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venerdì 25 novembre 2022

La mia Recensione: Low - I Could Live In Hope

 

La mia Recensione:


Low - I Could Live In Hope


“La paura è l’emozione più difficile da gestire. Il dolore si piange, la rabbia si urla, ma la paura si aggrappa silenziosamente al cuore.”

Gregory David Roberts


La semplicità, questa sconosciuta: una donna che fatica a resistere al dominio del nuovo che avanza e che, dimentico di lei, spazza via millenni e millenni per imporre le proprie colate di inutile ammassamento di verbose attrazioni composte di complicanze a cancellare la storia. Nella musica abbiamo assistito alla comparsa di generi musicali vogliosi di imporsi, cercando acrobazie stilistiche fatte di pallottolieri colmi di ogni tipo di esercizio sterile, di convenzioni dannose. Negli anni ’90 a predominare è stata la mancanza di stile, il caos sonoro, gli incroci a rovinare le razze che donavano chiarezze e, appunto, semplicità. Grunge, Brit pop, elettronica confusa e tanto altro hanno però dovuto fare i conti con lo slowcore, una rarità che ha fatto breccia in quegli ascolti che volevano conservare la purezza. Chi poteva fare meglio degli americani Low, il quadro senza futilità composto da Alan Sparhawk e da Mimi Parker? I due hanno deciso di combattere la paura, lo smarrimento, il vuoto, la banalità, affidandosi alla semplicità che coglie tutto e che regala mezzi enormi, come significato, per legittimare l’unico metodo utile per non sprecare la storia, per preservare il futuro dalla disperazione e dalla dispersione. Nel 1994 esce quello che sarà il loro big bang, la madre di ogni resistenza certificata, il capolavoro indiscutibile, il braccio e la mano per sostenere il vuoto. L’esempio. La partenza, la conferma che le lucciole per lanterne andavano condotte alla resa, sterilizzate, accantonate. Perché le cose semplici fanno chiarezza e impiegano solo l’indispensabile. Il suono, il metodo stilistico, gli elementi considerati per creare splendide canzoni hanno ingredienti brevi ma suggestivi, non un insieme di ingovernabili giochi beceri, che necessitano di una organizzazione faticosa e vaporosa, lasciando in bocca il gusto di un nulla privo di senso. Dalla cittadina del Maestro Bob Dylan escono timide ma determinate queste due querce dalle rughe bellissime, con le loro foglie figlie di incantevoli movimenti lenti, quasi pigri, ma dotate di nerbo e resistenze, determinate a non lasciarsi corrompere, a opporsi al vento della modernità. C’è qualcosa di pregnante, di liturgico, di irresistibile nei loro dipinti poetici, nella loro naturale propensione a sottrarre, nell’estremizzare una intuizione lasciandola nuda. Ed ecco scendere nel circo fluorescente undici giocatori senza sponsor, senza scritte stupide sulle loro magliette, con un unico schema preciso: segnare goals con un solo tocco, un tiro scagliato sotto l’incrocio dei pali. Tutto striminzito sin dai titoli: un’unica parola, secca, in cui il significato è già chiaro. Ecco che vediamo come il silenzio sia l’alleato migliore della musica: le permette il minimo indispensabile per abitare il cielo dell’eternità, del valore che non abbisogna di sovrastrutture. Un esordio tra i più grandi della storia musicale entra negli scaffali delle “cose semplici a disposizione dell’intelletto”: prendere o lasciare, facile…

La prima cosa che arriva, tra le poche ma essenziali, è una bacinella di lacrime leggere, a portata di vento, per divenire rugiada in assorbimento.

Nel bisogno di alleanze che siano in grado di tenere un profilo “basso”, ecco che gli strumenti rock per eccellenza si spogliano, si siedono ai piedi del nuovo che avanza per mostrare il loro vasto potere deduttivo, resistente, ammaliante: basso, chitarra, batteria e voce.

E come un pongo malleabile e offerto alla Dea del fato, avanzano cercando appigli, donando molecole che si appiccicano al veleno di esistenze multiple, uccidendole elegantemente. Le regole usate si riducono a due: arrivare al cuore e alla mente, affidandosi più al progetto essenziale che al talento (che non manca, sia ben chiaro), per scrivere storie pregne di valore, di resistenze significative, per dare all’esempio un trono stabile, una leva che sappia spostare quintali con un dito solo.

Sono fiori delicati nella nostra mente, dal profumo intenso, con lo scopo di distribuire nell’aria fritta e puzzolente dei nostri battiti una sequenza imbattibile di bellezza estroversa, tra piume e passi a contatto con lo stupore, che finisce per coinvolgere sentimenti ormai segregati, ma ancora dannatamente preziosi.

E cosa fanno i fiori se non rendere visibile il reale, spesso soffocato, sottratto alla vista proprio dalle cose inutili? L’album in questione è un campionario, una distesa di fiori, resi tristi dalla nostra scelta di lasciarli soli, non coltivati, non guardati con attenzione e amore vero. Brani come culle, carillon, ululati nel centro della notte a rendere chiaro che la presenza abbisogna di voci, spesso acute, spesso basse, ma costantemente accese per non regalare assenze. E i due sono angeli in continua fioritura, sempre disponibili con la loro disarmante capacità di sottolineare come ciò che diventa il loro progetto artistico in realtà sia l’essenza di personalità generose, dai pochi strumenti ma dai mille petali.


Assistiamo, in questo incredibile lavoro, a una trasposizione e alla trasfigurazione evidente e ineccepibile di un Giacomo Leopardi ai giorni nostri, nei quali decadenza, solitudine e poesia sono il matrimonio indispensabile per rendere la coscienza un punto di partenza e non di resa, per scrivere in musica la verità, il più grande nemico di ciò che al contrario ingolfa il loro quotidiano dando spazio a volumi di sciocchezze. Sono canzoni di seta in un mondo plastificato, sono briciole di pane volanti in un luogo pieno invece di luci artificiali che abbagliano uccidendo la vista. E allora l’ascolto si fa liturgico, silenzioso e abbondante, ridondante perché ciò che ci viene offerto è utile e prezioso. Unico, spazioso, profondo: undici petali che cadono inesorabilmente nel baricentro dei nostri battiti, con il loro impeto rock ridotto all’osso.

I Low ci dimostrano che non dobbiamo aver bisogno di macchine con motori dai grandi regimi di potenza ma di serbatoi capienti, per fare tanta strada seppur con mezzi di piccola cilindrata ed è quello che fanno le canzoni di I Could Live In Hope: ci portano dappertutto, senza esitazioni. Tutto raffinato, drammatico, esistenziale, progressivamente legato all’abbandono di ogni superficialità, dove il suono ammutolisce il cantato (seppure di gran classe) per fare dei giri perlustrativi tra i nostri sensi, come indagine emotiva e cerebrale, come estasi mesta, schiacciata da un umore intriso di tristezza ma mai di vittimismo. Arrivano arabeschi, intonaci da spalmare accogliendo il dirigibile del loro bagliore continuo che va da qualche parte, invitandoci, senza dire nulla: la loro musica in questo esordio si fa muta, discreta, e si gira di lato volendo incontrare le nostre labbra per un bacio candido e lungo. Sono assoli di intimità le chitarre, diventano punti cardinali i colpi di basso, sono carezze le spatole della batteria, che sanno divenire spazzole per pettinare il nostro senso ritmico dando solo l’indispensabile. 

Ci fanno volare in alto queste gemme perché ciò che sta in basso è insostenibile: la bellezza si deve distanziare, deve rifiutare la contaminazione e questo è ciò che avviene in questo perimetro del loro cielo, dove tutto si allarga e vola leggero, tra melodie frustranti per intensità ma necessarie, botti di vino pregiato tra le scie di un cielo ebbro della loro purezza, canzoni come gustose gocce di amara estensione, che passeggiano per abbandonare il mondo. Sono eroi questi minuti, senza più passato né presente: la loro ricerca è volta a creare un futuro dove l’immortalità sia il loro abito, unico e irripetibile.

Una valanga di soffi per chiudere la finestra da dove si vedono i cadaveri di atteggiamenti banali: ascoltare queste tracce significa serrarla bene e accendere il fuoco che queste brillii sonanti hanno nella loro intimità, per generare una corrente, illuminante, decisamente diversa.

Note che adempiono al loro semplice ordine: creare disordine nel tempo dove tutto viene catalogato, indirizzato e sublimato dal rumore. Con i Low, con questo esercizio stilistico, i bisbigli sonori diventano i nostri nuovi esercizi spirituali, legati da un senso corale che lentamente (eh già, proprio così, inevitabilmente) costruisce una spugna dove l’abbondanza non somiglia a una fiumana tossica di possibilità, ma a poche idee che circolano con il sorriso impertinente e determinato a difendere la sua unicità. Sono momenti nei quali ci si abbandona, si deve far posto a queste due voci che cantando insieme separano la sessualità, le caratteristiche primarie, per essere uno spiraglio di luce. Si piange, si ha paura, davanti a questa distesa verticale di tremori che gli amplificatori regalano, siamo cuccioli con il pannolino perché le emozioni generano liquidi in ogni parte del nostro corpo.

La disperazione viene metabolizzata, resa efficace e maestra, condottiera verso una verità da consumare e mantenere viva: altre band slowcore ci hanno provato, sono riuscite a fare altro, pure benissimo, ma questo aspetto è una esclusiva dei Low, senza dubbi. Quando la devastazione conosce questo tipo di approccio, la lentezza è già una corsa, irrefrenabile e quindi invito alla pazienza, ad essere attenti ai pregiudizi perché questa band non li merita. 

E non è più del tutto corretto definirlo come uno dei migliori gruppi slowcore: hanno la capacità di liberarsi da quella che potrebbe essere una zavorra, per agganciare quegli impasti sonori di un Alternative in cerca del loro range, in grado anche di visitare lo Shoegaze minimalista. Accadono cose meravigliose mentre ci si approccia a questo lavoro e se ne esce alla fine maggiorati di stupore, informazioni, con l’identità in volo…

Apprestiamoci a essere visitati dai loro cosmi: non sarà solo un insieme di viaggi, ma un crescere inevitabile dentro la melodica tristezza della loro arte.




Song by Song 


N.B.

Sarebbe bene che tutti i testi di questo album ricevessero un approccio profondo e accurato: ne va della comprensione di un insieme che non merita spreco.


1 Words


Dopo 14 anni (allora era quella di Ian Curtis a bruciare) ora è l’anima di Alan a farlo e il cantato iniziale ne fa sentire il dolore, trovando poi sostegno nella voce di Mimi per un viaggio musicale tra le stelle, dove gli Slowdive si spogliano e si fanno abbracciare da questa minimalistica  forma di tormento, con il basso a strappare l’equilibrio.


2 Fear


Atomi con Alternative, donando respiri più ampi che costeggiano la canzone, in modo che sembra avere accenni di colori più solari. Il senso corale delle voci supporta la chitarra ritmica che si fa più graffiante. Ma la bellezza più estrema sta in quella parola cantata in modo decadente: Fear.

Solo 134 secondi, ma infiniti…


3 Cut


Atmosferica, per la sua dose di enigmatica necessità di viaggiare dentro un film drammatico, Cut è una pellicola visiva che crea tremori, nella quale il basso proietta scene epocali e la voce è una piuma che cade nel vuoto.


4 Slide


Vogliamo una fiaba, un appiglio tra i raggi solari mentre piove nel cuore e lo troviamo in queste note dove echi di Nick Drake e Red House Painters sembrano giocare con il duo di Duluth. Ed è incanto che si infila tra le lenzuola del cielo.


5 Lazy


Se vi mancano i Mazzy Star e Mira, ecco quello che potrebbe essere un nuovo trio congiunto, votato a una devastante esibizione di pioggia, in caduta obliqua. Quasi sorniona, quasi psichedelica, del tutto magnifica per suggestione e senso di protezione. Qui si piange che è una meraviglia..


6 Lullaby


Forse la canzone più bella degli anni ’90. Di certo capace di creare un circuito emotivo senza molte possibilità di paragone. Il cantato di Mimi è la corteccia di un dolore su una breve chitarra paralizzante e sul basso che fa cadere tutto il silenzio nel vuoto. Poi questo miracolo decide di aprire le ali verso un grappolo di note che nuotano dentro se stesse, accelerando la percezione che le lacrime siano madri e non figlie di una tristezza conclamata. La chitarra di Alan in seguito si trasforma in un uragano, visita melodie che paiono arrivare dal medio oriente per qualche frangente e ci fa attorcigliare il fiato, con una acrobazia di cui solo gli angeli sono capaci. Ci si smarrisce dentro il delirio, sentendo l’umidità divenire vapore acqueo in ogni nostro pensiero. Quando la chitarra si fa quasi cattiva non possiamo che crollare e solo il ritorno di quell’arpeggio iniziale nei suoi ultimi secondi riesce a pacificarci il cuore…



7 Sea


Consapevole per prima del fatto che non possa ripetere la meraviglia di Lullaby, decide, per legittimare se stessa, di essere una breve presenza, per il tempo necessario a togliere il peso dal cuore e donarci un sorriso incantevole, in mezzo a voci morbide e la chitarra che vola tra la melodia rock più leggera e una sequenza di accordi che fanno in tempo a portarci al mare.


8 Down


A scuola di dolcezza abbinata all’incanto. Down si rivela una scheggia non urticante che si accuccia nel cuore, con la sua struggente propensione a divenire, secondo dopo secondo, un episodio unico di sospensione della vita. Sazia, svuota il superfluo e si affaccia al cospetto della perfezione.


9 Drag


Poche devastanti parole, dentro una nuvola sonora che ci riporta agli anni ’60, quelli dove il sole non presenziava alle giornate. Ed è estasi caparbiamente contenuta, una esibizione che pare uscita dallo Shoegaze totalmente denudato dai frastuoni. 


10 Rope


Un accenno Darkwave iniziale, poi è un siluro caotico congelato, un loop amniotico tra raggi pieni di freddo. La chitarra sibila come frastornata da una centrifuga e ipnotizza, come se fosse quella di Robert Smith tornato dentro una giornata piena di dolore.


11 Sunshine


Come se fosse conclusa la messa all’interno di una cattedrale, pare di trovare qualcosa di maestoso nella chitarra a cui basta un accordo per donare l’ampiezza del cielo: tocca alle due voci congedarci, testimoni di un incanto irripetibile…


P.s.

Cerchiamo di non essere limitati dall’essere umani: siamo noi a compiere l’unico miracolo possibile e rimettiamo la puntina sul disco per non separarci da questa infinita bellezza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/61dByu8oBt4qdym9Rkz39w?si=3o2_rvkZR2aVria9zt-zAQ



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