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giovedì 30 ottobre 2025

La mia Recensione: Òvera - Divergenze Condivise








Òvera - Divergenze Condivise


“Cercami tra le tue dita

e osserva ogni cielo cambiare

e se vorrai immaginare

non potrai mai perderti

perché sarò con te

ad accoglierti”

Paolo Benvegnù - Se questo sono io




Senza nome, con dei germogli: tutto è definito in questa distesa identitaria, di costruzione, l’approccio alla precisione, il vanto di una modestia che rispetta il tempo.

Quest'ultimo, da sempre, ha guidato la formazione pistoiese che, con quarantadue anni alle spalle lo ha sempre definito, circondato, approcciato e rispettato.

La loro storia li conduce ad allungare i propri semi, impeti, caratteri, precisando ogni intento con una classe infinita, distribuendo sorprese, spargendo il sale sui sogni, invertendo la rotta dell'attualità, senza dispersioni di energie, fregandosene delle mode, delle apparenze, sfruttando l'opportunità di nuovi strumenti, mantenendo una spiritualità folk che soffia sulle stelle la sua antica essenza al fine di  divenire un gioco serio per incroci perpendicolari. La loro musica, in questo nuovo strepitoso lavoro, è un’acrobazia inaspettata, una stretta di mano che coccola e scuote, una discarica di qualità in cerca di sistemazione, un dialogo fitto con le osservazioni, le descrizioni, un cancellino continuo sulle approssimazioni, una dolcezza che non dimentica di precisare l’infinita infelicità terrestre, un portare avanti gli elementi che sono ormai senza uno sguardo da parte della maggioranza delle anime.

Il disco è dedicato a Paolo Benvegnù, un altro germoglio infinito che risiede dentro le esistenze dei quattro uomini che in lui hanno trovato un compagno di strada…

Sono brividi, belli, certificati, e il nostro grazie abbraccia questa splendida dedica.

Un progetto che consta di nove nuove composizioni, di una serie di cinture che allacciano il senso dei nostri rifiuti, di indicatori coscienti, di una fertile capacità di scrittura che qui si fa più armonica, totale, in cui ogni membro ha offerto, donato, fertilizzato le altrui qualità per dirigere il tutto verso il mare della completezza. Stupisce come non sia un viaggio tra i generi musicali, bensì un accordo continuo con il necessario lavoro di perlustrazione, in cui le note sono un mezzo parziale, così come i testi: l’insieme sembra una rete in cui le stelle si avvicinano agli occhi delle nostre percezioni, in un dialogo fitto, che sequestra i sensi.

L’elettronica non come mezzo artistico ma come veicolo di luce tra le luci, un imbuto, un abbraccio, una scossa e un sussurro che permea queste creazioni per condurle alla perfezione. Tutto ciò permette al tempo di essere un elastico, una scusa che sublima l’introspezione, per fare di tutte le tracce di quest’opera l’inizio di uno specchio morale e attitudinale.

Canzoni come un martello che, ricoperto di seta, colpisce lentamente…

Tracce come un microscopio lasciato tra le onde del cielo…

Un album come un ascesso, un amplesso, un fremito, una scommessa muta che gira nei solchi per renderci un respiro centripeto.

La storia di questa scrittura evidenzia impalcature, gemiti, e un antico sentire dove nulla deve essere temporale bensì un’aurora boreale dei sogni che qui non hanno bisogno degli occhi.

Le musiche e le parole vivono, molto di più che in passato, di un’azione contigua, continua, di macchie di colori su cui tutti hanno messo le dita. Certamente Stefano Nerozzi rimane il musicista che scrive moltissimo e tuttavia non si ritrova da solo, accerchiato, da parte di Alessandro Pacini e Andrea Signorini, per rendere tutto armonioso, completo, esaustivo, vero, efficace… 

E che dire poi di Pasquale Scalzi con il suo Flicorno?

Un pennello dai movimenti antichi che sublima il tutto con grande maestria…

Note come respiri notturni, parole come raggi solari che non illuminano ma fertilizzano il cammino: un lavoro significativo, disturbante per chi si disinteressa degli odori dell’esistenza e gratificante per chi rallenta le proprie idiozie.

Gli Òvera rimangono nei pressi del senso, della poetica vocazione a suggerire, mai grezzi, mai negativi, sempre volenterosi di essere alunni dentro il mistero dello scorrere del tempo. Un arpeggio, una sequenza di intuizioni, un approccio che non rifiuta le decadi passate, come menestrelli curiosi della novità, ma in grado di incidere con gli strumenti della propria cascina.

Un disco che architetta il vuoto, costruisce dagli sprechi, delle emarginazioni, con attenzioni peculiari e una devota ostinazione alla manualità, al senso antico dell’arte che nasce e si sviluppa nel quasi anonimo luogo del silenzio…

La produzione di Gabriele Gai regala intimità, un collage, un puzzle attento a far combaciare la struttura delle composizioni con il suono, generando un senso logico che protegge dalla fuga. Nessuna canzone regina, tutte vette che si guardano in volto, con il loro percorso, con la magia del dolore che si affianca a quella della verità, molto più valida di quella del sogno e delle speranze. 

Incursioni, come lampi geniali, negli spazi della malinconia, incontri che ispessiscono lo sguardo, con la complessa e grave propensione all’autenticità, che rende il tutto scomodo e facilmente evitabile…

Ma i quattro archeologi del fare artistico hanno le spalle come mattoni, amano la polvere che nasconde, perché consapevoli del fatto che  non conoscono impedimenti per la loro crescita, umana e artistica, che passa anche attraverso scontri, scazzi e dubbi.

Tutto ciò si sente e veicola gioia: una verità senza maschera consente alla fiducia di germogliare…

Gli Òvera diventano un’opera all’Opera, uno spettacolare combo che, dimentico degli amplessi postmoderni, riabbraccia l’antico con i colori del futuro…



Song by Song


1 -Ad un passo da te

Il ticchettio del tempo, un temporale iniziale, un arpeggio medievale e poi via sulle spalle del tempo, il confronto e l’attesa, nello scenario magico di una musica che genera stratificazioni. Come se il cantautorato non dimenticasse le filastrocche, con uno sguardo alla successione di accordi che consente, in questo episodio, sia la forma canzone che l’istinto alla progressione della musica progressive.



2 - Metaverso

Il teatro del tempo svela oscena bellezza, molteplicità, metodiche, generi musicali diversi, una vocazione al graffio, mai alla sintesi, per note che si fondono, che corrodono, con le parole che dipingono, strappano, limano, per poi condurci nel ritornello a ballare sul testo  solo apparentemente leggero. Un pezzo che offre la sapiente duttilità del combo pistoiese, in uno stato di grazia che accoglie diversi riferimenti stilistici ma sempre in fuga dalla definizione precisa. L’anima pop emerge, senza dubbio, tuttavia è arrossata, in fuga, con una libertà che fa compiere un balzo senza ritorno…



3 - Contare sulla distanza


Il Trip hop che richiede il supporto di Jean Michelle Jarre, il senso della pausa, del silenzio, il mantra che ci ricorda Teardrop dei Massive Attack e poi una direzione che non consente più riferimenti. Un brano che concentra il tutto sulla ciclicità del sublime cantato di Paolo Ferro, qui alle prese con il selvaggio problema della metrica: vince la sfida portando le corde vocali sui cieli plumbei delle movenze, muscolari ma tenue, della musica. Si capisce come questo sia un esercizio su cui costruire l’intero lavoro, una poesia elettronica che distribuisce verità e lacrime come respiri…



4 - Erbe selvatiche (feat. Alessandro Fiori, ex voce dei Mariposa)


La bocca si spalanca, il teatro dei regali ci offre un’accoppiata inimmaginabile, il vortice di un toccante genio creativo che consente a due voci di essere protagoniste di una ninnananna senza fine, con le polveri di un intenso lavorio musicale che scuote per leggerezza e profondità, un brano che avrebbe fatto felice Luigi Tenco… Epicità e attenzioni, premure, coriandoli sonori come un mantra che addormenta i fremiti, con un drumming e il basso che quando si presentano diventano lo scettro su cui tutto sfuma con tenerezza…




5 - La luna sopra me


Pare di essere in Belgio, nel paese in cui l’elettronica ha versato sangue azzurro, creando anche le basi dell’ebm.

Il brano più lontano dal suolo pistoiese diviene in realtà il frutto delle loro abilità, dei loro studi, dei loro non vincoli…

Metrica, ripetizioni, flash sonori, cambi visivi, di scenari, in un massacrante ma gentile bombardamento che ci ricorda i Lassigue Bendthaus e gli inganni sonori dei Coil, per un insieme particolarmente intenso, fuori da ogni preventiva illusione. La grandezza della band qui trova simboli e residenze per il futuro…





6 - Spalle coperte


Stefano Nerozzi apre le danze, Gabriele le allunga e la band, tutta, le continua attraverso il tempo con uno stile che ci ricorda la Nouvelle Vague, i chansonnier francesi, per poi fertilizzare il tutto con un testo crudo ma vero, come sempre, diventando l’emblema di una scrittura che sa essere un elastico senza remore…


7 - Cerco lacrime


Quando la bellezza crea equivoci, verità, perplessità, affanni e paure, una giostra in disuso che invoca calma, dignità, e i luoghi giusti per palesarsi. Questo fa Cerco lacrime, il miracolo che genera trambusti, con l’ardire della musica che, attraverso il drumming poetico ma sicuro, porta l’intera struttura ad approdare nel delinquente esercizio del testo, così gravido di tensioni e amarezza che congela i respiri…

Ed è in questo luogo che gli Òvera esalano la distensione, il perimetro preciso della pazienza descrittiva che, per quanto  ferisca, diventa una moglie sincera e perfetta…

Nel suo tappeto sonoro ondeggiano richiami, albe e tramonti, ma soprattutto il bisogno autentico di dare alle parole un abito notturno con il quale apparire nella storia della canzone italiana che Mina sin dagli anni Settanta ha saputo rendere perfetta. E il Vecchio Scriba spera che sia proprio lei, un giorno, a cantarla…




8 - Tutto cade 


Accenni di rave, di Prodigy, di anni Novanta in cerca di memoria, ma poi sembra di sentire i Man of Moon approdare in Toscana, per stipulare un contratto di contatti e abbracci. Tutto scorre, tra la voce filtrata, tremante, tra i beats e psichedelici richiami che rendono l’insieme semplicemente armonioso…



9 - Pioggia calma


La chiusura in realtà diventa l’apertura, incontestabile, al contatto con il passato della band, mentre lascia i germogli di ciò che sono divenuti consentendo agli strumenti di essere parentesi, accenni, piramidi e coperte per assorbire la pioggia calma che consente la fertilità.



Òvera:

Stefano Nerozzi - Chitarra elettrica, chitarra battente, mandolino

Andrea Signorini - Basso, cori

Paolo Ferro - Voce

Alessandro Pacini - Batteria


con:

Pasquale Scalzi - Flicorno

Gabriele Gai - Elettronica, campionamenti

Alessandro Fiori - Voce e Synth in Erbe Selvatiche


Produzione - Gabriele Gai


Etichetta Discografica - Vrec


Distribuzione - Audioglobe



Alex Dematteis

Musicshockworld

29 Ottobre 2025

Salford








venerdì 20 giugno 2025

La mia recensione: Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin


 Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin


Nel caos del disagio, esiste un corrispettivo silente e un programmato attrito, che disarciona il sapore acre della rabbia, come un’ostinazione che va esposta, già crocifissa.

La band Edna Frau stupisce ancora una volta, per un fatto davvero desueto che va necessariamente spiegato.

L’album di esordio di quasi cinque anni fa, My Ego is Bigger than Yours, pareva un secondo se non addirittura un terzo lavoro, per la sua elaborata propensione a muoversi dentro zone multiple, come in cerca di un aeroporto musicale dove poter esporre la fiumana di idee, presentando la piacevole difficoltà nell’accogliere grandi canzoni ma forse strutturate come un atto di presenza. Non un difetto, per carità, tuttavia nella sua incandescente bellezza si fatica a sostare.

Invece ora pare di trovarsi davanti a un incrocio da attraversare con il rosso e il nero, senza indugi, con quella irruenza giovanile che vuole smuovere le acque del cielo.

Un progetto robusto, rovente, appassionato e sofferto, però il dolore non è un lamento bensì una benevola forma di integrazione con gli sviluppi di sogni, incubi, accertamenti, attestati ironici e il guitto di una mescolanza musicale ridotta e comunque maggiormente in grado di insinuarsi nell’accoglienza di un ascolto che è educato a considerare le basi trasformative di un post-punk connesso in modo diminuito all’elettrodark che era molto presente nelle tracce dell’esordio.

Ci si ritrova così nel viaggio ondivago tra la Germania, gli Usa e l’Inghilterra, come una lampada che acceca per poterci far vedere solo l’indispensabile.

Stupisce come i testi di Vins Baruzzi e le musiche di Andrea Fioravanti sappiano esercitare il bisogno di guardare verso la schiena del tempo e dei luoghi.

I punti di contatto ci riportano alla entusiasmante parentesi dei tedeschi Stimmen der Stille, così come agli Actifed, ai Brotherhood of Pagans e ai Sound degli esordi. 

Ma è solo una finta, una scusa, perché i ragazzi usano la musica come razzi, riflessivi, per colpire la stagnante inattività del cervello.

Si spiega in tal modo la scelta delle chitarre di essere acido rovente che spara note come una baionetta, e la voce che nella sua teatralità ritrova i Killing Joke per il tempo di creare storie nelle quali l’accattivante cattiveria è solamente l’inizio di un incendio.

Musica come una rasatura inevitabile, con il nerbo caldo di vicende colme di saturate delusioni. La band suona come se fosse un’edera incattivita dal clima, porta il suo carico vitaminico nelle frustrate di un drumming che non ci fa danzare bensì rovistare nella nostra esigenza di portare la malinconia altrove. Il basso è una fabbrica di olio nero, che conserva il sapore degli anni Ottanta, mentre la chitarra ci scaraventa nel silenzio di dita che parlano un linguaggio che ci conduce ad accogliere un’anima colta davanti a un palazzo mentale incandescente e in fase di tremolio.

La voce e la modalità del canto è un labirinto rimbalzante, scarnifica e ci riporta sull’attenti, ospitando una dolcezza elaborata da testi che, finalmente, sentenziano, e la morale viene esposta, come è giusto che sia.

Anche solo per tali motivi quest’opera andrebbe mummificata nelle nostre orecchie, sviluppando, coscientemente, un grazie ispirazionale e devoto. Ricchezza e fragore qui superano di netto le sei creature artistiche: la sensazione è quella di sostare nel tempio desertico di un silenzio che alza le tende, in quanto ogni traccia ha nel suo dna un senso fertile della disamina, del disgusto, palesando l’allergia per il pop e prendendosi, prepotentemente e in modo meraviglioso, la possibilità di divenire ipnosi, nel sodalizio del matrimonio perfetto tra l’arte espressiva e l’ascolto.

Un disco pazzesco, per l’abbondanza di estasi razionale, per gli ingressi di ricordi che sembrano attuali, per la teatralità dell’impianto musicale che raccoglie l’elettrica danza e la commistione raffinata di un rock maturo con il cappotto grigio e il bavero nero.

E quando le stilettate ci riportano agli amati Belfegore del Vecchio Scriba, ci accorgiamo della convivenza, in modo meno esagerato rispetto al primo album, di quella ondata magnetica di electro band degli anni Novanta che conquistavano le dance hall ma non l’anima…

Lo spazio americano del disco si nota quando si riscontrano punti di contatto con la formazione Californiana Burning Image: ed è un sorriso del petto mentre affitta graffi nella mente.

L’energia di queste sei canzoni va oltre la bellezza: il buon gusto del gruppo di essere meno dispersivo ha segnato la convivenza con la schiettezza del loro sentire interiore.

La perfezione è stata raggiunta: abbandonata definitivamente l’idea di uno spazio musicale italiano, i ragazzi diventano piloti di uno spazio emotivo che si abbina in modo ricco a quello mentale: fuggono, fanno scappare, per poi presenziare, nella addomesticata ma elaborata forma canzone, al loro diniego nel cratere centrale dell’album, che andremo ad analizzare tra poco.

Significativo, nel cantato di quasi tutti i ritornelli, l’accostamento, nobile e rilevante, con la modalità espressiva di Mark Burgess dei mai dimenticati The Chameleons.

Ma è solo un attimo: Vins si nutre del suo immaginario e sposa le trame stratosferiche di Andrea rovistando nel suo presente. Ecco l’ennesima sorpresa, l’irruente capacità di spodestare i paragoni.

Le note musicali sono tutte parole gravide di urgenza e metodo, i testi sono amplessi sonori che tengono per il bavero la pazienza: un disco che va di fretta ma che è fatto per anime che sanno espandere la calma…

Passiamo ora all’approccio di ogni truciolo di questo lavoro: fate spazio e abbracciate questa band perché le lacrime, quelle migliori, non sono mai rispettose…



Song by Song


1 - The Laundry Of Sins

“If you need color sin wash

or are you here for black or white?”


Una rovente corsa, imbastita da un basso velenoso, ci conduce a sentire una modalità di canto prossima al buon Vanian dei Damned, mentre la struttura corrosiva della chitarra pare nascondersi. Invece è un veleno che fa il paio con il testo, uno schiaffo all’esistenza altrui, alla volgarità e alla sporcizia attitudinale. Un maestoso palco dove vengono esposti, con saggezza, dei saliscendi dinamici ben strutturati e, in mancanza di una falsa eleganza, la band vira verso una totale e devastante sincerità…



2 . Slow, Be Gentle I Am Virgin

“It’s time for my heart to know who you are”


Il ritmo sincopato potrebbe convincerci che l’insieme stia per rallentare l’intensità ma, davvero, assistiamo al suo clamoroso opposto: l’enfasi si presenta nel basso gracchiante, nel cantato a un registro vocale più alto e solo apparentemente più melodico. Il drumming è un insieme di alberi che hanno la funzione di catturare l’eccitante esposizione di un antico post-punk in cerca di vendetta. Il titolo, ironico e sarcastico, è solo una goccia di un oceano razionale che, come un bandito, non desidera l’approvazione ma vittime…



3 - See Me

“Taking off with your dreams

throwing away problems”


Si va in Germania, si vibra con una propensione alla drammaticità che stuzzica la pazienza, con il crollo del muro della visibilità, con l’immenso approccio (che non è mai un didascalico trucco) di un ritornello che abbraccia la foresta nera e la Dusseldorf più meditativa. Una cavalcata anomala di una chitarra che si appiccica al rumore e all’evasione in modo spettrale…



4 - Again

“Again a bad choice

they will be tests of survival”


Un gioiello in odore di Echo & The Bunnymen nel suo inizio, ma poi capace di sostare nelle zone terremotate di uno stile chitarristico più attuale, con inclinazioni darkwave e l’anima imbevuta di riverbero. L’episodio più esasperato dell’intero progetto ci offre la possibilità di una riflessione attraverso il gioco perfetto di altalenanze espressive. Epica, devastante, soffocante, la canzone è la ciliegina, in fase di ipnosi, che ci fa andare il bolo alimentare nei canali della nostra mente.

Chicca assoluta con un finale che pare uscito da Juju dei Banshees…



5 - Day One

“Describe all your feelings and fears”


Ed eccoli i semi del primo album ripresentarsi: l’attenzione nella mescolanza espressiva ci conduce a una elettronica nascosta ma pulsante, mentre il binomio voce-chitarra crea un’abbondante inclinazione all’abbandono metafisico. Una rincorsa, un pianto esasperante viene accumulato in questa semplice ma granitica sequenza di accordi. Il suono diviene così l’anima di una mortalità in cerca di rifugio…



6 - Working On Myself

“Too many thoughts are running in circles inside me”


La conclusione presenta un ospite, un elemento noto per il suo percorso artistico nei Sorry Heels.

Il brano è una ballad cacofonica, un grido lento, un lancinante passo di danza negli echi elettronici e nei vapori di un drumming elettrico e in grado di abitare le zone impervie della lentezza.

Vengono esposti i sentimenti del dramma con stigmate pop innevate di disperazione, per consegnare alla conclusione il rispetto dato da inevitabili riflessioni.

Radiofonico (ovviamente per i circuiti interessati alla divulgazione di una rabbia ammaestrata), magnetico e fluttuante, quasi a due passi da un aspetto onirico che mai prima si presentava.

Uno stupore anche offerto da un ritmo che, quando rallentato, ci consente di sentire le varianti elettro-dark della band.

Quando la malinconia crea un sorriso, l’atmosfera diventa un innesto prolifico per il ricordo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Giugno 2025

Vins Baruzzi - Voce

Andrea Fioravanti - Chitarre e polistrumentista 

Federico Guardigni - Batteria

Dario Foschini - Basso


22 Dicembre Records


https://ednafrau.bandcamp.com/album/slow-be-gentle-i-am-virgin



La mia Recensione: Òvera - Divergenze Condivise

Òvera  - Divergenze Condivise “Cercami tra le tue dita e osserva ogni cielo cambiare e se vorrai immaginare non potrai mai perderti perché s...