Visualizzazione post con etichetta Recensione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Recensione. Mostra tutti i post

venerdì 21 febbraio 2025

La mia Recensione: Grant Swarbrooke - And the World Spins on (Home Recordings) Ep /Sleepers Ep / Liminal Fall (single)


 

Grant Swarbrooke - And the World Spins on (Home Recordings) Ep /Sleepers Ep / Liminal Fall


Nel sud di una Inghilterra imprigionata da scelte politiche, sociali e territoriali che modificano il passo lento della storia di questa gloriosa nazione esiste una voce sublime, un artista che da solo sembra assorbire l’inquietudine e lo smarrimento facendo da catalizzatore, antenna e piuma che disperde il negativo per trasformarlo in un sorriso inclinato, dove tutto può accadere.

È tumultuosa la sua musica, come il suo fascio vocale, che ha la particolare caratteristica di essere semplice laddove quella moderna pensa che sia invece un segnale di mediocrità.

Grant prende il folk e lo sparge su una ambient music nella quale i rumori, la vita della natura, la dirompente elettricità delle combinazioni metafisiche trovano modo di essere un tutt’uno compatto ed efficace, facendo da impalcatura a dei testi che sono il vero dilemma di chi tenta di approcciarsi ad essi cercando la comprensione ma, statene certi, un sublime smarrimento vi porterà nella zona dell’intimità, sua, che reclama riservatezza, per una scrittura che non vuole essere assolutamente una discarica emotiva e tanto meno razionale.

Nelle sue creazioni verbali esistono palestre mentali, accenni, ombre con il privilegio che le vedi ma non puoi identificarne l’identità…

Sui testi vigila, controlla ed espande il tutto una voce che è un terremoto, punisce, attrae, sconvolge e deterge l’anima dell’ascoltatore in un liquido in cui il brivido si fa concretezza limpida e assoluta.

Due E.P. e un singolo vengono analizzati dal Vecchio Scriba che riconosce all’artista inglese trasferitosi a Bath una impressionante fila di pregi, rovesciati in canzoni autunnali che fermano l’inverno ma gli sussurrano incomprensibili parole, in un gioco / inganno poderoso ed efficace.

Quando decide di dare alle note uno spazio maggiore si riesce a intuire come gli scenari visivi siano figli di una sensibilità che vuole accorciare lo sguardo verso il cielo, con una scelta minimalista che non consente troppe variazioni, il tutto non per limite bensì per la predisposizione ad accarezzare il suono più che a cercare il cambio degli accordi, regalando emozioni e una sostanziale soddisfazione che, pur risultando incomprensibile, si dilata nelle vene. 

L’esordio è stato davvero notevole: arrivato nel momento in cui la musica d’autore inglese stava attraversando una crisi di espressione e di contenuti, And the World Spins on è stato un improvviso arcobaleno della pelle, della mente, con quattro brani che hanno spazzato via la paura di una sterilità che sembrava uccidere il beneficio della musica d’autore.

In particolare la ricerca dei colori vince nei confronti delle parole e della produzione, donando un insieme particolare di tensione e curiosità.

Con il successivo E.P. Sleepers le cose cambiano, si trasformano e allungano la portata di un talento inarrestabile: le composizioni si fanno più complesse, la chitarra acustica trova in quella elettrica una compagna ideale per lanciare al cielo note strategicamente gonfie di emulsioni e di inviti a guardare la vita terrena come una doverosa concomitanza con il sogno.

Arriva poi l’ultimo singolo Liminal Fall e si ha la certezza di una crescita di base: ne parlerò tra poco, ma mi piace pensare che il futuro di questo prodigio sia diventato maggiorenne proprio in quei deliziosi e torturanti minuti…

Un uomo capace di affascinare e conquistare Huey Morgan dei mai dimenticati Fun Lovin’ Criminals: insieme alla moglie i due decidono di sostenerlo, lo circondano di stima e sono i primi testimoni di un coraggio che è arrivato a baciare le stelle.

È un’opera, la sua, commovente e risonante, con il proprio carattere, intenzione, duttilità, rigidità e capacità di incantare.

La sua natura può sembrare aspra e introspettiva, ma concede minuscoli ingressi che garantiscono il paradiso dell’ascolto, consentendo alla sua visione agrodolce e alla sua particolare modalità di suonare la chitarra l’occasione di divenire una tesa e spasmodica volontà di trasferire il tutto nelle pareti interne dei propri pensieri, e questa è una peculiarità dei più grandi…

La sua strumentazione è minuscola, in grado di sembrare spesso un’orchestra che vola, vibra e arrotonda il piacere, come se la musica classica fosse una musa in costante modalità di consiglio…

Ma i suoni sono stratificati, ricchi, raffinati e tutto ciò può comportare una serie di difficoltà da parte dell’ascoltatore nell’afferrarli. L’equilibrio percussivo è semplicemente perfetto e si ha davvero l’impressione che un clamoroso silenzio viaggi dentro questi suoni, per erudirci tutti e per una fase di completezza più che mai necessaria.





 Song by Song



1 - Wake Up


Si parte con un risveglio, con un’ascensione morale, una serie di aperture in un contesto che scavalca quello del rapporto di coppia. Ed ecco allora una chitarra che ci porta da Tom McRae e una voce che spettina il cuore, fa gonfiare le lacrime, mentre le astute note di pianoforte creano un mantra che connette il ritmo all’armonia, per stabilire il contatto con una percepibile volontà di fare della vita un invito a conoscere le diverse altezze, cosa che la musica e la voce fanno perfettamente…



2 - And the World Spins on


La caduta, il dolore privato, i tuoni del cielo si buttano a capofitto in questi suoni e accordi tesi, in un’intesa che porta il new acoustic movement a intuire le possibilità che si era negato…

Grant illumina poi il tutto con un assolo che è rapina, circonda e vibra, diventa distorto accogliendo la voce che rimane quasi in penombra, per trasformare il tutto nel volo perfetto di un’aquila reale. Il senso di perdizione (accennato nel testo), la constatazione dell’impatto a terra non toglie nulla alla speranza di un nuovo mondo da trovare.

Ed è una pop song velata di pura e veritiera drammaticità…



3 - State of Grace


La libertà di lasciare che un’altra persona viva senza vincoli è una scommessa, una prova ardua anche solo da immaginare. Grant prende la sua chitarra acustica e, per inciso sempre accompagnato da piccoli e quasi non udibili rumori atmosferici, decide di offrire alla voce il ruolo di riportare in auge quella vibrante forma di ambient folk che negli anni Novanta deliziava il Regno Unito. Un minuscolo ma poderoso assolo di chitarra acustica ci porta nel Dark Folk americano per coniugare il sogno e la realtà in questa non ballad…



4 - Days of Pitchford


Scorie, lampi, trucioli sonori vibrano nei primissimi secondi e poi tra i Bad Seeds e David Eugene Edwards è una bella e piacevole lotta, lenta, per conferire una impronta western  a un messaggio che è sì privo di parole ma parla la lingua della paura, della confusione, in un approccio che alla fine diventa una perfetta metafora delle distanze attuali.

Un brano che odora di storia, di geografia, di ricerca, in cui il regime stilistico cerca l’ondivaga forma dei giochi delle note, in un saliscendi che sconquassa e seduce…



5 - Sleepers


I gabbiani di Bath cercano il vento in un giorno di poca luce, le note del pianoforte cadono dal cielo e gli archi di George Wilson fanno venire il singhiozzo al cuore…

Si vive, si sceglie e si dorme: in questo circolo di sensi la musica conosce una direzione, portando la struggevolezza di un alternative quasi minato dalla tristezza a divenire la pietra su cui asciugare le lacrime.

Pochi accordi, la voce che segue i gabbiani, il pianoforte, per condurci nell’intimo volo incerto dove gli anni Settanta si riprendono lo scettro con questo brano che sarebbe stato invidiato da molti.

Quando la bellezza fa questo, smarrirsi nell’emozione determina una nuova e forgiante identità…



6 - Rainbows


Cosa sono gli arcobaleni per Grant?

Sono piccoli fasci di luce da intossicare di una gravità che non sia vista del tutto, con voci che possano nascondere la loro propensione a prendersi il cielo ed è proprio la chitarra elettrica che stabilisce tutto questo: si tratta di una discesa nel territorio dell’oblio, del tormento e del sorriso che cerca le stampelle per camminare ancora. Il drumming di Martin Murphy è perfetto, in grado di disciplinare la bellezza di questo brano incantevole.

Alla fine è blues, soul, è diamante che si trucca da pop song per essere una cometa che si porta sulle spalle tutti questi arcobaleni in attesa di rinascere…



7 - Out of Sea


Onde e arpeggi aprono il canto dei gabbiani e ci si ritrova nell’oceano con queste parole alte ma mai urlate: i giorni sprofondano ma non l’amore e quei rintocchi di piano ci portano dai cantautori francesi degli anni Cinquanta, in un volo anarchico di note in cerca di parole che possano, appunto, come dice Grant, “annegare il nostro stordimento”...



8 - Sleepers Reprise


Sleepers e la sua vestaglia: più che un essere ripresa, riconsiderata, sembra per davvero che tutto sia partito da qui, da questo approccio ambient che affida al circostante sibilante il compito di cullare questa voce famelica…



9 - Liminal Fall


Ancora il mare, imbarcazioni in lontananza, tutto pare piatto in attesa, come l’introduzione sorniona ma già drammatica, per poi constatare che il giro melodico del canto è una sberla, un livido che arriva senza compromessi.

Il ritmo sale ma timido, sino a quando la batteria scuote, esattamente come la voce e le parole, per farci inoltrare in una ennesima caduta.

Infatti la batteria si ferma e rimane un lamento.

Il basso di Martin Murphy guida l’insieme verso la perfezione.

E poi via di nuovo, per sentire una chitarra salutare il dream pop e il caos, perfettamente equilibrato nei suoni e nella produzione, si impossessa delle lacrime che diventano un cerchio infinito…

Sembra davvero che questo pezzo sia il battesimo di una età artistica che conosce il passaporto e possa andare, liberamente, nel futuro…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st February 2025


https://open.spotify.com/artist/7aD2kWK5ls9dtcKhX2hxis?si=9Husphg3SQSb4pAyDjxIeA

giovedì 13 febbraio 2025

La mia Recensione: Sacred Legion - The Higher Unknown

 


Sacred Legion - The Higher Unknown


Ci sono stelle fasciate, timorose di provar dolore, che rallentano volutamente il pensiero della morte per preferire il silenzio di quelli imbavagliati. Quando si trasformano in canzoni allora tutto affonda nel precipizio di sentieri sonori, di trappole eleganti e maligne che adoperano la classe dei metalli roventi.

Torna la band del circondario di Frosinone per un disco che uccide questa sciocca attitudine a considerarla gotica, amante del Death Rock e amenità simili quando, invece, il terzetto si fa portavoce di una vistosa trasformazione.

Diventa un fumetto americano con i passi in Europa, come figli di Dino Battaglia, di Georg Büchner, di E.T.A. Hoffman, per delle nuvole parlanti che, pur muovendosi velocissime per soli ventinove minuti, riescono a fissare un quasi violento trascinamento all’indietro: ci si ritrova nell’800, con strepitose mosse anacronistiche che ottundono, scremano l’attualità e scelgono la musica che traghetti il tutto su un ipotetico foglio di carta. 

E troviamo Dino Buzzati e il suo Deserto dei Tartari: il passaggio del tempo, il destino, l’assurdità dell’esistenzialismo bloccato e scioccato trovano il loro fissativo in queste composizioni che lacerano l’ingenua propensione al vittimismo o al pessimismo. Siamo, piuttosto, davanti a una ponderazione, a una disciplina di pensiero che trova il supporto di Zeena Schreck, vera pepita d’oro di questo fascio di composizioni. Una dea che conosce il percorso spirituale, la sensata teatralità che ben si sposa con le musiche dei tre, per un incastro dissacrante pieno di ruggine. 

Ed ecco che Giovanni Drogo appare nei versi in modo inconsapevole, ma con un senso preciso del dovere e dell’obbedienza: sono brani che hanno bisogno di schemi, di studio, di un regime comportamentale in cui la necessità di conferire alla brevità il compito di precisare il tutto li rende antichi, quasi punk, ma non gotici di certo. Ed è qui che le cose si fanno chiare: sono morte le rive di quei luoghi dove piangere e sentirsi sfortunati rendeva vulnerabili le anime. Fabiano Gagliano riscrive le regole, disegna fumetti, cerca il Desert Rock più nella polvere notturna dell’hard rock dei primi anni Settanta che sicuramente sono presenti, ma non si può negare come nello struggimento esista una semplicità sonora che non abbisogna di trucchi e fiamme: il suono si muove in una direzione unica senza inganni, grattugiando benissimo le migliaia di band che perdono tempo a cercare un effetto ritenuto “giusto”.

Nell’album il pavimento delle note diventa latrato, ululato, un eco privo di pomposità in quanto investito di una precisa responsabilità: essere un tutto umano e non meccanico.

Canzoni come schizzi di sangue, di memorie, di bugie rilevate, di inviti precisi che sgomentano per lealtà e profondità.

Accennavo a Dino Battaglia, e precisamente a quel clamoroso riproponimento de “Il cuore Rivelatore”, di Edgar Allan Poe.

Bene: queste canzoni riprendono il tratto di una paura che cerca la separazione dall’incubo per avere una rotta solitaria, per infierire nel piacere di distorsioni attitudinali (che qui sono evidenti nei solchi) e concludere in una genuflessione con grandi gocce di umiltà attraverso un elemento storico che il Vecchio Scriba si rifiuta di definire come una cover.

Direi che, invece, il brano che conclude questo secondo disco sia un nuovo interruttore, logico e sensato, per definire non solo un amore, un buon gusto, quanto piuttosto un aprire e chiudere un cerchio temporale nel quale il gruppo appoggia le proprie creature all’interno di questa storica canzone…

Mirko, Tony e Fabiano prendono il rock e lo mettono a testa in giù, non in una grotta bensì nell’emisfero di una filigrana che cerca una espansione continua. Chitarre graffianti, il basso che scava e la batteria che fa annegare il fiato di una danza rendono il tutto un incubo, sì, ma sostenibile e compatibile con la geometria scenica di queste nove schegge.

L’insieme deve essere rapido, focalizzato, in una condensa ritmica in cui le uniche evasioni sono date da due mosse strategiche: il richiamare due compagni di viaggio del tempo che fu e un brano (toh, mica un caso che sia il più breve…) che apre, e chiude in un certo senso, ogni possibile volontà di andare altrove.

Arte sonica, spirituale, che guarda alla tradizione con rispetto, un quaderno in mano e una penna a china per prendere appunti. Nulla di tecnologico in questo lavoro, bensì un aratro che scava tra le zolle infangate da esistenze follemente perdute. E allora roghi, streghe, anime sezionate, lacrime salvifiche e aspirazioni come vettori di un benessere che conosce il beneficio del dubbio.

Se Satana esiste nei versi dei Black Sabbath (che non citerei come i maestri di questo album, ma solamente come un sacro tempio a cui volgere velocemente lo sguardo), qui lo ritroviamo nella ritrosia della formazione Frusinate ad adoperare la zona dell’ombra per divenire obbligatoriamente gotici. Non c’è nulla di gotico invece, ma decisamente un'attitudine alla creatività che ha un solo evidente termine di paragone in questo lavoro: i Damned, che truccavano la loro stessa cittadinanza stilistica senza porsi problemi. I tre sono liberi di folleggiare, di tapparsi le orecchie, di compiere un marcamento a zona sul ritmo e sulle storiche strisce psichedeliche di quel combo pazzesco che risulta essere il lavoro delle chitarre e del basso, che, come rabdomanti notturni, seppelliscono immediatamente quello che hanno trovato.

Un concept album sonoro, vuoi per l’attenzione nei confronti del suono che deve essere un indagatore, vuoi per la schiettezza di un’impalcatura emotiva che però si connette a un universo mentale fatto di anni e anni di studi specifici. Ecco la traiettoria delle canzoni divenire menefreghista nei confronti della condizione attuale. Nessuna fotografia, nessuna presunzione evocativa, ma uno sguardo laterale verso un non mondo dove le storie raccontate sono già intuibili dagli accordi e dalle loro brevi successioni, in uno scontro che li rende sicuramente, al giorno d’oggi, unici, senza cercare l’unicità…

Se muore un eco (il quinto pezzo di questo progetto artistico/umano), quello che rinasce è la scelta, piena di buon gusto, di non vergognarsi dei limiti del presente, dell’approccio falsato dal non essere più dei musicisti e degli scrittori di testi semplici ma connessi alla profondità. 

Un fascio di insieme compresso in languide ferite ribelli, ossigenate dalla praticità e non dal sogno: uno scatto poderoso verso un sarcasmo evidente, un grimaldello che scoperchia la noia e la uccide.

Dicevamo di due presenze che rendono il tutto un generoso Grazie da parte dei tre musicisti e compositori: Adolphe Le Duc e Matteo Bracaglia che tutto sono tranne che dei ripescaggi in zona Cesarini; sono fiori che cadono con abilità tra i solchi per detergere, profumare e ingigantire questo cratere emozionale che fa del rispetto una curva dove, alla fine della sua traiettoria, esiste un abbraccio sensoriale.

Lo Stoner Rock e il già citato Desert Rock (che altro non sono che le schegge eleganti di quella Birmingham e di quella Londra che tra il 1969 e il 1972 sarebbero approdate negli USA come un flagello senza sosta) sono gli indiziati stilistici primitivi e più evidenti ma poi, come il vento che non ha padroni, ecco che i territori stilistici conoscono rapide deviazioni, in un teatro che, più che di dolore, è un recipiente pieno di melma, di distorsioni grevi, di leggerezza addirittura pop come nel brano finale, in cui approdiamo a un miracolo: da una parte la band che scrisse questa pillola pop imbevuta di piume glam e dall’altra quell’attitudine alternative indie che fu territorio dei Pixies nei loro primi passi.

Rimandi, stretching, per un disco muscolare e sfuggente. Sopra il Frusinate esiste un miracolo che sta tornando indietro nel tempo per creare un evento straordinario che non avrà di certo una filiazione: ed è in questa unicità che si palesa un portento onesto…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford


13-2-2025


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/the-higher-unknown

  


lunedì 20 gennaio 2025

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali


 

Auge - Spazi Vettoriali


Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel nulla. Esiste una controparte che invece disegna traiettorie per sublimare la coscienza e la conoscenza, come atto, coraggioso, di un inizio che possa scrivere, sulla coda delle stelle, un epitaffio lucente.

Questo è ciò che fa la band fiorentina Auge, un condensato crescente di nervose progressioni coscienti, disturbatori privati che, nella marcia inarrestabile di un percorso artistico, arrivano a posizionare fasci luminosi nelle ombre. Ostili, antipatici, sconnessi dalla realtà che fugge dall’impegno, i quattro artisti ne ridisegnano il volto, con un’amarezza adulta e perciò controcorrente, non desiderabile. Nel loro profondo approccio all’analisi del tempo e dei luoghi dove l’esistenza pullula di particelle omicide, loro raccolgono i suoni attuali, criptandoli, ossigenando ipotesi e frastuoni, gravitazionando senza tentennamenti in una lastra in bianco e nero dove le macchie sono ipnotizzate da un’enfasi moderata, che fa approcciare le composizioni all’arte della poesia che anestetizza il presente.

Un disco folle, romantico, impulsivo, pieno di mediazioni linguistiche e sonore, per poi rendere grigi i battiti del cuore, spettinando ogni necessità, utilizzando la strategia dell’innesco di dubbi in catalettica esuberanza, in un tripudio di bilanciamenti che snervano ma, innegabilmente, consolano.

L’ossatura ritmica questa volta, nel secondo di tre album tematici previsti, si sposta dal precedente, con trame rarefatte solo nei momenti opportuni, perché, è bene precisare, ci troviamo in un martellamento di coscienze seppur raffinato. La narrazione, peculiarità della scrittura, qui si divide il ruolo con la musica, in un combo che stravolge pratiche e conoscenze, facendo compiere il miracolo di un approccio poco italiano. Niente a che vedere con i suoni, gli stili, le attitudini: la band fiorentina corre in un sistema creativo che emargina le pratiche semplici e si tira su le maniche per far capitolare la noia e la pochezza. Arte come penna offensiva, con garbo, ma atta a ottundere.

Oscurità e limpidezza sono i cardini, gli elastici, gli interruttori di continue partenze orgiastiche e quindi dolorose, per qualità e insistenza. Melodie profonde bisognose di ritmiche per spaventare il concetto di immortalità: ecco il primo grande merito di un disco che, come un martello temporale, cerca anime sensibili e coscienze in stato di veglia.

L’eleganza entra come anestesia, come un appuntamento galante ma senza alzare la voce: sono composizioni che cercano l’apertura mentale, spazi, appunto vettoriali, che possano far abitare nuovi destini.

Ed eccoci agli argomenti, alle invettive mascherate e alle grandi occupazioni del gruppo: non un criticare, tantomeno un prendere atto, bensì un disegnare la traiettoria di esigenze che non nascondano la gravità dei fatti. L’emozione diventa elettrica, caratterizzata da tensioni che manifestano il bisogno di condivisione.

Tutto parte da musiche che sono linguaggi sensoriali, fari nel ventre di un luogo che li ospita, consentendo alle parole scritte di divenire anch’esse corpo, nel binomio maledetto di un ossimoro che conquista e seduce il pensiero.

Stasi dei sensi.

Allerte.

Venti in cerca di teorie con cui incontrarsi e perdersi negli universi…

Quella che regna maggiormente, però, è la storia di sequenze e morali travestite da racconti (uditivi e suggeriti da sillabe concretamente legate al senso dinamico di un fissativo logico) per generare consapevolezza, attraverso un dolore istruito al contagio. 

Immagini di vita? Sì, innegabilmente, ma maggiormente un idilliaco abbraccio cognitivo che renda informata la temperatura della dispersione collettiva. Ecco, spiegate divinamente, le strade della violenza, delle esagerazioni, dell’atmosfera da sballo di menti corrotte.

Un viaggio che da musicale diventa personale, illustrando e lustrando le orme dei precipizi mentali, che Mauro Purgatorio e compagnia bella disinfettano prendendosi cura del suono, in questo caso per la seconda volta ad appannaggio di Flavio Ferri ma, bene sottolinearlo, con il contributo notevole di Luca Fucci, un funambolo creativo con il senso dell’equilibrio ben posizionato sulle  dita.

La produzione, dei due musicisti accennati e degli Auge stessi, porta il suono ad anticipare il senso generale per quello che è, nascostamente, un atipico concept album, ma preciso nell’abbracciare temi e indoli in contatto tra di loro.

I quattro si fermano, arrestano il tempo, rendono il mondo un silenzio abulico, un ossigeno in cerca di un diserbante, dove le inquietudini  trattengono il giro delle lancette dell’orologio per dare un bacio al passato. In tutto questo sia benedetta Chiara Pericci, una fata della periferia artistica, che in pochi secondi di presenza ci ipnotizza e ci accarezza il cuore. 

Ascolto e trascendenza, nel matrimonio elaborato di congiunzioni ipnotiche, trafugano la semplicità per adoperare filtri e intuizioni, in una passeggiata metropolitana, che devia il percorso e lo rende un’onda ossessiva, nel pieno di una fanciullezza dalle evidenti rughe in anticipo.

Il tutto è Rock, perverso, selvaggio, maledetto con il papillon e un profumo tra il volgare e l’acre, in un urlo che nulla ha di sconvolgente: trattasi di un furto lecito e onesto.

Sintesi, salti, evocazioni, invocazioni, perplessità e trucchetti da maghi ingialliti da luci atemporali sono i protagonisti di questo balsamo per l’anima, che ha il coraggio di bussare alle porte del linguaggio onirico degli Alice in Chains come a quello metafisico dei Massimo Volume. Già questo spiega la proporzione dei confini, dei passi, delle modalità e soprattutto delle capacità che fanno di questo disco una conversione razionale all’indispensabile.

Diviso nel lato A e nel lato B (si parte dall’inizio per essere perfetti, dal rispetto del vinile come idea di base), il percorso mette in contatto i due volti, nei quali quello iniziale ha maggiormente lo spirito della contemporaneità, mentre il secondo ha uno sguardo più attento verso ciò che sta dietro, nei passi che rimangono accesi di vita…

La poetica essenziale disegna un linguaggio più raffinato rispetto al passato, come se la maturità acquisita non dovesse consegnarsi allo spreco. Infatti, in tutte le composizioni svettano le impressioni che lasciano spazio alle interpretazioni, e questo avviene anche e soprattutto con la musica, un caleidoscopio rurale dove il post-rock, il post-punk e un precedere qualsiasi cosa generano flussi ancestrali con melodie e armonie che vengono dipinte da una elettronica sapiente e capace di suggerire e non di spaccare il palco con un'entrata in scena esagerata. In questo, il lavoro di Luca e Flavio è semplicemente perfetto, costruendo matrimoni artistici per l’incanto dei piaceri.

Superiamo l’ostacolo della paura, creiamo certezze approssimative e tuffiamoci nei veleni ipnotici di queste catartiche passeggiate cognitive, una a una…




Song by Song


Lato A


1 - Icaro

“È dal giorno delle menzogne che ti vedo scomparire dentro porte senza ritorno ma con un cielo da esplorare”


Un allarme nucleare, un sinfonia ipnotica, chitarre elettriche ritmiche che graffiano e un giro di basso che sembra una colata del Vesuvio: l’inizio dell’album è un temporale lento, morale e invernale, con accordi pieni, un rock nato negli amplessi esplorativi degli anni Settanta, che si ciba di ipnosi e metalliche scariche in cerca di Spazi Vettoriali…



2 - Ero Lì 

“Io ero lì quando fecero marciare per i viali i non pensanti”

Prendete 1979 degli Smashing Pumpkins e andate oltre, calpestando stop and go, con iniezioni sonore che le portano a sudare il sangue di presenze, e avrete solo l’ossatura della prima, roboante forma di aggressione che conosce, nel finale, un rallentamento, ma puramente stilistico, perché in realtà la canzone continua a essere un missile esplorativo…



3 - Firenze

“Ma in ogni angolo del giorno c’è arte in quel dolore profondo”

L’inizio è quasi uno shock perverso: petali trip-hop fanno da pavimento a una veloce, progressiva e manifesta desertificazione post-punk che vede la citazione, illustre e illuminata dal cantato fuori dal cielo di Chiara, di Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus, che sono presenti in diversi momenti e non solo quando direttamente menzionati. Ecco non una invettiva sulla città, ma un tenere fuori i piedi dall’arroganza e dalla borghesia di un realtà morente…



4 - Lei

“Nascosta nella sua mente ma negli occhi brilla sempre la fiamma intermittente”

Può un arcobaleno entrare nella scia di un cuscino? Può correre nel marasma di un Alternative ipnotico, con il ritmo sincopato e capace di tergiversare, di prendersi pause e poi di distendersi sui propri muscoli, per riportare la luce nella espressione dolce amara di Moltheni, di giovani e vecchi Sonic Youth in cerca di un catrame da addolcire?



5 - Maestrale

“E mentre osservi il mare già le onde gridano senza alcun timore: “it's the secret I love!””

Ogni grandezza ha una calamita interiore: eccola.

Maestrale è un serpente ipnotico, che parte sinuoso e poi, accelerando, porta con sé una tristezza davvero indolente come il maestrale, qui raffigurato come una pepita temporale, sfuggente, grazie a un solo di chitarra che riporta lo stoner rock in Italia, con leggerezza e contorni di hard rock quasi segregati.

 

Lato B



1 - Gravità 

“Non è solo bisogno di calore quello che ora vuoi. È questa forza di gravità”

Prendi l’oceano e dagli del veleno come colazione: una scossa elettrica che accarezza non solo le foglie da un’inclinazione, dispersiva e necessaria, al fine di creare un vuoto cosmico. Per scrivere questo capolavoro (la canzone lo è, innegabilmente), la band raggruppa la sanguigna capacità di Clementi con i suoi Massimo Volume e l'istrionico connubio delle voci di Chiara e Mauro, per far precisare le chitarre e il basso nello scuotimento pelvico di un drumming potente e raffinato.



2 - La Teoria

“Ci muoviamo senza senso dentro la scatola finita polvere che verrà sostituita da altra polvere”

Siamo nel territorio degli ammiccamenti musicali recenti e il bisogno di guardare la progressione mentale di una chitarra appiccicata al rock lento dei Saxon fine anni Settanta, per poi arrivare ai Marlene Kuntz, sino a definire il vero passaporto stilistico degli Auge che è quello di rifiutare maschere e nascondigli ma di allargare il petto della propria cifra stilistica. E lo fa bene in questo maligno camminamento tossico di parole che prendono il caos e lo rendono una teoria fallace e dimenticabile. Un brano che ruba l’inutile e diventa sacralità ineccepibile…


3 - Ognissanti

“Prova ad immaginare, immaginare di essere Dio senza mai più un segreto”

Per il  Vecchio Scriba questo è l’episodio che meglio sintetizza la bellezza, l’esplosione delle polveri, dei connubi dei musicisti e dei produttori, per lanciare le voci inquinate e inquietanti verso una corsa che non permette deviazioni ma mette con le spalle al muro. La canzone ha un impeto violento, un confine millimetrico di un odore marcio di religiosità e convenienze perlustrate e appese fuori della propria stupidità, per far morire i segreti dell’imbecillità. Rock con i grumi sui polsi, voci raddoppiate enfatiche e chitarre malate di verità che assediano l’ascolto e ospitano uno spazio temporale davvero impetuoso. Definitiva, incalzante, necessaria: niente altro che il doveroso appuntamento con la perfezione degli Auge…


4 - Perdersi

“Preferisco perderti nelle mie fantasie e non in un bicchiere d'acqua”

L’identità danza lentamente, tra Tenco, De André e i Primus a basso regime ritmico, in un solstizio che ospita parole sagge e romantiche e gemme musicali a contatto del cielo in una clamorosa quasi ballad, dove il suono maligno dell’assolo è un perfetto calcio testicolare ben assestato. Ruvida, apparentemente, la canzone è un gioco temporale dell’identità che finisce in un eco riverberato davvero sublime…


5  - Universi

“E capisci di essere l’umile ingegnere che può aiutare a tirar fuori i sogni dal cassetto”

Chiara Pericci si trasforma in una fata triste, un angelo grigio con un vocalizzo che fa nascere lacrime mentre l’arpeggio di chitarra ci porta in Francia negli anni Quaranta. Quando arrivano le parole di Mauro, e il suo cantato quasi al limite della stonatura, ci rendiamo conto che il tutto perfetto, anche se pesante da vivere, ritrovandoci coinvolti dal suo prendere fiato e dalla ragazza sola del testo, qui raccontata come se fosse uno specchio termico di Michelangelo Antonioni, tra sudori e pianti. Ed è un crescendo psichedelico, che ci porta in dono l’unico nemico mai assente: Dio.

È un finale pazzesco, insostenibile, con una coda Shoegaze/Post-Rock nei confini di una follia insostenibile.

Se ogni album è un congedo, questo è un silenzioso rumore che anticipa un’ennesima pausa dove tutto accade…


Auge:

Mauro Purgatorio (Voce, liriche e synth)

Matteo Montuschi (Chitarre)

Sara Vettori (Basso, basso fretless)

Riccardo Cardazzo (Batteria)


Produzione:

Flavio Ferri, Auge & Luca Fucci



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Gennaio 2025

L'album uscirà il 7 di Febbraio

La mia Recensione: Grant Swarbrooke - And the World Spins on (Home Recordings) Ep /Sleepers Ep / Liminal Fall (single)

  Grant Swarbrooke - And the World Spins on (Home Recordings) Ep /Sleepers Ep / Liminal Fall Nel sud di una Inghilterra imprigionata da scel...