia e la mortifica.

In poche parole: oltre al capolavoro, in quanto il ripetuto ascolto di questo brivido è solo l’inizio di un ultimo respiro infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Settembre 2024


giovedì 12 settembre 2024

La mia Recensione: Platonick Dive - Take a deep breath


Platonick Dive - Take a deep breath


Piccole percezioni definiscono lo spessore di un lavorio, guidato dall’istinto o meno poco importa. Ecco dunque determinare una serie di luci che confortano la visione di tutto questo.

La giusta prefazione per un’opera complessa, radicata nella purezza e negli spruzzi che rinfrescano l’attuale panorama mondiale di tre generi musicali in debito d’ossigeno, vede la band Platonick Dive nel tessuto narrativo che scavalca la comprensione in quanto colmo di trame ascensionali, sapendo però anche scendere all’altezza della inibita ricezione dell’ascoltatore. Canzoni che ci portano a sentire il vento sotto le onde, a percepire l’abbraccio di mondi confinanti ma sempre comunque distanti. I tre musicisti dipingono la scena come diamanti da trasferire al suono, imbevuto di una prospettiva scenica sapiente e calorosa. In certi istanti il Vecchio Scriba scorge antiche gemme provenienti dai Wishplants con il loro mastodontico Coma o l’artista australiana Laura con l’inarrivabile Radio Swan Is Down, album che la band italiana probabilmente non conosce, ma di cui hanno saputo sentire l’importanza: quanta magia esiste in tutto questo?

Un trio che sparge la sua idea di contemplazione, sogno, emozione, nel vortice di uno scivolamento pellegrino dentro armonie e melodie con le idee chiare, sviluppando metamorfosi continue con cambi di ritmo, l’uso intelligente di una elettronica non al centro bensì al servizio di un senso collettivo delle singole parti.

Un lavoro che non necessita di improvvisazioni e genuinità ma, fatto ancora più rilevante, di uno studio meticoloso attraverso il quale fare delle composizioni non un teatro bensì un silenzioso percorso, nel quale ciò che è adiacente e nebuloso si incrocia nel cilindro di un bisogno davvero potente.

Il Post-Rock guida, crea visioni, ma senza negare il bisogno di spaziare nei giochi sperimentali che includono lo shoegaze più delicato e un alternative (specialmente nel drumming) che consente formule piene di varietà, finendo per sedurre e rendere l’esperienza dell’ascolto quell’incontro con il vento sotto l’acqua, come affermato in precedenza.

Quasi del tutto strumentale, con l’impressione che le voci siano nascoste per necessità ma abili ad arrivare con raffinatezza e morbidezza. 

Esistono battaglie dei suoni, ritmi prevalentemente lenti, spesso sincopati, e una prateria di arpeggi che impegna il basso e la batteria per creare la coesione perfetta, data la mole impressionante di trame chitarristiche sempre piene di energia e poesia.

La grande consolazione giunge dal non essere un capolavoro ma un album ancora più nutriente, in quanto sa nascondere parte del proprio volto e questo costituisce un fatto irresistibile, importante, e definitivamente più incisivo del capolavoro, parola e atto regalati con troppa fretta e non più credibili.

Il fiato che si usa in questa situazione è quello che serve per sentirsi trasportare, per un ascolto sempre nuovo, in quanto la chiave sta nella mole di alchemie sviluppate per non ripetersi. Ci sono drammi, tristezze, nostalgie e sommosse dell’umore in Take a deep breath, in un circuito consequenziale che vive nei pressi di una proiezione sonora che si sposa con immagini in accumulo e mai in transito.

Come dire: nulla si perde, ma tutto diventa un salvadanaio che si gonfia e rende il sorriso il vero guadagno di questa esperienza. Dodici storie mute (in apparenza) che sanno uscire dalla coda di favole intimamente devote alla solidarietà: in certi episodi si pensa davvero che la band sia in grado di scrivere un nuovo linguaggio, rafforzando la convinzione di chi scrive che questo sia un appuntamento meraviglioso con una serie di novità forse di non facile rilievo.

Con decisa personalità, le canzoni presenti si discostano di molto dai loro esordi e in questo passaggio del tempo ci sono segnali evidenti di consapevolezza e forza: basta approcciarsi all’ascolto purificando l’egoismo e l'errato esercizio della comparazione per notare come le pennellate siano solo l’inganno meraviglioso di fascine che cadono ai piedi dell’acqua. La robustezza è più nell’indole che non nel suono: ecco il Post-Rock della fine degli anni Novanta ricordarci come bastino poche note, non una infinita trama di accordi per elevare il contatto con la poesia.

Quanto beneficio nasce da questi minuti in cui ci si trasforma in orecchie che vedono e bocche che suggeriscono evasione? Moltissimo: il ventilatore delle emozioni si ritrova nei pressi di pensieri, in un idillio che diventa forza generatrice di nuove pulsioni, gravitando nella pacifica coabitazione di sogni e orizzonti, sì, perché il piano onirico pare essersi vestito per uscire da queste note suadenti.

La produzione è buona, sebbene esistano alcune imperfezioni e qualche piccolo errore nelle dinamiche dei volumi, ma credetemi sono elementi meravigliosi, che fanno capire quanto la dimensione Live sia quella più congeniale e dove gli errori sono sorrisi della dea della musica. Notevole la scelta di dare al minutaggio poche possibilità di dilungarsi: la noia non compare mai e la vitalità di alcune soluzioni che si avvicinano alla musica classica e a certi remix di Moby e degli Air rende il tutto una vitaminica constatazione della ricchezza che vive in queste tracce.

Spaziando dagli anni Novanta ai giorni nostri, questo vento sotto la pelle dell’acqua gioca a nascondere, a proteggere, sviluppa oscena bellezza rendendoci ricchi, quasi con vergogna. Molto italiano nella produzione e nelle ritmiche, inglese come attitudine di sviluppo, questo album offre riflessioni multiple: il senso di attesa, l’enfasi, la gioia e quelle lacrime piene di sole che sciolgono le paure. La tensione è una parte importante: queste favole cercano luoghi creandoli, affollando di suoni che spaziano come tecnica, come variazioni e l’ingresso, felicemente depositato, in un disco che sembra un cantiere aperto al pubblico.

Non avrà il successo: poco male, perché sarebbe la loro rovina, avrà, invece, la capacità di essere un solvente, una scossa emozionale e un vasodilatatore dei sensi per chi dall’ascolto sentirà che potrà entrare in connessione con questi notevoli musicisti, per poter sentire quella unicità che i Platonick Dive hanno di certo…

Andiamo, tuffiamoci nelle dodici onde: forse non impareremo a nuotare, ma conosceremo l’odore di un incontro davvero incandescente…


Song by Song 


1 - Intro

Una turbolenza elettronica ci immette in un clamoroso inganno: nulla fa presagire cosa avverrà, le chitarre, le esplosioni contenute. Ma è proprio questo elemento di confusione che crea uno smacco dolcissimo: un'introduzione che pare una perfetta intrusione coi suoi algoritmi ascensionali, con l’elettronica che fa spalancare la bocca dallo stupore…


2 - Carpet Ceiling

Ecco giungere la farfalla di una sei corde che trama voli  nel vuoto, sostenuta da un drumming vorticoso e militare, echi dei Leech amati dal Vecchio Scriba inducono il primo maremoto: una ninnananna che sembra acustica nelle intenzioni, ma in grado di essere un insieme caloroso di cavi…


3 - Faro

Moby pare essere incuriosito, nei primi secondi: ci sono punti di contatto con Play, ma poi è un airone che seduce per le zone basse degli istinti, questa molecola che esce dalla sei corde, il cambio ritmo, voci in sottofondo come se fossero in volo nel cielo toscano. E sono punte di contatto con il leader dei Durutti Column: la progressione degli accordi è pura catarsi…


4 - Anesthetic Analgesic

È notte, è timore, è uno scivolio sul manico della chitarra che spiazza, il basso che inonda le onde e la batteria che dà ordine, per un brano che è un insieme di spruzzi e di stop and go solo accennati: quando la poesia moderna riesce a presentarsi, come in questo caso, ci si sente come nei film di Truffaut, ricchi e sistemati per molti anni a venire.  La trama ha la faccia del Post-Rock più umido, prossimo a vistose lacrime, grazie a un effetto che circonda l’ascolto e un loop feroce che assesta il colpo…


5 - Naked Valley

Rover prende appunti, come Bernard Butler: qui le note sono ruscelli e un dolore quasi invisibile tocca questi figli degli Adorable, quando lo shoegaze era una miniera infinita. Un film, un fremito e un basso che scivola ai piedi, una creazione davvero notevole…


6 - Too Beautiful To Die Too Wild To Live

Eccolo, il diadema, il nucleo di ogni partitura che entra nella zona della bellezza del cielo: enfatico, ermetico, benedetto dalle sue zone che sembrano necessitare di avamposti della forma canzone. Lo splendore di strofe e ritornelli senza voci è una emozione purissima…


7 - Interlude

La porta si apre lentamente, come un intermezzo con pennellate delicate, un tremolio che arriva alla punta delle dita, pochi secondi che sanno creare tensione: anacronostica, perversa grazie al suo abito lungo e nero in un giorno di sole. Sono frammenti di suono in fondo al mare…


8 - Falls Road

Il Vecchio Scriba non ha esitazioni: in questa traccia vive la maturità, lo studio, le ascensioni algebriche di tensioni alla ricerca di una perfezione che la band sa creare. Tutto fluisce nel delicato meccanismo di nuove pagine che si aprono secondo dopo secondo, spiazzando, generando intensità sino alla rullata: da quel  momento è una penna di luce che scrive la storia, un brano lucente, glorioso, che merita il punto più alto del podio… 


9 - Blue Hour

Immaginate Peter Gabriel in vacanza in Toscana, mentre cerca visi e strade, per trovare la pace dello sguardo. Improvvisamente, arriva Blue Hour ed è una cavalcata di notte che accende il sogno, la volontà di esserci e non di fuggire. Il brano è una sfera di catarsi tenute a mollo nella dolcezza, negli episodi di un crocevia che vede chitarra, basso e batteria parlare la stessa lingua, con ruoli che finiscono per essere un calendario del suono in ascesa…


10 - Santa Monica

L’inizio spiazza, sorprende, offre un lato non conosciuto della band, che pare aspettare il momento giusto per azzannare l’ascoltatore con un incipit elettronico di notevole fattura: semplice ma ben riuscito.

E invece no: Santa Monica è una proiezione futura della band, meno legata ai generi musicali amati ed esibiti, piuttosto un sondare ciò che verrà nelle loro anime così curiose. Perfetta per i pomeriggi in cui i vizi cercano spazio, la canzone gioca con gli innesti e con  riferimenti quasi impercettibili. Un gioiellino che diventerà gioiello quando chi ascolta avrà imparato a vedere capacità multiple…


11 -  Struggles & Feelings

Quindici secondi iniziali: come attendere la pioggia con due note e ritrovarsi poi con un pianto che cade dal cielo, una distorsione tra il riverbero che impasta la gola, il drumming che scuote e la tensione che visita gli arpeggi. La strategia della sonda è quella di avere la memoria degli incontri. Così fa questo pezzo, che estende il campo di azione per generare trambusti, ben voluti. Le cavalcate di The Edge degli U2, se utilizzasse questi effetti, saprebbero rimanere in eterno. Ci pensa la band italiana a prendere l’ossigeno e a circondarlo di perfezione…


12 - Tribeca

La conclusione è un brindisi con chitarre che sanno ricordarci il secondo album dei Cranberries e certe soluzioni di Matt Johnson dei The The, ma poi è tutta farina del sacco di questi ragazzi che terminano con il brano più epico, struggente, mettendo anelli di sabbia nei cambi ritmo, una vivace melodia che conduce alla danza e una trama che sembra costruita per chiudere  i loro concerti. Poi: la sorpresa di un crooning, maschile, a generare il connubio ideale per enfatizzare ciò che si è appena ascoltato. Dove non osa il Post-Rock ci pensano questi magnifici Platonick Dive…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

13 Settembre 2024


https://platonickdive.bandcamp.com/album/take-a-deep-breath

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