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lunedì 8 agosto 2022

La mia Recensione: The Smiths - Handsome Devil

 La mia Recensione:


The Smiths - Handsome Devil


Atto unico di perfezione umana.

Tutto è possibile quando quattro ragazzi di Manchester decidono di imbracciare la forza della melodia e annetterla ai loro territori precedentemente conquistati quali la fantasia, l’impegno, la determinazione, il furore di anime in opposizione al trend vuoto del momento.

Una delle prime canzoni ad essere state scritte, rivela sin dall’inizio un suono robusto e una forza notevole con un giro di basso esplosivo, il drumming efficace e la chitarra di Johnny che, ipnotica ed estroversa, cattura subito l’attenzione. Le sue sono acrobazie stilistiche di cui si sentiva l’esigenza: quando Johnny cavalca la sua chitarra le trame si fanno fitte e avvolgenti, figlio di un talento purissimo e di una ricerca che non può conoscere appannamenti.

Questa band, con Handsome Devil, mostra che si poteva scrivere musica che non fosse svuotata della capacità di essere impegnativa anche se considerata leggera.

In aggiunta: scrive un inno misterioso, dove la facile individuazione dell’enorme talento musicale viene controbilanciato da un testo che regala fatica nell’interpretazione, scomodità, fastidi, malesseri, come un’edera urticante che si sfoga dentro la pelle dei nostri pensieri, annichilendola.

Dimostrando, attraverso uno studio profondo, che anche Morrissey come talento non è secondo a nessuno.

Handsome Devil è la manifestazione più evidente del primo periodo degli Smiths: dove c’era una nevrosi, un’impellenza che non poteva essere fermata, loro la prendevano e la sbattevano in faccia, noncuranti, deliziosamente strafottenti. Arrivando a fare del nostro ascolto un deserto che doveva saltare in aria.

E allora spazio al tormento con il punto interrogativo, al mistero che passa attraverso una sessualità che non va dichiarata ma interrogata, raccontata attraverso una storia dove il soggetto ha mille maschere e non ne ha nessuna, perché tutto ciò che serve è elevare quelle zone d’ombra che scatenano riflessioni e impeti da circondare.

Non è un testo sull’autoerotismo, come da molti ipotizzato, bensì un racconto drammatico che, partendo dalla letteratura (può essere Wilde come DH Lawrence) ,entra nella storia di un ragazzo che cerca di annientare il coraggio per cibarsi di ulteriori confusioni. 

La tematica descritta dall’uomo occhialuto e curioso è l’esempio di una penna acida e polemica, ma il tutto è avvolto da una coperta di lino: senza dubbi Morrissey non voleva essere troppo chiaro, vuoi per gioco e vuoi anche per la sua sfiducia nella capacità delle persone di poter accettare un simile approccio.

E l’ambiguità trova un senso di sconcerto quando si arriva all’ultima frase: “There's more to life than books, you know

But not much more

Oh, there's more to life than books, you know

But not much more, not much more”sembra fuorviante, distante dal resto, ma si imparerà in fretta a capire la ricerca stilistica del bardo di Stretford, che riesce sempre a scombussolare le nostre poche certezze acquisite. 

È un senso di allergia quello che sanno provocare le parole di questo brano, perché, per quanto ci si sforzi di intenderle, si ha la convinzione che l’asso di picche sia rimasto nella penna di Morrissey per renderci maggiormente ignoranti. Lui può e lo fa benissimo: in fondo lo si ama anche per questo motivo.

Un brano epico, in odore di quella nostalgia che sembra una bandiera da sventolare con orgoglio e senso di sfida, pronta ad essere ammainata. La sezione musicale presenta la veemenza di un rock che, partendo dalle schegge velenose della chitarra di un diabolico Johnny Marr, aspira come una calamita Andy Rourke e Mike Joyce in un risucchio dove tutto esplode con la tensione elettrica che ci consegna fulmini, per poter vivere dentro una fetta di luce. Penserà Moz a equilibrare il tutto con la sua nebulosa, attraverso la scrittura di parole che sconfinano, escono dal radar interpretativo.

Brano magico ma privo di dolcezza: dove si esplora ciò che è considerato maligno non può esserci una mano che dondola una culla…

Il cantato, altezzoso e ironico, è una pozzanghera contenente le verità che vanno tenute accanto a una piccola candela: odora di antico questo approccio quasi isterico che plana su un falsetto che farà scuola. 

Una frusta, una scarica di adrenalina che dura meno di tre minuti, il tempo necessario per capire l’universo The Smiths: la band di Manchester avrà sempre modo di far emergere un sentiero nostalgico, anacronistico e ribelle e Handsome Devil ne è la summa perfetta.

La magia del brano viene resa evidente dalla capacità di astenersi da ogni forma di semplicità, di estremizzare la diversità, per tematica e stile, che alla fine potrebbe proprio essere il motivo di una difficoltà e diffidenza nei confronti di questi ragazzi pronti a vedere la musica come una crociata con armi desuete e diverse dalla logica del tempo: usi e costumi che vengono annientati.

Nella terra delle api, gli Smiths diventano calabroni: ti infilano il loro pungiglione per toglierti le forze e per farti preoccupare, perché una canzone non è efficace in quanto ci si può riconoscere, bensì perché è in grado di incutere paura e tremore. La storia del brano, acuta per intenzione e capacità, sa fare piazza pulita di ogni banalità, impolverando i pensieri con una fiammata che arreca una pesante allucinazione, mentre l’emotività, vibrante come il cielo pieno di temporali, rivela la spina del suo fianco…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

8 Agosto 2022


https://youtu.be/fAHk-M2k5mM




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