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lunedì 20 gennaio 2025

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali


 

Auge - Spazi Vettoriali


Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel nulla. Esiste una controparte che invece disegna traiettorie per sublimare la coscienza e la conoscenza, come atto, coraggioso, di un inizio che possa scrivere, sulla coda delle stelle, un epitaffio lucente.

Questo è ciò che fa la band fiorentina Auge, un condensato crescente di nervose progressioni coscienti, disturbatori privati che, nella marcia inarrestabile di un percorso artistico, arrivano a posizionare fasci luminosi nelle ombre. Ostili, antipatici, sconnessi dalla realtà che fugge dall’impegno, i quattro artisti ne ridisegnano il volto, con un’amarezza adulta e perciò controcorrente, non desiderabile. Nel loro profondo approccio all’analisi del tempo e dei luoghi dove l’esistenza pullula di particelle omicide, loro raccolgono i suoni attuali, criptandoli, ossigenando ipotesi e frastuoni, gravitazionando senza tentennamenti in una lastra in bianco e nero dove le macchie sono ipnotizzate da un’enfasi moderata, che fa approcciare le composizioni all’arte della poesia che anestetizza il presente.

Un disco folle, romantico, impulsivo, pieno di mediazioni linguistiche e sonore, per poi rendere grigi i battiti del cuore, spettinando ogni necessità, utilizzando la strategia dell’innesco di dubbi in catalettica esuberanza, in un tripudio di bilanciamenti che snervano ma, innegabilmente, consolano.

L’ossatura ritmica questa volta, nel secondo di tre album tematici previsti, si sposta dal precedente, con trame rarefatte solo nei momenti opportuni, perché, è bene precisare, ci troviamo in un martellamento di coscienze seppur raffinato. La narrazione, peculiarità della scrittura, qui si divide il ruolo con la musica, in un combo che stravolge pratiche e conoscenze, facendo compiere il miracolo di un approccio poco italiano. Niente a che vedere con i suoni, gli stili, le attitudini: la band fiorentina corre in un sistema creativo che emargina le pratiche semplici e si tira su le maniche per far capitolare la noia e la pochezza. Arte come penna offensiva, con garbo, ma atta a ottundere.

Oscurità e limpidezza sono i cardini, gli elastici, gli interruttori di continue partenze orgiastiche e quindi dolorose, per qualità e insistenza. Melodie profonde bisognose di ritmiche per spaventare il concetto di immortalità: ecco il primo grande merito di un disco che, come un martello temporale, cerca anime sensibili e coscienze in stato di veglia.

L’eleganza entra come anestesia, come un appuntamento galante ma senza alzare la voce: sono composizioni che cercano l’apertura mentale, spazi, appunto vettoriali, che possano far abitare nuovi destini.

Ed eccoci agli argomenti, alle invettive mascherate e alle grandi occupazioni del gruppo: non un criticare, tantomeno un prendere atto, bensì un disegnare la traiettoria di esigenze che non nascondano la gravità dei fatti. L’emozione diventa elettrica, caratterizzata da tensioni che manifestano il bisogno di condivisione.

Tutto parte da musiche che sono linguaggi sensoriali, fari nel ventre di un luogo che li ospita, consentendo alle parole scritte di divenire anch’esse corpo, nel binomio maledetto di un ossimoro che conquista e seduce il pensiero.

Stasi dei sensi.

Allerte.

Venti in cerca di teorie con cui incontrarsi e perdersi negli universi…

Quella che regna maggiormente, però, è la storia di sequenze e morali travestite da racconti (uditivi e suggeriti da sillabe concretamente legate al senso dinamico di un fissativo logico) per generare consapevolezza, attraverso un dolore istruito al contagio. 

Immagini di vita? Sì, innegabilmente, ma maggiormente un idilliaco abbraccio cognitivo che renda informata la temperatura della dispersione collettiva. Ecco, spiegate divinamente, le strade della violenza, delle esagerazioni, dell’atmosfera da sballo di menti corrotte.

Un viaggio che da musicale diventa personale, illustrando e lustrando le orme dei precipizi mentali, che Mauro Purgatorio e compagnia bella disinfettano prendendosi cura del suono, in questo caso per la seconda volta ad appannaggio di Flavio Ferri ma, bene sottolinearlo, con il contributo notevole di Luca Fucci, un funambolo creativo con il senso dell’equilibrio ben posizionato sulle  dita.

La produzione, dei due musicisti accennati e degli Auge stessi, porta il suono ad anticipare il senso generale per quello che è, nascostamente, un atipico concept album, ma preciso nell’abbracciare temi e indoli in contatto tra di loro.

I quattro si fermano, arrestano il tempo, rendono il mondo un silenzio abulico, un ossigeno in cerca di un diserbante, dove le inquietudini  trattengono il giro delle lancette dell’orologio per dare un bacio al passato. In tutto questo sia benedetta Chiara Pericci, una fata della periferia artistica, che in pochi secondi di presenza ci ipnotizza e ci accarezza il cuore. 

Ascolto e trascendenza, nel matrimonio elaborato di congiunzioni ipnotiche, trafugano la semplicità per adoperare filtri e intuizioni, in una passeggiata metropolitana, che devia il percorso e lo rende un’onda ossessiva, nel pieno di una fanciullezza dalle evidenti rughe in anticipo.

Il tutto è Rock, perverso, selvaggio, maledetto con il papillon e un profumo tra il volgare e l’acre, in un urlo che nulla ha di sconvolgente: trattasi di un furto lecito e onesto.

Sintesi, salti, evocazioni, invocazioni, perplessità e trucchetti da maghi ingialliti da luci atemporali sono i protagonisti di questo balsamo per l’anima, che ha il coraggio di bussare alle porte del linguaggio onirico degli Alice in Chains come a quello metafisico dei Massimo Volume. Già questo spiega la proporzione dei confini, dei passi, delle modalità e soprattutto delle capacità che fanno di questo disco una conversione razionale all’indispensabile.

Diviso nel lato A e nel lato B (si parte dall’inizio per essere perfetti, dal rispetto del vinile come idea di base), il percorso mette in contatto i due volti, nei quali quello iniziale ha maggiormente lo spirito della contemporaneità, mentre il secondo ha uno sguardo più attento verso ciò che sta dietro, nei passi che rimangono accesi di vita…

La poetica essenziale disegna un linguaggio più raffinato rispetto al passato, come se la maturità acquisita non dovesse consegnarsi allo spreco. Infatti, in tutte le composizioni svettano le impressioni che lasciano spazio alle interpretazioni, e questo avviene anche e soprattutto con la musica, un caleidoscopio rurale dove il post-rock, il post-punk e un precedere qualsiasi cosa generano flussi ancestrali con melodie e armonie che vengono dipinte da una elettronica sapiente e capace di suggerire e non di spaccare il palco con un'entrata in scena esagerata. In questo, il lavoro di Luca e Flavio è semplicemente perfetto, costruendo matrimoni artistici per l’incanto dei piaceri.

Superiamo l’ostacolo della paura, creiamo certezze approssimative e tuffiamoci nei veleni ipnotici di queste catartiche passeggiate cognitive, una a una…




Song by Song


Lato A


1 - Icaro

“È dal giorno delle menzogne che ti vedo scomparire dentro porte senza ritorno ma con un cielo da esplorare”


Un allarme nucleare, un sinfonia ipnotica, chitarre elettriche ritmiche che graffiano e un giro di basso che sembra una colata del Vesuvio: l’inizio dell’album è un temporale lento, morale e invernale, con accordi pieni, un rock nato negli amplessi esplorativi degli anni Settanta, che si ciba di ipnosi e metalliche scariche in cerca di Spazi Vettoriali…



2 - Ero Lì 

“Io ero lì quando fecero marciare per i viali i non pensanti”

Prendete 1979 degli Smashing Pumpkins e andate oltre, calpestando stop and go, con iniezioni sonore che le portano a sudare il sangue di presenze, e avrete solo l’ossatura della prima, roboante forma di aggressione che conosce, nel finale, un rallentamento, ma puramente stilistico, perché in realtà la canzone continua a essere un missile esplorativo…



3 - Firenze

“Ma in ogni angolo del giorno c’è arte in quel dolore profondo”

L’inizio è quasi uno shock perverso: petali trip-hop fanno da pavimento a una veloce, progressiva e manifesta desertificazione post-punk che vede la citazione, illustre e illuminata dal cantato fuori dal cielo di Chiara, di Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus, che sono presenti in diversi momenti e non solo quando direttamente menzionati. Ecco non una invettiva sulla città, ma un tenere fuori i piedi dall’arroganza e dalla borghesia di un realtà morente…



4 - Lei

“Nascosta nella sua mente ma negli occhi brilla sempre la fiamma intermittente”

Può un arcobaleno entrare nella scia di un cuscino? Può correre nel marasma di un Alternative ipnotico, con il ritmo sincopato e capace di tergiversare, di prendersi pause e poi di distendersi sui propri muscoli, per riportare la luce nella espressione dolce amara di Moltheni, di giovani e vecchi Sonic Youth in cerca di un catrame da addolcire?



5 - Maestrale

“E mentre osservi il mare già le onde gridano senza alcun timore: “it's the secret I love!””

Ogni grandezza ha una calamita interiore: eccola.

Maestrale è un serpente ipnotico, che parte sinuoso e poi, accelerando, porta con sé una tristezza davvero indolente come il maestrale, qui raffigurato come una pepita temporale, sfuggente, grazie a un solo di chitarra che riporta lo stoner rock in Italia, con leggerezza e contorni di hard rock quasi segregati.

 

Lato B



1 - Gravità 

“Non è solo bisogno di calore quello che ora vuoi. È questa forza di gravità”

Prendi l’oceano e dagli del veleno come colazione: una scossa elettrica che accarezza non solo le foglie da un’inclinazione, dispersiva e necessaria, al fine di creare un vuoto cosmico. Per scrivere questo capolavoro (la canzone lo è, innegabilmente), la band raggruppa la sanguigna capacità di Clementi con i suoi Massimo Volume e l'istrionico connubio delle voci di Chiara e Mauro, per far precisare le chitarre e il basso nello scuotimento pelvico di un drumming potente e raffinato.



2 - La Teoria

“Ci muoviamo senza senso dentro la scatola finita polvere che verrà sostituita da altra polvere”

Siamo nel territorio degli ammiccamenti musicali recenti e il bisogno di guardare la progressione mentale di una chitarra appiccicata al rock lento dei Saxon fine anni Settanta, per poi arrivare ai Marlene Kuntz, sino a definire il vero passaporto stilistico degli Auge che è quello di rifiutare maschere e nascondigli ma di allargare il petto della propria cifra stilistica. E lo fa bene in questo maligno camminamento tossico di parole che prendono il caos e lo rendono una teoria fallace e dimenticabile. Un brano che ruba l’inutile e diventa sacralità ineccepibile…


3 - Ognissanti

“Prova ad immaginare, immaginare di essere Dio senza mai più un segreto”

Per il  Vecchio Scriba questo è l’episodio che meglio sintetizza la bellezza, l’esplosione delle polveri, dei connubi dei musicisti e dei produttori, per lanciare le voci inquinate e inquietanti verso una corsa che non permette deviazioni ma mette con le spalle al muro. La canzone ha un impeto violento, un confine millimetrico di un odore marcio di religiosità e convenienze perlustrate e appese fuori della propria stupidità, per far morire i segreti dell’imbecillità. Rock con i grumi sui polsi, voci raddoppiate enfatiche e chitarre malate di verità che assediano l’ascolto e ospitano uno spazio temporale davvero impetuoso. Definitiva, incalzante, necessaria: niente altro che il doveroso appuntamento con la perfezione degli Auge…


4 - Perdersi

“Preferisco perderti nelle mie fantasie e non in un bicchiere d'acqua”

L’identità danza lentamente, tra Tenco, De André e i Primus a basso regime ritmico, in un solstizio che ospita parole sagge e romantiche e gemme musicali a contatto del cielo in una clamorosa quasi ballad, dove il suono maligno dell’assolo è un perfetto calcio testicolare ben assestato. Ruvida, apparentemente, la canzone è un gioco temporale dell’identità che finisce in un eco riverberato davvero sublime…


5  - Universi

“E capisci di essere l’umile ingegnere che può aiutare a tirar fuori i sogni dal cassetto”

Chiara Pericci si trasforma in una fata triste, un angelo grigio con un vocalizzo che fa nascere lacrime mentre l’arpeggio di chitarra ci porta in Francia negli anni Quaranta. Quando arrivano le parole di Mauro, e il suo cantato quasi al limite della stonatura, ci rendiamo conto che il tutto perfetto, anche se pesante da vivere, ritrovandoci coinvolti dal suo prendere fiato e dalla ragazza sola del testo, qui raccontata come se fosse uno specchio termico di Michelangelo Antonioni, tra sudori e pianti. Ed è un crescendo psichedelico, che ci porta in dono l’unico nemico mai assente: Dio.

È un finale pazzesco, insostenibile, con una coda Shoegaze/Post-Rock nei confini di una follia insostenibile.

Se ogni album è un congedo, questo è un silenzioso rumore che anticipa un’ennesima pausa dove tutto accade…


Auge:

Mauro Purgatorio (Voce, liriche e synth)

Matteo Montuschi (Chitarre)

Sara Vettori (Basso, basso fretless)

Riccardo Cardazzo (Batteria)


Produzione:

Flavio Ferri, Auge & Luca Fucci



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Gennaio 2025

L'album uscirà il 7 di Febbraio

domenica 5 gennaio 2025

La mia Recensione: Lamante - IN MEMORIA DI


 

Lamante - IN MEMORIA DI


Che bello aspettare un disco invecchiare, percorrere la strada della pazienza, dello studio, dargli il tempo di circumnavigare i pensieri, governare gli istinti.

Otto mesi dopo la sua uscita ecco un’analisi fitta, dritta, coraggiosa ma in grado di cogliere un esordio deflagrante, per dare alla musica italiana ponti e riflessi, in un mare agitato da una giovane donna che ha avuto il coraggio di aprire le proprie contaminazioni libere nel circuito della memoria. Non fotografie e nemmeno “solo” ricordi: direi, piuttosto, un allacciamento temporale all’interno di istinti e grumi di sangue, per tracciare teoremi, scarti, immaginando la creazione delle note come un’arte che si presta a scuotere la vita. Non esistono classificazioni in questo graffito, che affitta il talento per condurlo in solchi pieni di scorie, maledizioni, ingiurie, macabre pulsioni sessuali che diventano con la sua scrittura il respiro angelico dei peccati. Giorgia Pietribiasi investe la storia recente di operatori messi a disagio  dal buon gusto e li schiavizza, con torture sonore e vocali, con la parte testuale che, ingegnosa e voluttuosa, permea il tutto come un delirio educato che prende in prestito la modalità dell’hardcore italiano molto più del punk, in quanto le liriche sono centrate sul pronome personale io e tendono a includere ed escludere gli altri solamente nella parte terminale delle sue considerazioni. E poi la musica: un fitto cammino nella foresta fresca di incursioni che fanno del suono il presupposto di una sciabolata, per far rabbrividire le definizioni. Lei è scomoda già con se stessa, incespica e rutta versi come un olio che cerca vitamine essenziali. Un aprire le mani per chiudere gli occhi, con fraseggi gentili solo per concedere al fiato di cercare un imbuto per cadere e dare all’equilibrio modo di illudersi. Sono undici rosari, circolari e spinosi, gravidi di pulsioni, garze che dalla sua Schio si affacciano sul mare italiano sempre più sporco e nei pressi dello sfarzo inutile. Giorgia no: parte dai suoi paletti, propositi che, quando si avvicinano all’aspetto artistico, fanno scattare in piedi i muscoli, per sottolineare non c’è alcun punto di contatto con le ultime due decadi sonore di questo stivale sempre più storto. In Memoria Di accusa, difende la dignità, balbetta felicemente nel corollario dei suoi tentativi di immaginare la musica come un deserto che rivela fiori inconsueti.

Immergere le contaminazioni elettroniche per farle combaciare con una attitudine Industrial è davvero ragguardevole, portando l’incanto a stabilire il contatto con una poetica suburbana, invasiva e piacevolmente scomposta. Si alternano fluidi e pugni, nella scelta di operare un marcamento stretto che abbisogna dei fiati per portare le note del pentagramma nella ragnatela della seduzione.

La sua voce, poi, un groviglio nevrotico che accende l’orgoglio di paragoni che stavolta diventano un merito e non una punizione. Si va quindi all’estero, a bussare sulla spalla di Sinead O’Connor, per tornare in Italia con Cristina Donà, e poi fuggire via nel suo petto, perché per davvero il suo canto nasce dal suo cuore, proprio in questo organo che lei spreme, per metterlo poi nel cervello sempre pronto a scaricare watt e deliri.

Nelle sue urla ci sono lacrime che ossigenano le riflessioni, nei suoi ritornelli (che presto potrebbero anche sparire, vista la sua affermazione che la forma canzone le sta stretta) gli arcobaleni entrano nei disagi quotidiani facendola vibrare. 

Taketo Gohara è un produttore capace di dare ai mirtilli il suono delle rose selvatiche ed è stato proprio lui a riempire questo lavoro di venti che rendono solido il volo magmatico di queste composizioni. Una farcitura, una guarnizione, una mano abile per consegnare a Giorgia un trono da cui non scenderà facilmente. La grinta non passa solo dai rumori e/o dalle lacerazioni, bensì dal governare la cosa giusta facendola sposare con l’errore. Ecco quindi canzoni come bambine monelle che prendono in giro le verità seminando dubbi ed esternazioni come pallottole che invece di colpire circondano, finendo per snervare ancora di più.

Un album che odora di pellicola antica, di un sax scassato e mai riparato, per conservare l’odore di cammini continui. Venticinque anni che nelle composizioni paiono essere più del doppio, per seminare confusioni e imbarazzi. I termini scelti per sviluppare un percorso mentale si affacciano agli anni Settanta: un continuo saltare avanti e indietro con il gioco del banale che oscura la bruttezza, ingravidandola con scorie che attraversano il setaccio di una morbidezza sopraffina e incontenibile. Un luna park a intermittenza che passa dagli oggetti alla natura, al tempo, ai rapporti rotti che paiono perfetti, e un’indole propensa a separare se stessa dal suo stesso mondo.

I temi trattati oscillano tra il prato dell’esistenza che scorre nelle sue giovani vene e il dramma di un tempo da far filtrare da qualche parte. Scendono i suoi versi nei meandri di paure che si vorrebbero lontane. Una fila di tracce che lei inchioda, cancella, semina nel suo vocabolario solo apparentemente semplice: i suoi puzzle provocano un’orticaria mentale che non si può che adorare e adoperare per sentirsi sganciati dal senso e cercare un luogo nuovo dentro noi stessi.

Si fa in fretta a immaginare che questo album non sia in grado di fuggire dall’attrazione da parte di chi, stanco e amareggiato da una scena italiana che cerca il successo, voglia uno specchio frantumato da guardare senza pretese, ferendosi nel raccogliere i pezzi, disinfettando le ferite con la tossina infinitamente generosa del suo talento senza museruola, anarchica al di là della sua stessa dichiarazione. Basta vedere come nessun testo parta e arrivi senza conoscere la tentazione di nascondere il cielo…

L’abilità principale si precisa nel pop che si trova sbilanciato, raggirato ma utilizzato all’interno di un circuito che fugge dai generi musicali. Lei va oltre quella presa sicura, scavalca la scuola della sicurezza e, invece di far riposare le canzoni nei canali di boriose definizioni, sprinta e parte per la tangente, sfigurando il volto di chi passa il tempo a voler classificare. Urla, molto, questo è vero, ma lo fa come lo faceva James Brown nei primi anni Settanta: quando l’isteria trova un pretesto, un aggancio, allora smette di essere governata. Questo continua in ogni brano, in un esercizio delizioso per correggere la sua luna interiore.

La bontà e la cattiveria non si sfidano a duello: si ignorano e ci invitano a cedere davanti alla ragione che vacilla e cade.

Si può solo imparare a vedere i nervi distesi dentro un romanzo e qui Tolstoj non c’entra nulla, malgrado il titolo della sua più clamorosa opera: un disco come discarica tra pagine ingiallite, in cui la foto di copertina si ritrova a essere il bastone di un passato che è miracolosamente sopravvissuto.

Si rimane basiti, non confusi e tantomeno felici: dentro una gioia scomposta le lacrime di questo miracolo ci rendono la pelle dell’anima una cometa che non muore nemmeno volendolo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Gennaio 2025


sabato 7 dicembre 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us


 Midas Fall - Cold Waves Divide Us


La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che appassiona le anime in ascolto e in visione, trasportando le ombre sotto i riflettori. Ciò che ne consegue è estasi in ripetizione, tra oscillazioni e tremori. La musica può rappresentare tutto questo come tramite, indagine e una fitta ragnatela contenitiva. Se a farlo è la band scozzese Midas Fall, allora la paralisi del miocardio è garantita all’istante, come genesi di fragilità in cerca di ossigeno. Il duo (ora trio) compie il miracolo più notevole che si possa solo lontanamente sperare: scrive una genuflessione dal vivo, un concerto invisibile, direttamente nelle nostre stanze, come una vicenda privata, unica, difficilmente evitabile, per segnalare un primo incandescente atto di totale innamoramento, come coda di una lunga carriera in cui il quinto disco non fa altro che raccogliere, seminare, inventare dalle ipotetiche oscillazioni umorali un impianto definito, preciso, una invasione di corsia del nostro finto equilibrio.

Tabula rasa sì, ma piumata, ossigenata di algida bellezza proteica, in mezzo al circolo di emozioni che sono solo la coda di un palazzo mentale che verbalizza istinti, radiose giornate in penombra e la fatica di manifestare il talento di queste composizioni che attraggono il battito verso la fatica del contenerle tutte.

Più intimo, meno sognante (pare un ossimoro, una bestemmia, ma prima o poi capirete che non è così…), crudo con la malinconia che sottolinea la potenza di queste gocce che, anche quando cadono forte, sanno usare il rumore come una piuma inzuppata di sole…

Elizabeth Heaton e Rowan Burn sono due fate che ignorano il successo, le pose, i bisogni pubblici che seminano solo dispersioni. Loro raccolgono i respiri, i pensieri, e, con una frusta da cucina, fanno condensare la loro intima ricerca in un casco dorato dove tutto viene amalgamato e messo nel frigo del cuore. Sono cresciute, hanno generato pillole sonore non come figli ma come pennelli e colori da gettare nel vento. Ora più che mai vivono di giochi continui, un andare e venire dal nucleo delle forme, un utilizzo attentissimo delle diramazioni, nel quale post-rock, progressive e shoegaze si incollano alla materia della penetrazione mentale, operando la scelta che ogni bisturi sia capace di non fermarsi sul primo strato della pelle di queste canzoni. Questo spiega l’intensità, la contenuta esplosione per generare, piuttosto, un fragore più silente, circostanziato dal bisogno di usare le note come colla, come carta su cui scrivere un dna incontenibile: quello della descrizione. 

La volontà di chiamare a sé Michael Hamilton, anche lui polistrumentista e produttore, ha permesso l’ampliamento della fase di scrittura dei brani, come se davvero un membro in più rendesse questo “concerto” che è Cold Waves Divide Us un irripetibile scambio di doni, in un periodo non di grazia bensì di reali capacità in cerca di un fissativo permanente, per permettere a questa esibizione dal vivo di non terminare mai.

Ci si ritrova nella visione del mondo, nella serratura di una porta dove ognuno di noi vive la segretezza della sua esistenza, nella discarica di sogni sbiaditi, di volontà prive di mordente per poi anestetizzare la gioia al fine di farla rinsavire con queste piccole note che, incastonate, diventano massi pieni di fiori di montagna, in volo, incantato e incantevole, senza fine.

I tre sono l’imbuto nel quale cade ogni lacrima, ogni intima resurrezione emotiva, perché sanno scavare nelle peripezie delle singole espressioni delle note musicali, per correggere invece la scelta non astuta della musica contemporanea di cercare il successo. La vera arte dà sempre le spalle al pubblico…

Cunei, petardi, baci col rossetto blu e damigiane di vino entrano in queste canzoni per inebriare, stordire, commuovere e fare dell’ascolto un inferno roteante.

Musica eterea che scalda il fuoco sepolto nelle vene, adrenalina che esce dall’anestesia di ascolti mediocri, elaborazioni continue sulle strutture che rendono ogni secondo di ascolto un millennio nei battiti del nostro cuore. Angeli storditi, che vagano tra le culle di bisogni a noi non concessi, riproducono incanti e suggestioni, disegnando impeti e riflessioni, congiuntamente.

I movimenti, le torsioni, le conduzioni delle chitarre si legano agli archi, al drumming raramente potente, al basso che misura la condizione di forma dei sogni e li sorregge e poi all’espressione dell’ugola, su cui prima o poi il Vecchio Scriba scriverà un libro.

Ma, diversamente da tutti i colleghi, vorrei sottolineare che le parti musicali sono il vero pozzo pieno di petrolio, la miccia della voce, un abbraccio che consente a ognuno dei membri della band di esplorare un universo diverso. Certo, la sua è la migliore degli ultimi vent’anni e il suo cantato è di una   bellezza semplicemente devastante, incontenibile, la madre di ogni lacrima dai brividi accesi, una molla sensoriale che imbratta il viso di liquidi in dispersione continua.

Ma non è sola. Non solo lei conquista e penetra. Si deve avere il coraggio di affermare che la musica perfetta suggerisce alla voce perfetta di stare sul medesimo palco e di portare l’ascolto laddove la mediocrità non ha accesso.

Arte come nuvola in attesa di un tuono, di un tuono in attesa di dormire su una nuvola, con un pianoforte in mezzo e degli archi a sillabare vocali desueti, nella fantasia di un incontro inverosimile. 

Non è Dream Pop, non è gotica, non è un genere: ciò che è rimane relegato al mistero. Pellicole di film mai esistiti, dipinti in una bottega lontana dall’accessibilità, consentono al freddo contenuto nel titolo dell’album di tremare, di divenire frammento frenetico, di far evaporare le pretese e di conturbare l’animo. Incalzante, incastrato nella pillola magica del non conosciuto, questo percorso di note crea sinfonie prog in modo velato, tuffandosi nella modalità del goniometro e dell’inchiostro: definire, senza sbavature.

La grazia, la piuma che non accelera troppo, il dondolio della voce tra graffi e grappoli di svisate, introducono il pensiero in una locazione mai considerata prima: la confusione dello smarrimento davanti a questa bellezza insostenibile.

Gli archi, i synth, non solo aleggiano ma puntano i piedi, reclamano spazi e penetrano i timpani con quella dolcezza che disarma e sovrasta. Uniti alla voce e alla chitarra diventano piombo con i petali in bella vista…

L’avanguardia, l’originalità sono terreni che appartengono alla memoria (in ambito musicale sicuramente), ma quanto è bello constatare l'eccezione che vive in questo sciame, in questo alveare, in questo ruggito dalle corde gentili?

Armonie evocative, lampi di note, colpi di basso sincopato, patterns quasi invisibili e poi il lampo, in un sudore del sangue che dalla Scozia parte per fare un bel viaggio dentro la nostra oscena ignoranza. Ecco, quindi, questo disco divenire il maestro di una gioia perversa.

Il suono è onnivoro, divora le pareti del pentagramma, e descrive perfettamente quanto tutto derivi dalla musica classica, da quel pentolone che ancora oggi fa bollire l’acqua dell’arte musicale, senza tentennamenti. La quiete disturba chi vive maremoti, lo spettina e lo fa imbestialire. I tre, giovani marmotte nella foresta del dolore, cercano le foglie per far diramare le pellicole intuitive, oltrepassando i confini del conscio, immobilizzando l’inconscio,  per poi stabilire i turni di lavoro dei pensieri che nascono, si inseguono, ci inseguono, e ci abbattono.

“Fredde onde ci dividono”: questa la traduzione del titolo, un inganno, una verità, una precisazione, un perfetto escamotage per convogliare l’attenzione  sui rapporti, con se stessi, con gli altri, per creare una giungla emotiva nel polo artico. Il freddo non scioglie bensì sceglie solamente la temperatura migliore per conservare e, quindi, per ricordare. E l’album ci ricorda di come gli antichi fragori abbisognassero di un richiamo, come una cocaina mentale da tirare su, nel nostro cervello annebbiato.

Piangere è un regalo che l’anima offre alla tua convinzione di essere più forte di ogni cosa. Quando le canzoni cambiano il tuo umore e il flusso di pensieri diventa intollerabile e ingovernabile, allora ti rendi conto di trovarti davanti a un potere enorme, non uguale al tuo e quindi fai i conti con una fragilità enorme. In questo caso positiva e capace di renderti un pulcino nel suo primo giorno di vita. Queste sono informazioni ignote, non brani, pillole di atomi in una sfera quadrata, non brani, fiamme gassose in cui svenire per la bellezza e sicuramente non per la loro tossicità, ma mai brani: sarebbe ridurne il valore se pensassimo questo. 

I Midas Fall giungono nell’emisfero del vuoto: il loro sublime talento (non toccabile, ma fruibile solo a patto di non entrare nelle loro discariche gassose), scende nel perimetro della perfezione con l’unico vero Capolavoro degli ultimi dieci anni musicali.

C’è un noto e un ignoto che insieme squarciano il certo e lo programmano per una fuga doverosa.

Se proprio vogliamo considerarlo un album, diciamo pure che le moltitudini forme di comunicazione qui vengono assemblate e amalgamate per lasciare del tutto esterrefatti. 

Spostiamo la luce, dietro le nostre spalle, ed entriamo in questi crateri floreali, uno a uno…


Song by Song


1 - In the Morning We’ll Be Someone Else


L’inizio di questo capolavoro è un’indagine della forma stilistica, un accenno dei nervi, un battipanni che fa cadere la polvere: asciutto, melodico, nucleare nell'effetto di una intimità che frana, utilizza l’atmosfera del sogno, con la lentezza e il drumming che tenta di fare avanzare i pennelli di questi fragori tenuti lontani, mentre la voce prende per mano la parte elettronica del pezzo, nell’avamposto chimico di un’eterea manifestazione di luce che se ne va, abbandonando ogni paragone con quello che la band aveva scritto in precedenza. Ouverture e tortura: si piange subito con la chitarra shoegaze che alza le note verso un cielo lontano…



2 - I am Wrong


Il ritmo entra come lo spettacolo di una foresta decadente in fase di contenimento: il piano prospettico è quello di una corsa, invece, sebbene la cadenza musicale suggerisca una danza tribale, la tristezza e la malinconia governano queste pillole di chitarre antiche, molto prossime ai primi anni Ottanta, in cui per dire molto bastava poco… La coda del brano è un circuito elettrico di nuvole e drumming che ipnotizza la forma canzone, per concedere il ritorno di Elizabeth che rende giustizia con la sua disciplina vocale.

Diversi i generi musicali che qui fanno la muta, si incrociano per poi essere spettatori negli ultimi secondi dove tutto diventa sintesi…



3 - Salt


Memorie di Evaporate tornano, ricordandoci il loro ultimo album di cinque anni fa: vi sono composizioni nate per essere frastuono dentro la sei corde, con il supporto di vocalizzi eterei, archi quasi pudici e l’orchestrazione che passa dall’antico al moderno con disinvoltura, per poi divenire una pillola del post-rock più addentro alla tristezza e alla miseria…



4 - In This Avalanche


I testi di Elizabeth sono punture, la musica il tessuto su cui lei spazia nella sua contemplazione dolce e gentile solo all’apparenza. Un carillon, sotto forma di loop, spiana la strada a una armonia che centellina le energie, per poi esplorare il cielo quando la voce si chiude nel silenzio. Il pianoforte e il synth fanno l’amore con una chitarra che odora di Dream Pop ma scevra da condizionamenti. E infatti non manca l’appuntamento con un’attitudine fantasiosa che la porta altrove. Una ninnananna sa essere anche una perfida ma incantevole freccia…



5 - Point of Diminishing Return


L’unico brano strumentale è invece un coro gregoriano atipico: tutto si eleva alla preghiera, moderna, atea, sganciata dalla fede, per divenire un parto di post-rock vicino a quello dei Leech, per dare alle note uno spazio su cui inserire inserti e trame che ne concludano il percorso inventando la regola del limite improvviso. Glaciale, austera, di una tristezza sublime, la canzone fa da ponte perfetto tra la prima parte dell’album (attenta e premurosa) e la seconda (rantolante con un giacca di seta tra i capelli), al fine di stordire i sensi e captare l’attenzione: dove una splendida voce si assenta può esistere una musica che ne riproduce l’effetto e ciò accade, inesorabilmente, in questa occasione…



6 - Monsters


C’erano una volta  i Mazzy Star. I Low. E una pletora di band che cercava la voce per perfezionare il percorso artistico. Accade, in questo caso, che due universi paralleli si frequentino. Nell’attesa tutto diviene uno straziante episodio in cui le chitarre guardano l’orizzonte sottile tra post-rock e shoegaze per divenire la forma progressiva di un rock antico. E quella di Elizabeth uccide ogni ritrosia, sino ad appannare il vetro di singhiozzi dati dal rullante e dalle chitarre in esplorazione gassosa…



7 - Atrophy


Dove finisce il cielo vive Atrophy: il senso di morte tra le bolle di un cantato che violenta il cuore e un’orma di chitarra che avanza sino a divenire un sogno etereo e rarefatto, ci convincono che questo episodio sia talmente in grado di distruggere le difese che l’anima si concentra nello straziante commiato di forze in caduta libera. Un mantra che lascia le bave nel mattino di una intuizione clamorosa: disegnare per davvero il luogo in cui tutto finisce…



8 - Cold Waves Divide Us


La sintesi, la profezia, la ventata passionale di un giorno in cui si stabilisce il contatto con il disagio: questo brano è la cassaforte del nuovo impeto della band, la sonda che dalla lentezza e dalla precisione concettuale esce allargando il ritmo, il perimetro visivo, e fa brillare il loop e il delay della chitarra per concentrare una verità musicale per loro indiscutibile, che è quella di non ripetere mai un giorno di pioggia senza concedersi ingressi multipli. Ecco che allora i generi musicali qui presenti sono diversi ma, data la fattura della composizione, nascondono il naso lasciando intravedere solo le braccia…



9 - Little Wooden Boxes


La natura diventa nota musicale.

Il respiro degli strumenti un battito di ciglia.

Parole come cigni in un volo inquinato.

Ciò che vive nella penultima composizione dell’album è un rafforzativo, gentile e pulito, della cifra stilistica di questo incredibile viaggio: dilatazioni, incursioni di singoli accordi e la lentezza della progressione così vicina al Post-Rock senza però entrare in quei parametri. La voce, con la sua modalità evocativa, esplora la progressione senza seguirne le ombre, ed è miracolo puro di un combo perfetto…



10 - Mute


L'incipit è cavernoso, un rottame su un’onda nervosa, un malessere che si affida alla voce per creare un boato breve, non secco, ma perennemente costretto dalle poche note di un piano stregato e pregno di malefica bellezza, per impedire al tutto di morire.

Non necessita di ritornelli, di espedienti beceri in quanto è del tutto simile alla modalità tipica dei vecchi Bad Seeds di Nick Cave: dare al basso lo scettro e poi investire sul mantello fluorescente di un apparato musicale che lo supporti. 

Per approdare alla dilatazione, alla duttilità dello Shoegaze che governa il mistero e al Post-Rock, qui in veste di mago contenitivo.

Sacra, vergine, nefasta nell’accezione positiva, la canzone chiude come una goccia di rugiada questo Capolavoro: si festeggi la bellezza tra il roseto di lacrime senza fine…


Alex Dematteis (Vecchio Scriba - Old Writer)

Musicshockworld

Salford

7 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/7HE5PoausnMjJAoco3miw2?si=V95H52lZQR2Q9v5PtT94zg


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