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martedì 25 aprile 2023

My Review: Goradze - Doctrine Of The Void

 Goradze - Doctrine Of The Void


The old scribe revels in the turmoil of this listen: marvellous corridors full of seemingly uncovered electricity cables open up, for a result that brings hands to ceaseless applause.

Well: Washington is the city of residence of this trio of unquestionably talented humans, gifted with patient research and an aptitude for compacting a torrent of unhealthy but delightful feedback, while the sound is torn and exhausted, led into the prison of this enchanting album. The avant-garde, the most secret minimalism come together in a discourse in which the gothic sphere leaves its mark, without needing all the corollary of the waves of that musical genre, making the whole thing extremely disturbing and therefore interesting. One has the impression of listening to lucid follies that want to destroy old clichés on the one hand, and on the other demonstrate the attempt to stratify knowledge and take it to extremes. They intervene with quality in covering sensations with a mental gully, to make what is stale and useless die. A resounding work that deserves your interest: it is works like these that give confidence!


Alex Dematteis 

Musicshockworld

Supino

25th April 2023


https://gorazde.bandcamp.com/album/doctrine-of-the-void




La mia Recensione: Goradze - Doctrine Of The Void

 Goradze - Doctrine Of The Void


Il vecchio scriba si crogiola nel turbamento di questo ascolto: si spalancano meravigliosi corridoi pieni di cavi della corrente elettrica che paiono scoperti, per un risultato che porta le mani ad applaudire senza sosta.

Ebbene: Washington è la città di residenza di questo trio di umani dal talento indiscutibile, dotati di pazienti ricerche e di un’attitudine a rendere compatta una fiumana di malsani ma gradevolissimi feedback, mentre il suono viene lacerato e sfinito, condotto nella prigione di questo album incantevole. L’avanguardia, il minimalismo più segreto si riuniscono in un discorso in cui la sfera gotica lascia la sua impronta, senza necessitare di tutto il corollario delle onde di quel genere musicale, rendendo il tutto estremamente conturbante e quindi interessante. Si ha come l’impressione di ascoltare lucide follie che vogliono distruggere da una parte antichi cliché, dall’altra dimostrare il tentativo di stratificare le conoscenze e di estremizzarle. Intervengono con qualità nel rivestire le sensazioni con un burrone mentale, per far morire ciò che è stantio e inutile. Un lavoro clamoroso che merita il vostro interesse: sono opere come queste che regalano fiducia!


Alex Dematteis 

Musicshockworld

Supino

25 Aprile 2023


https://gorazde.bandcamp.com/album/doctrine-of-the-void





lunedì 13 marzo 2023

My Review: The Doctors - Modern

 The Doctors - Modern


If we rely only on personal taste, we end up defining records as good, bad and so on, in a sterile game of personal work in identifying what it contains.

Some works seem incomplete, missing something, as if they had short sleeves in the middle of winter, showing and giving the feeling that everything can be postponed to a future project. Instead, those are the best albums, without a doubt.

Take Modern, by the brothers Patrick and Domenique Mouras: amidst the venom, the ravings, the Post-Punk screams with electronic adjacencies, one might think of something monotonous, but instead it is the perfection of what is missing that makes these six tracks perfect, croaking, fulminating, hysterical and aggressive. Approaching them meticulously, we do not have a manneristic sense of design but rather a youthful impetuosity, impetuosity and brittleness that travels fast over discomfort, to define humanity as a resounding approximation. They are good because they are whole, explosive and determined to cut through the air with chops of primitive sound, pressing and curling up in the rivulets of water agitated by the Coldwave that appears with great elegance. The French combine a gothic mood with a sparkling chain of music that sweeps and dilates the senses: the use of different languages is an arrow of salt that allows multiple suggestions. There is no doubt that we are dealing with an illuminating sphere of qualities that know no pause: they investigate, conquer and rummage through time to find hooks to incinerate. A sensational disc that deserves the stage of your listening...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
13th March 2023




La mia Recensione: The Doctors - Modern

 The Doctors - Modern


Se ci si affida solo al gusto personale, si finisce con il definire i dischi come belli, brutti e via dicendo, in un gioco sterile di lavoro personale nell’individuare ciò che contiene.

Alcuni lavori sembrano incompleti, mancanti di qualcosa, come se avessero le maniche corte nel pieno dell'inverno, mostrando e donando la sensazione che tutto possa essere rimandato a un progetto futuro. E invece quelli sono gli album migliori, senza alcun dubbio.

Prendete Modern, dei fratelli Patrick and Domenique Mouras: in mezzo al veleno, alle scorribande, alle urla Post-Punk con adiacenze elettroniche, si potrebbe pensare a qualcosa di monco, e invece è la perfezione di ciò che manca che rende questi sei brani perfetti, gracchianti, fulminanti, isterici e aggressivi. Approcciandoci a un meticoloso ascolto, non abbiamo il senso manieristico della progettazione bensì una irruenza giovanile, impeti e fragori che viaggiano veloci sui disagi, per definire l’umanità come una clamorosa approssimazione. Sono bravissimi perché integri, esplosivi e determinati a tagliare l’aria con sforbiciate di suono primitivo, incalzanti e raggomitolati nei rivoli dell’acqua agitata dalla Coldwave che si affaccia con grande eleganza. I Francesi uniscono l’umore gotico a una frizzante catena di musica, che spazia e dilata i sensi: l’uso di lingue diverse è una freccia di sale che consente suggestioni multiple. Nessun dubbio che ci stiamo trovando davanti a una sfera illuminante di qualità che non conoscono pausa: indagano, conquistano e rovistano il tempo per trovare ganci da incenerire. Disco clamoroso che merita il palcoscenico dei vostri ascolti…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
13 Marzo 2023






giovedì 24 novembre 2022

La mia Recensione: carillon del dolore - fiori malsani

La mia Recensione:


carillon del dolore - fiori malsani 


“Fa parte delle imperfezioni e delle rinunce della vita umana il fatto che la nostra infanzia debba diventarci estranea e cadere nell’oblio, come un tesoro sfuggito a mani che giocavano, e precipitato in un pozzo profondo.”


Herman Hesse


Qualcosa di eterno vive nel dolore, nella corsia cattiva di ogni oblio, nella supremazia del male che rappresenta l’uccisione dell’esistenza.

A una città in particolare tocca il triste primato di simboleggiare perfettamente tutto questo ed è quella nativa dello scriba: la maliziosa e velenosa Roma, la Regina di nefandezze, turpiloqui, devastazioni, colei che ha rubato il sole solamente per mostrare gli incanti illusori della bellezza, mentre nei sotterranei della sua mente scorrevano getti di morte senza chiusura.

Non sorprende che la band più significativa della capitale sia un riflesso fenomenale di antichi riti e quindi rilevante e sublime per questa contemporaneità ignorante che rifiuta la conoscenza e la coscienza del vero.

Questo serpente dal veleno incestuoso optò per un nome stratosferico, un’ottima potenza conquistatrice: già, è insito nel dna che al destino non si possa porre opposizione. Perfetto, per spalancare il cuore verso capricci di bisogni impestati, i ragazzi iniziarono proprio da quell’aspetto fondamentale, una attrazione fatale, obliqua, spigolosa, morbosa, cadaverica. 

Provenienti da due formazioni diverse, iniziarono subito a mettere le mani sulle frattaglie di pozioni lancinanti di scarnificazioni dal puzzo angelico nero, senza dubbi, per distinguere ogni atomo di melmosa illusione. Dovevano trafficare con ciò che suona perverso, ricoperto dalla pesantezza che schiaffeggia, ferisce, uccide.

Misero in atto una processione del suono, una facilità di note grasse e sgraziate, perfettamente allineate al selvaggio senso di soffocamento, nel vuoto cosmico di esistenze lamentose, come un vascello dai buchi pieni di sangue, naturalmente annerito e puzzolente. Sicuramente davano fastidio senza curarsi di verificare: come sacerdoti menefreghisti dovevano continuare a professare il verbo del dolore, dipingendo le note di una malattia incurabile. Fu proprio questo esordio il momento della più grande esibizione di classe marmorea del loro breve ma intenso percorso: sebbene la stragrande maggioranza abbia preferito l’Ep “Trasfigurazione”, lo scriba definisce invece “fiori malsani” il loro tempio perfetto, per la purezza vomitata senza eccessi di bravura tecnica e di produzione, ma con l’indiscutibile capacità di mostrare un talento puro, con la giusta dose di contaminazioni. Ancora capaci di non dover necessitare di termini di paragoni ingombranti, offensivi, limitativi e dannosi, tutto ciò che sta al suo interno è una fragorosa bomba sensoriale che trafigge la pelle e la mortifica.

Con un prologo e sei vere e proprie successive lame metalliche a completare quella che allora fu una uscita su cassetta, l’album permise alla band di trovare martelli come puntine da disegno con le quali graffiare la scena gotica italiana avvezza al copia e incolla. Lo fecero pure loro nel secondo lavoro, poco male: qui si trova il Sacro Graal della band capitolina, il suolo consacrato all’eternità che, come sappiamo bene, è l’unica perfezione che qualifica qualsiasi cosa e qualsiasi presenza umana. I suoni sono gli avamposti di inclinazioni atti ad attivare reazioni immediate, con le future architetture melodiche a definire la loro validità, tra devastazione e diabolico piacere. Quote di raffinatezza raggiungono i sepolcri del cielo, attraverso un filo diretto con i corpi mefistofelici del centro del pianeta Terra, in una congiunzione funzionale e sequestratrice. Sono scintillii, lucidi, metallici, che schiacciano le adenoidi e i respiri, un funerale con i nostri corpi ancora in vita ma pronti a scendere nell’abisso. 

Questo lavoro mette distanze, si separa dal flagello imitativo e proprio per questo motivo riesce a sostenere, come calamita impavida e crudele, un esercito che arriva come il prodotto dei due fratelli fondatori di quel delirio senza catene che è Roma.

Si scavalcano i generi, si oltrepassa il confine di ogni limite interpretativo e ci si libera di ogni zavorra: tutto si fa sudore, lacrima, confusione, annettendo il libero arbitrio che sfugge alla dipendenza, all’interno della nostra sconfitta, perché si finisce per adorare il tutto, dando loro, in modo manifesto, il più gonfio dei trionfi.

Ascolti queste canzoni come se avessi la consapevolezza della velocità di trasformazione della nicotina in un mare di petrolio che velocemente arriva ai tuoi gangli della base: rischi una malattia degenerativa, per diventare succube di uno strazio in grado di rendere il tuo apparato uditivo uno schiavo nero, gotico, preso a calci.

Il drumming è l’ingresso del precipizio, con memoria post-punk di manifeste influenze, in grado di un punto di contatto, come il soffio divino rappresentato nell’affresco di Michelangelo Buonarroti all’interno della Cappella Sistina, e le chitarre sono oscene rappresentanti della ferita mentale della storia dell’uomo. Un delirio di perfezione che rallegra seppur in mancanza di ossigeno. Ed è il festival del rumore che danza tra accordi e pulsioni estorte, nella via crucis obbligatoria di uno stordimento continuo. Carillon del Dolore è un bambino che sconfigge la vita sin da subito, non spreca il tempo e comincia ad assassinare i sogni, usando la fantasia per creare campi magnetici, e non immaginifici, per sconfiggere il pietoso mondo adulto.

In questo album più che canzoni troviamo compartimenti stagni di suoni continuativi, dove ciò che emerge è il senso e non il vestito semplicistico e fuorviante di schemi volti a differenziare le creazioni. I Romani giocano sporco, vogliono spaccare il sistema dell’omogeneità, del catalogabile, del già sentito, e salgono sul palcoscenico di un teatro temporale per massacrare la canzone: un omicidio dove gli strumenti sono alleati fedeli di un nichilismo che forma intelligenze innegabili, solitarie, chiuse in loro stesse mentre ci aprono le carni. 

In seguito arrivò l’attrazione per la già nota forma Deathrock, eleggendo i Christian Death come i loro Vangeli apocrifi, da cui attingere e apprendere. 

Qui no.

Qui, nel volume macabro che non abbisogna di maestri, sono loro stessi gli insegnanti che hanno sviluppato studi, teorie, esercitando il potere di uno stupore continuo, abrasivo, pelvico, senza possibilità di smorzare la loro forza.

L’Italia musicale, agli inizi degli anni ’80, importatrice schiava dell’assenza di uno spirito di avanguardia necessario (ormai da molto tempo), non poteva meritare questa effervescente dimostrazione di genialità e originalità, e li ha condannati al culto di una minoranza che però non si è lamentata: ancora oggi questa band genera cupe propensioni adoranti, rendendo ridicolo il potere dell’industria musicale e di gran parte di quella editoriale del settore, che ha sempre mostrato un colpevole disinteresse. 

Poche eccezioni: espressioni di un tutto vergognoso.

Nello scenario vacuo italiano, i Carillon del Dolore diventano angeli che, dall’alto di tenebre temute, allacciano un discorso per le anime vogliose di perlustrare i confini laceranti di ascolti massacranti che pochi volevano sperimentare: tutto trova esaltazione proprio all’interno di “fiori malsani”, un sisma di cui l’informazione ha voluto tacitare l’esistenza, perché la democrazia si prefigge solo e sempre di portare il finto bene e, quando si parla di cronaca nera, solo un ammasso di uccisioni ahimè convenzionali. Ma questo plasma nerastro abita altre forme sinistre, evoca l’intollerabile, e già per questo motivo entra nei territori pieni di ringraziamento dello scriba. 

La voce e il cantato in questo primo episodio è l’autoscontro immediato tra la comodità e la fascinazione del ventre verso poltiglie che stimolano reazioni adoranti e piene di piacevole disagio. 

Prendete le vostre contorte curiosità e prestate attenzione: si va nel petrolio emozionale dipinto di nero, per meglio conoscere queste sette spade insanguinate.


Song by Song 


1 Prologo 


Quarantanove secondi usciti da frammenti di luce di un film di Mario Bava per creare la tensione sinistra di una ninnananna di malate vicissitudini a noi segrete. Il crooning è ipnosi e le note che appaiono giocano con l’ombra.



2 A Kind Of Love/A Kind Of Hate


Tra Death in June e Super Heroines, inizia il colloquio sonoro di chitarre come frecce bagnate nei pressi di pendii di allucinanti pendenze e tamburi medievali ricoperti di molecole infette di peste bubbonica. Grida come code di lamenti e non resta che farsi trasportare dal vorticoso ritmo che accelera ogni paura.



3 On A Poetic Morning 


La pioggia invita il binomio basso e chitarra a fare della batteria una tempesta di lampi accaldati con la voce lamentosa che sembra un malevolo sottofondo. I Virgin Prunes mediterranei suonerebbero in questo modo, con la frustrante sensazione che la canzone sia il luogo della nostra totale devozione. Giungono chitarre come strali perpetui a rinsaldare il legame come una sezione ritmica avvelenata.



4 R.H.S.


L’episodio più “convenzionale” dell’album si apre con una chitarra semiacustica sorprendente per poi condurre il brano nello schema Darkwave, ma con il marchio di fabbrica di piccole schegge deathrock che preparano la base futura della band. È caos ragionato perché melodico quanta basta per consentire spazi di un classicismo che, in mano a questi suoni, incanta.



5 Elegy For A Friend


La malata esibizione di una classe hors catégorie è composta di metalli fuori dagli amplificatori, sbigottiti dai vortici di greche rimembranze, che sfidano Roma la spavalda. Il cantato è un processo di depurazione che consente alla sezione ritmica uno spazio che si alterna per rendere il brano omogeneo. Ed è San Francisco nel tempio gotico che aspetta la cugina Los Angeles, per un banchetto sonoro che lascia bava ai lati della bocca.



6 Crawling Over The Window (Just Like A Fly)


Non mancano i Joy Division portati al manicomio, bloccati da catene pesanti, la voce si esibisce da molto lontano, con timidezza, ma le tonsille sono graffianti ed efficaci. Una cantilena uscita dalla porta dell’inferno, una trascinata zoppia gotica che isola la voglia di vivere, schiacciata dal drumming post-punk imbevuto di sale e dal basso che pare una percussione a sua volta.



7 Pain


I capolavori sono vestiti spesso di piccoli cenni, contemplano la lentezza e la precisione, tutelano ogni spreco con l’abbondanza di drammi rappresentata da una parata di codici. Si può essere adulti solo quando il dolore separa il sogno dai bisogni e questo accade nella presente voluminosa dimostrazione di crateri che si sciolgono davanti alla classe di questi ragazzi dai respiri imbrattati di morte. È acidità gotica che esce dalle catacombe romane per immobilizzare il benessere e scatenare le corsie della sofferenza, sempre in una modalità lenta, al fine di assicurare la riuscita, per poi lanciare la sfida con accelerazioni che portano la mente e i corpi nel precipizio che aspetta travolto dal godimento. Qui regna la Roma del dolore e qui inizia la nostra gioia.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Novembre 2022 




lunedì 18 luglio 2022

La mia Recensione: Bauhaus - Bela Lugosi’s Dead

 La mia Recensione:


Bauhaus - Bela Lugosi’s Dead


Quando la giovinezza consegna un gioiello all’eternità: la brevità di questo periodo della vita di un essere umano rispetto a ciò che non muore mai, che non ha fine.

Questa è la canzone dei Bauhaus. C’è già tutto.

Esageriamo e forziamo la mano: proviamo a dire anche altro.

Non è difficile avere la mente che, pulsante, ci spinga a considerare tutti questi nove minuti e mezzo come la dimostrazione di un post-punk sperimentale, innovativo, efficace, col suo nugolo  di trame  striscianti e malate, su un ritmo balbettante, nevrotico e ticchettante.

Se sono le definizioni che vi servono potrebbero già bastare.

Come basterebbe pensare a questa chitarra feroce, dub, con le unghie scivolose e nerastre, il suo mantello inquieto e minimale, il suo tagliare il pentagramma con i sui graffi dagli echi vistosi e tentacolari, magnetici, gli accenni, i ripensamenti, le accelerate a grappolo di inquieta attitudine.

La batteria che sembra l’esaltazione della scuola tedesca e russa la cui caratteristica è di partire dalla semplicità e di rimanere in quei luoghi.

Si ascolta un basso con effetti di eco nell’anima più che nel suono, una definizione del tutto con poco lavoro sui polpastrelli: dove c’è l’ipnosi il resto è superfluo.

Evidente rappresentazione di una creatività senza catene e con la bava alla bocca, il brano nasce per non morire, avendo trovato nella sua partitura una complessa adunata di misteriose gemme che si sono inserite per evolvere l’ispirazione che sostiene e sosterrà sempre la convinzione dello scriba che solo la perfezione abiti nel cuore della notte che si coniuga con l’infinito.

In fondo la canzone è il palco di un teatro e anche l’esaltazione di un film, che sono gli esempi di come l’eternità appartenga solo alle arti rappresentative.

La morte non morte di un personaggio come Bela Lugosi.

Lui che aveva portato la sua eccentrica presenza in una pellicola che, pur nella sua essenza colma di imperfezioni, aveva reso il vampiro Dracula figlio dei luoghi diabolici destinato a vivere per sempre, sul palco e fuori dallo schermo di una sala cinematografica.

Ciò che questa canzone ha fatto nell’immaginario di molte persone (riuscendo spesso a invadere anche la corsia della realtà) non trova spiegazione logica seppur sia evidente che sveli originalità, innovazione, che sia l’esempio di come si potesse creare qualcosa di magico miscelato al mistero, all’inafferrabile.

Ancora una volta: basterebbe tutto questo.

Considerato come l’inizio del movimento gotico musicale, il vero start di una moltitudine espressiva che ancora oggi pulsa, anche se faticosamente, Bela Lugosi’s Dead è stata capace di offrire al post-punk una risorsa piena di gemme nuove, di sbeffeggiare la musica che sembrava essere alternativa.

In queste note si scavalcano i passi dolomitici, le onde del mare e si vive dentro un terremoto senza spegnimento. La foresta cerebrale dei quattro di Northampton trova un campo magnetico, sistematico, sovversivo e paralizzante dove far convergere follia e magia, dove dare al teatro il coraggio del cabaret che scende nelle note musicali come tempesta ormonale, malata, un latrato che fa morire solo chi l’ascolta.

Le parole del testo non sono certo un esempio di classe, di tecnica sublime, di manifesta superiorità letteraria, però evidenziano come, unite al cantato, all’interpretazione e alla musica diventino intoccabili, perfette, suggestive, madri, figlie e nipoti di un vestito che avvolge ciò che gli potrebbe essere anche superiore. Ma sono sillabe collegate alla notte, buie e spettacolari, e rendono gli occhi vittime di un sequestro ineludibile.

Divenuta la canzone iconica per eccellenza della loro intera carriera, dimostra anche la distanza da tutto il loro proseguo: l’unicità che non poteva duplicarsi, nemmeno in laboratorio.

Rimane anche il loro respiro migliore, quello che, oltre a influenzare generazioni su generazioni, renderà anche evidente come il tutto sia stato un fatto isolato. 

La presenza di una intimità che vuole uscire dal guscio per specchiarsi nella potente immagine di Lugosi è resa speciale minuto dopo minuto dal suo incedere verso una finta eruzione perché, magistralmente, i Bauhaus capiscono che dove c’è una esplosione muore tutto. Loro invece esaltano l’incedere senza dargli fuoco, tenendoci appiccicati agli amplificatori, come schiavi ubbidienti.

Quello che nacque dopo questo gioiello cavalcò il bisogno dei ragazzi di perseguire mutamenti Art-Rock e di segnare, sin dal successivo album di esordio, una notevole distanza da queste atmosfere e modalità di espressione: sono partiti da uno scheletro per arrivare a descrivere, nel loro diritto artistico, la pelle della loro arte.

Ed è vocazione, inchino, estasi, rispetto e attrazione quello che l’insieme di questo gioiello nero propone, offre, spalancando lo spazio per tremori, balbettii, passi incerti, sino ad immedesimarsi nello spettrale palcoscenico che è stato registrato in una sola sessione: nulla si poteva aggiungere alla perfezione macabra che aveva sequestrato già gli stessi autori.

Daniel Ash viene folgorato dalla chitarra di Gary Glitter del brano Rock and roll part. 2 e partendo da alcune sue parti fece un lavoro intenso e particolare sino poi a trovare una sua strada, lastricata di tempeste e ruggiti vaporosi, sciabolate oblique a ferire quegli accordi originali. Con l’incipit iniziale di David J, unito proprio a questa fase generata da Daniel, la canzone ebbe un punto di partenza che poi si allontanò per far nascere il mito di brano guida per nuove generazioni visionarie ed estreme.

Tutto ciò in una forma horror che elettrizza le cellule dell’ipnosi in una decadente manifestazione di delirio collettivo, nessuna delle parti risulta essere dominante ed è in questa compattezza che tutto trova il modo di dare al senso della coralità proprio la magia più grande.

Indubbiamente le capacità tecniche di ognuno dei quattro sono evidenti, dando però al sottoscritto la convinzione che Peter Murphy sia senza dubbi il miglior cantante di sempre per diverse qualità davvero particolari, specialmente perché unite in un unico contesto.

Con tale dimensione immaginifica, la sua propensione a compattare le parti, la tendenza a generare l’entusiasmo su un argomento che divertente non è di certo, ecco che si sono generate tutte le condizioni per divenire ascoltatori inebetiti, convogliati nei pressi di una proiezione che inchioda sulle poltrone di un cinema-teatro, dove la danza sepulcrea viene esibita e protetta per generare dipendenza.

La natura selvaggia e raggelante della struttura compatta modalità diverse, ma manciate di polvere magica hanno unito le parti per un combo che ha mischiato le carte di diversi generi per impastare il tutto con una stratificazione e il lusso di avere dato in quelle sei ore della registrazione del brano la certezza che una nuova entità aveva guadagnato lo status di intoccabilità, che dura da decenni. Può una sola canzone condurre una band su un trono? Può tutto questo generare seguaci e distribuire il dovere di rispettare la genialità che guarda alla morte e non alla vita?

Nessun dubbio nella risposta.

Il loro primo brano è stato sicuramente il vertice assoluto e purtroppo loro sono scesi da quel palco per la qualità compositiva che non è stata più a quei livelli di creatività e magia.

L’ascolto deve essere compatto, mai cedere alla tentazione di considerarlo troppo lungo, perché l’intenzione dei quattro è quella di sfibrarci, decomporci, entrare dentro la bara del Conte e aspettare nuovi eventi su cui sbavare.

La versione originale del singolo rimane nettamente la migliore di tutte: il rito viene congelato, stratificato, compattato, ogni influenza risulta presente come piccole ombre e gli aspetti originali dei quattro trovano risalto. E possono andare all’assalto ogni volta rimanendo fedeli a loro stessi. 

Tutto si fa vapore acqueo in un mare di sudore cupo, con i confini dei sentimenti presi a calci sui denti, dove la follia viene concessa per partito preso, in un delirio atomico che non genera conflitti esteriori e interni bensì conforto, rifugio, esaltazione.

Può esistere una sola perfezione per ognuno di noi e per i Bauhaus è proprio questa sciabolata che ci rende cuccioli e imbalsamati, nella giostra di una fascinazione che crea il mito e lo conserva.

Quando la bellezza ferisce gli argini delle nostre difese le diventiamo devoti, saldando i nostri debiti verso le caverne che custodiscono ogni atomo di questo flusso elettrico, ancestrale, polposo. 

Molto probabilmente è l’inno di ogni castello infestato di storia e cadaveri aggrappati a fantasmi ansiosi di risorgere: saranno le rose nelle mani dei quattro a benedire i loro sogni su queste note propense alla beatificazione gotica.

Tutto ciò che precede il canto di Peter al minuto sei e venti secondi è la sanificazione delle nostre menti impaurite: poi ci pensa il cantante scheletrico ma voluminoso di schegge ansiogene con la sua “oh Bela” a far deflagrare ogni timore per inglobarci nei cunicoli della sua maestosa potenza, non solo vocale, ma anche  sensoriale. Se l’estasi, l’orgasmo, la perdita di ogni rifugio mentale è possibile, questo è il momento perfetto per individuarlo. 

Se esiste una canzone in bianco e nero, come una statua sulle polveri commosse dei nostri ascolti, è sicuramente questa, con le punture velenose di chitarre paranoiche, il basso che sembra minacciare la caduta nel sepolcro e il canto di Peter a far alzare in volo ogni grido di voluttuosa remissione a ciò a cui è impossibile negarsi: la morte qui diventa il luogo della pace e della adorazione, niente di più artistico e credibile per un viaggio nelle corsie spiritate di menti soggiogate.

È un concorso di ego spaventosi che legano l’essenza dei quattro di  Northampton per una volta su un mantello di microchip funzionali ad una scarica elettrica/motivazionale senza possibilità di contestazione, e dove, come un miracolo temporale, riesce a divenire l’unica manifestazione di altruismo, perché con questo inno siamo tutti investiti da una generosità che, alzatasi da una cripta, infetta ancora i nostri desideri. Per fare del nostro ripetuto ascolto un sacrificio accettato sin dalle cellule più refrattarie, provocando sinapsi angeliche dal volto tumefatto ma felice…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Luglio 2022


https://open.spotify.com/track/1wyVyr8OhYsC9l0WgPPbh8?si=OMKDYtkNQjOsjFN_GinoCg









martedì 15 marzo 2022

My review: Cult Strange - Rites of Passage

 My Review 


Cult Strange - Rites of Passage


Those who learn nothing from the unpleasant events of their lives force the cosmic consciousness to make them reproduce as many times as necessary to learn whatever the drama of what happened teaches. What you deny subjects you. What you accept transforms you.
Carl Gustav Jung


Distrust advances, it digs the grave of all the souls that still believe in others, the evil shadows throw arrows, they inject the seed of corruption into every smile. And passion turns from red to black, as an inescapable and necessary fact.

There is a centre of observation of these changes that pass through the suffocating grooves of this band, emblem of an acute observation of the facts of the world, which with its suffered work establishes the border between terror and the need to escape.

Sorry for you, but you won't have a chance.

They only need four stabs in your sugary defences.

In fifteen minutes you will be dry-skinned, you will be extinguished by their murky breath.

Aleph Kali, already a corsair knight with Altar de Fey, here with the specification of Omega, is the werewolf who rummages through our flesh, undaunted.

Hordes of slaves pile up in front of the eyes of Oakland's frenzied men, obedient to a spiral of sound that envelops minds and moves them away from the dream.

Clothes shatter before these guitars that burst and reduce the ears to prayers, unheard, and diseases are born to strike fast.

To dwell on the density of these compositions is to feel the impulses that struggle to stay in these minutes.

I can hear a torrent of detritus that cannot find a place but which, by condensing, suggest textures and transversal evolutions to the four splinters.

Chaos here seems the solution and not a form of despair: a riding ivy full of nerves that you feel with the bass that explodes on the walls of each scaffold and then becomes a heap that rebuilds the house.

The drums are frenetic, somehow coming from tumour nodules of some secret tribe. It is devastating because it lives in symbiosis with its surroundings, which are metallic ruins, since the distortions with pedalboards coming from the guitars do not need so many variations to hurt the auditory system.

A disturbing, salty sound, on cracked hands and thoughts now in free fall.

Cult Strange push the rhythm: without breath, no valid defence can be erected. 

The reference to the Red Lorry Yellow Lorry of Sages of Din, about which I will speak later, is exemplary.

Here is the secret, so feared, that opens the door to mystery: in the echoes of certain British fragrances of dark Brighton and London, the American band embroiders voluptuous dazzling textures to cut the umbilical cord.

The more you listen to these songs, the more you feel there must be a sea that keeps them safe.

Yes.

It must be.

Because as you listen to them you drift down to the ocean floor, where you find the victims of the 1906 earthquake that swept through nearby San Francisco.

And Cult Strange seem to play for those lost and choked spirits, listening to their sorrows still churning and creating heavy waves.

You can dance to their music with tears writhing in courage as they fly backwards. The speed is meant as a method of attack, like snakes waking up and attacking immediately for food.

Now I take you to the East Bay where the four daggers are busy with unaware victims...


Song by Song


Slave to the Algorithm 


The beginning of the song is deadly: guitar intended to get the shadows in big trouble because it is not afraid for sure. 

There's a share of wickedness that shocks, with the vocals being a procession, supported by the other three musicians: take the New York Dolls from the sunless side and throw them in the rolling bass and in the sumptuous, perverse guitars and all will be clear.

All that's left for the drums to do is to whip those poor shadows that die without having believed any of this was possible. As an opener track it's perfect: if the beginning can be of glam rock derivation, you soon realize that everything spreads in wonderful dissonant digressions.



A Rose of Chaos


A swaggering drumming, straight out of a dusty 70s cellar, opens the lopsided and catchy dance.

Then the voice and the guitar marry an idea of ritual dripping with Deathrock of pure class.

You can hear echoes of Germs and Consumers giving unintentional inspiration to this race to step on roses in chaos: the idea that Virgin Prunes also blow all their madness here, especially in the way of singing, constantly hovers. And that a macabre-esoteric attitude is the sovereign of this absolute gem.


Sages of Din


As I said before we have in the third track the impression that bass and guitar are the seeds thrown in the air by Red Lorry Yellow Lorry, elaborated and sacrificed but still present. It's, however, only a small portion: there are parts of purity and uniqueness in making this song a manifesto of an evolving musical genre. It is an extremely valuable fetish that is available to those who do not tremble at the idea of digging up mortal remains.



Hex/Pox/Vex


A melodic bass more than ever is ready to deceive us: everything becomes screeching, blades that go down into the lungs, doubled voices, and Sex Gang Children who bless it all.

And Aleph who makes Peter Murphy an evil priest.

The shock is given by a brutal attitude in creating a swaggering, mindless ride to kill any glimmer of light.

Majestic, it offers elements of elegance in its attitude to become the apotheosis that exalts the residents of darkness.


A seductive and distressing Ep to be served as a night meal: praise be to Oakland that offered us such beauty.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

15 Marzo 2022


https://cultstrange.bandcamp.com/releases




La mia Recensione: Cult Strange - Rites of Passage

 La mia Recensione 


Cult Strange - Rites of Passage


Coloro che non imparano nulla dai fatti sgradevoli della loro vita costringono la coscienza cosmica a farli riprodurre tante volte quanto necessario per imparare ciò che insegna il dramma di ciò che è successo. Quello che neghi ti sottopone. Quello che accetti ti trasforma.
Carl Gustav Jung


La sfiducia avanza, scava la fossa a tutte le anime che ancora credono nel prossimo, le ombre malefiche lanciano strali, iniettano il seme del marcio in ogni sorriso. E la passione dal rosso passa al nero, come fatto ineludibile e necessario.

Esiste un centro di osservazione di questi mutamenti che passano dai solchi soffocanti della band, emblema di una acuta osservazione dei fatti del mondo, che con la sua opera sofferta stabilisce il confine tra il terrore e la necessità di fuga.

Spiace per voi ma non avrete scampo.

A loro bastano quattro coltellate nelle vostre difese zuccherose.

In quindici minuti sarete pelle secca, dal loro torbido fiato vi sentirete spegnere.

Aleph Kali, già cavaliero corsaro con Altar de Fey, qui con la specificazione di Omega, è il licantropo che rovista nelle nostri carni, imperterrito.

Orde di schiavi si ammassano davanti agli occhi degli indiavolati di Oakland, obbedienti ad una spirale sonora che avvolge le menti e le congeda dal sogno.

Le vesti si frantumano davanti a queste chitarre che scoppiano e riducono le orecchie in preghiere, non ascoltate, e le malattie nascono per colpire velocemente.

Soffermarsi sulla densità di queste composizioni significa sentirne le pulsioni che faticano a rimanere in questi minuti.

Riesco a sentire una fiumana di detriti che non trovano posto ma che, condensandosi, suggeriscono alle quattro  schegge trame ed evoluzioni trasversali.

Il caos qui sembra la soluzione e non la forma di disperazione: un’edera cavalcante piena di nervi che avverti con il basso che esplode sulle mura di ogni impalcatura per poi diventare un cumulo che ricostruisce la casa.

La batteria è frenetica, proviene in qualche modo da noduli tumorali di qualche tribù segreta. È devastante perché vive in simbiosi con i suoi dintorni che sono rovine metalliche, in quanto le distorsioni con pedaliere provenienti dalle chitarre non abbisognano di tanti varianti per ferire l’apparato uditivo.

Un suono conturbante, salato, sulle mani screpolate e sui pensieri ormai in caduta libera.

I Cult Strange spingono sul ritmo: senza fiato non si può erigere alcuna difesa valida. 

In questo è esemplare il riferimento ai Red Lorry Yellow Lorry di Sages of Din di cui vi parlerò dopo.

Ecco il segreto, così temuto, che apre le porte del mistero: nei richiami di certi fragori britannici delle oscure Brighton e Londra la band americana ricama voluttuose trame abbaglianti per tagliare il cordone ombelicale.

Più ascolti queste canzoni e più senti che deve esserci un mare che li mette al sicuro.

Sì.

Deve essere così.

Perché mentre le ascolti scivoli verso il fondale dell’oceano, dove trovi le vittime del terremoto del 1906 che travolse la vicina San Francisco.

E i Cult Strange sembrano suonare per quegli spiriti persi e soffocati, ascoltando le loro pene che ancora si agitano e creano onde pesanti.

La loro musica la puoi ballare con le lacrime che contorcendosi per darsi coraggio volano all’indietro. La velocità  è concepita come metodo per sferrare attacchi, come serpenti che si svegliano attaccando subito per procurarsi del cibo.

Ora vi porto nella East Bay dove i quattro pugnali trafficano sulle vittime ignare…



Song by Song


Slave to the Algorithm 


L’inizio del brano è micidiale: chitarra tesa a cacciare le ombre in un brutto guaio perché lei non ha paura di sicuro. 

Esiste una quota di malvagità che sconvolge, con il cantato che è una processione, supportata dagli altri tre musicisti: prendi i New York Dolls dal lato senza sole e gettali nel basso rotolante e nelle chitarre sontuose e perverse e tutto sarà chiaro.

Alla batteria resta solo il compito di frustare quelle povere ombre che muoiono senza aver creduto possibile tutto questo. Come opener track è perfetta: se l’inizio può essere di derivazione glam rock, ti rendi presto conto che tutto dilaga in splendide divagazioni dissonanti.



A Rose of Chaos


Un drumming spavaldo, uscito da una cantina piena di polvere degli anni 70, apre la danza sbilenca e accattivante.

Poi la voce e la chitarra sposano un’idea di rito grondante Deathrock di purissima classe.

Puoi udire echi di Germs e Consumers a dare ispirazione involontaria a questa corsa a pestare le rose nel chaos: aleggia continuamente l’idea che anche i Virgin Prunes soffino qui tutta la loro follia, specialmente nella modalità del cantato. E che un fare macabro - esoterico sia il sovrano di questa chicca assoluta.


Sages of Din


Come dicevo prima abbiamo nel terzo brano l’impressione che il basso e la chitarra siano i semi lanciati in aria dai Red Lorry Yellow Lorry, elaborati e sacrificati ma comunque presenti. 

Ma è solo una piccola frazione: esistono quote di purezza e unicità nel fare di questa canzone un manifesto di un genere musicale in evoluzione. È un feticcio di estremo valore che è a disposizione di chi non trema innanzi alle idee di dissotterrare spoglie mortali.



Hex/Pox/Vex


Un basso melodico più che mai è pronto ad ingannarci: tutto diventa stridore, lame a scendere nei polmoni, le voci raddoppiate le i Sex Gang Children a benedire il tutto.

E Aleph a rendere Peter Murphy un sacerdote malvagio.

Lo shock è dato da un brutale atteggiamento nel creare una cavalcata spavalda e menefreghista per uccidere ogni bagliore di luce.

Maestosa, offre elementi di eleganza nella sua attitudine a divenire l’apoteosi che esalta i residenti delle tenebre.


Un Ep seducente e angosciante da servire come pasto notturno: sia lode a Oakland per offrirci cotanta bellezza.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Marzo 2022


https://cultstrange.bandcamp.com/releases




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