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giovedì 27 marzo 2025

La mia Recensione: Loom - a new kind of SADNESS


 

Loom - a new kind of SADNESS


“All things fade

all things die

no more temptation

no more fascination”


Un viaggio con le lancette piene di incertezza non consente alcun tipo di beneficio, che è invece l’obiettivo di questa esperienza.

Constatare come questo periodo dell’esistenza umana formi solitudini in avanzamento costante può dare all’arte spunti davvero interessanti. Ed ecco che la band svedese riesce in questo compito con un nuovo brano (il primo di tre di questa primavera), colmo di malinconia, di parole che circondano la consapevolezza così come l’ignoranza, i luoghi così come il tempo, per approcciarsi alla verità e farla sprofondare in una tristezza sensata e non discutibile. Alla voce questa volta abbiamo Fredrik Axelsson, supportato dalla sorella Monika e da Roland Klein, in una stratosfera umorale che circonda la pelle di ogni pensiero, con una barriera corallina composta da una chitarra cavalcante, un basso postpunk in odore di santità e l’eco degli Adorable più melanconici a disinfettare la paura di poter essere felici…

Un clamoroso ritorno, in cui si constata l’abilità di rimanere nella propria cifra stilistica (storicizzata da 32 anni di splendida carriera), con l’apertura verso un pop triste sfiorato molte volte, ma qui espresso in modo sublime. E l’assolo di chitarra (nel finale), essenziale e ben incastrato con un drumming potente e fantasioso al punto giusto, regala lacrime corrotte dalle parole vere, concrete e potenti scritte da Fredrik, per un fadeout inesorabile.

La canzone dimostra il solito approccio verso uno Shoegaze gentile, mai esagerato, quasi anomalo, sempre a braccetto di un Alternative che si prefigge il ruolo di suggerire strategie e molteplici possibilità.

Il ritornello, vero termometro del gruppo di Ålem, procura uno scialle di lacrime compatte, con il cuore che si inchina a constatazioni in cui la vita sembra perdere forza, rivelando inutilità e il fascino ormai lasciato alle spalle, in un passato che con il tempo rimane un ricordo da abbandonare. La modalità baritonale di Fredrik viene messa a fianco di quella da mezzosoprano di Monika, per un risultato davvero impeccabile. Tra le composizioni più cupe mai scritte da questo combo, sempre pregno di poesia e in grado di provocare riflessioni importanti, qui l’ensemble svedese raggiunge la vetta, dalla quale lancia queste note che hanno grandi possibilità di essere accolte e coccolate.

Ed è una sorpresa a lunga gittata constatare che di questa nuova tristezza siamo in molti ad avere bisogno…


In uscita Venerdì 28 Marzo 2025

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Marzo 2025


https://loom2.bandcamp.com/track/a-new-kind-of-sadness

La mia Recensione: David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


 

David Middle - A Goth, A Piano & Songs of Sorrow


Un’ombra umorale sale dal cielo di Cambridge (lo fa da tanti anni), in costante dilatazione, usando forme artistiche diverse, prendendo il coraggio, il lavoro, il talento e la sfortuna sotto l’ala della sua splendida e ostinata necessità di non lasciare il mondo senza le sue ossessioni, dolcezze, integrità, volontà di fare del proprio mantello lo sguardo della sua purezza.

Questa espressione della natura ha un nome: David Middle, un corsaro gotico, cinematografico, a tratti un mimo della vita, altre volte un cabarettista che sfida il nero trasformandosi anch’egli come il più vorace dei colori. Per avanzare, fermare il tempo, costruire barriere coralline con la sua filosofia diretta, le sue corde vocali acute, spigolose, saggiamente tremende e implacabili, in ebollizione, una polveriera che saccheggia la calma e la conduce verso un atto di fede agnostica…

Un album da solista, mentre la sua anima non ha mai mancato di collaborare con band e progetti paralleli, è una scelta che rende più specifico il suo flusso cosciente, in una modalità che gli permette un focus indiscutibilmente forte e circostanziato ai suoi testi così potenti e in grado di trasformare la realtà, le paure, il silenzio e la memoria come i piloti di un palazzo mentale che mostra in modo ineccepibile.

Usa strategie note in modo inusuale, colora le trame sonore con il vento di una ispirazione continua, spaziando da Klaus Nomi, ai Virgin Prunes, a Rozz Williams, al più cupo Alice Cooper, arrivando a sfiorare la spalla di Genesis P-Orridge e il mento di Marc Almond. Ma è solo l’inizio, una falsa pista, in quanto David ha praterie proprie, come le sementi del suo pensiero così autonomo e originale.

La vita e le sue pene non sono raccontate bensì vissute in contemporanea, come se tutto accadesse mentre ascoltiamo e questa sensazione, divina e massiccia, lascia petali neri sul nostro respiro, rendendoci consapevoli di una dipendenza a cui in fondo non si sperava di avere la fortuna di assistere…

Si può, in questo modo, riflettere su come la pochezza degli strumenti usati in realtà aprano le porte della percezione, dando alle nostri menti lo spazio per allargare la necessità di far fluidificare questo pentagramma che invece di essere povero è ricco di grandi suggestioni. Tasti in bianco e nero e una sequenza teatrante di movimenti che accolgono archi sintetici e handclapping che suggeriscono il silenzio attorno a essi: Middle è un mago fuori da questo tempo, scevro dai condizionamenti, così barocco nella sua fertilità che non accetta forzature da parte delle forme espressive del presente.


Costruisce sentenze che, voraci, danzano nella sua ugola graffiando la volta celeste, l’unico vero paradiso che vede il suo laboratorio essere una cascata di pensieri imbottiti di incantevoli giochi di luce, dove il chiaroscuro è solo lo start dei suoi bisogni artistici, poderosi e olfattivi, sensoriali in quanto l’orchestra dei suoi battiti finisce per invadere tutto, con calma e una disperata intelligenza.

Un album per anime abili nel farsi avvolgere, coinvolgere, per sospendere la parte che si rifiuta di capire l’intensità, il dovere della coscienza, divenendo un distributore di scintille razionali che abbracciano la purezza di sentimenti caduti nella solitudine non voluta. Il connubio tra la musica e le parole risulta così essere un perfetto mantra con il quale cadere nella piacevolezza del dolore.

La ricerca armonica mostra integrità, conoscenza delle modalità espressive e un grande rispetto per quella parte della storia musicale che l’odierno non conosce e non rispetta. David si rivela così un combattente con note come pallottole gentili, mentre le parole sono sciabolate a salve, in grado di centrare lo spazio che sta perfettamente a metà tra la mente e il cuore.

L’artista rivolge l’attenzione verso la natura, misurando distanze e similitudini, coinvolgendo la strada della descrizione armonizzando il proprio spirito complice, maturando con la musica un legame intenso, quasi muto, per poter vivere liberamente una connessione con entità sicuramente più buone. 

Si ha sempre l’impressione di una maturità che induce David a cullare le rughe della propria mente spingendolo verso una forma quasi segreta in cui essere custode e rabdomante, alla ricerca di verità, seppur scomode, ma gestite con autorevolezza.

Quando si ha l’impressione che voglia seminare petali neofolk si avverte una sacralità pagana forse anacronistica, che però offre la misura della sua estensione culturale, e la sua lingua sa essere un dolce veleno che rovesciandosi diventa amaro: miracoli come infissi nel buio…

Accade poi di sentirlo congedarsi dalla vita (nella maestosa Ode to Jacqueline) si avvertono brividi, come se un amico se ne andasse, ed è uno dei momenti più toccanti con i quali si deve fare i conti. La sapiente volontà di donare melodie che si fissano nella mente comporta il fatto che pure le parole facciano lo stesso, finendo per dilatare i centimetri del nostro ascolto.

Le orchestrazioni, minimaliste e mai pompose, danno anche la misura di una produzione curata, in grado di farci avere l’impressione di un racconto in musica che va riletto e riletto ancora: nemmeno una sillaba di bellezza va persa in questa opera meritevole della migliore accoglienza…


Song by Song


1 - No One Hears Me

“Pull me out from the drowning mud”


Una danza appare, nella notte, per essere un racconto tra ansia e sogni mancati. La musica è un gesto balsamico attraverso tasti battenti con morbida propensione verso il registro basso…


2 - Climbing Stairs

“Every fall is a lesson, every climb is a spell”


La contrapposizione tra le note grevi e lente del pianoforte e il cantato di David creano un lampo notturno nel quale cadere con dignità. Un brano che pare arrivare dalla tensione teatrale e cabarettistica del miglior Marc Almond. Ed è apoteosi in ripetizione…


3 - Help Me Please

“I, see faces, but memories still fade”


La memoria qui trova una clamorosa centralità e la cavalcata del basso e il contrappunto del piano ci riducono in brandelli. E poi quella invocazione, che si trasforma in un mantra da tenere nel circuito segreto delle nostre colpe. Un capolavoro senza tempo…


4 - The Whispering Wings

“Underneath the whispering trees”


Il teatro francese sale sul palcoscenico, si cambia l’abito e diviene un eco inglese del Millesettecento, con un’apertura alare del ritornello che pare essere un monito, in cui il terrore afferra i sogni e li uccide…


5 - Final Witness

“Scared to last you 

never rest”


Si danza e senza il drumming è pure meglio: sulle punte, come ballerini classici, mentre il testo compie una panoramica sostenuta da una voce che si fa ago piangente…


6 - Ode to Jacqueline

“My time has come, and now i know I said goodbye”


Il ritmo rallenta e i tasti sentenziano, per poi aprire le braccia dentro un circolo di luci amorose piene di tensioni, inviti, sino al finale con un addio che traduce perfettamente uno spartito così volenteroso di essere riconoscente alla musica classica, che qui si fa ancora più evidente e necessaria…


7 - Gothic Candles (Midnight Mix)

“Through the darkness, we journey hand in hand”


David ci porta costantemente nella notte, nel buio, per attraversare le illusioni dei sogni e le più evidenti e reali forme dolorose, con un’ambientazione musicale gotica, come se Rozz Williams lo incitasse a non perdere la teatralità perfetta del suo cantato… 


8 - Walking with the Dead

“In my heart, the dead will stay”


Una prodezza, un nuovo tuono nel cuore e nella testa, per questa ouverture che diventa una piacevole tortura, che cerca di trasformare un volo libero in un doveroso schianto. Tutto qui odora di definitivo, come se davvero la convivenza con la morte potesse essere l’unica gioia. 


9 - Our Broken World

“Our innocence lost in the hands of fools”


Il cantato iniziale ci riporta ad Hallelujah di Leonard Cohen, ma poi tutto si sposta e si entra in una drammaticità solare, in un contrasto giocoforza ragionevole, e la musica rende il tutto perfettamente coeso e intatto…


10 - A Hollow Heart

“But through the tears, I’ll find my way”


La disperazione è obbligatoriamente un processo lento. E invece David la rende quasi una fase allegra, veloce, dalla voce leggera, e la musica che pare fare il solletico all’inverno…


11 - Dark Love

Il brano più raffinato, più teso e drammatico giunge quasi alla fine dell’album, lasciando petali dandy nel testo e spunti musicali che attraversano le epoche e gli stili per poi farci sentire il gusto amaro di un amore pieno di tenebre…


“A symphony of lust, makes your heartbeat tight”


12 - Mood Swings

“I laugh until I cry”


Una voce filtrata, come mai prima, fa da apripista all’ultima canzone, che è come un epitaffio nascosto, sepolto da una musica angelica con sfumature, in modo emblematico, drammatico. Ed è un soffio dolce che spegne la candela, che subito però riaccendiamo per riascoltare questo album così delizioso e significativo che è un peccato madornale trascurare…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

27 Marzo 2025


https://batcaveproductions.bandcamp.com/album/a-goth-a-piano-songs-of-sorrow

venerdì 21 marzo 2025

La mia recensione: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


C’era una volta e c’è ancora un luogo nel Wiltshire, nel sud dell’Inghilterra, non lontana da Bath, una località resa famosa da una formazione post-punk e darkwave (Bolshoi), che di nome fa Trowbridge e che ha portato per un pò, nel suo ventre, le prelibate peripezie del quartetto.

Nel 1990 la band si sciolse e ora il Vecchio Scriba si accinge a portarvi in un oceano in fuga, lenta, verso il cielo, con una miscela armonica che ha richiami antichi, delicati, profumati, dove il folk, la psichedelia, la pelle inumidita di Alternative e Indie Rock fa da base per un circolo razionale inevitabile. Le undici canzoni sono state scritte durante il lockdown, a distanza: Florida chiama, Seattle risponde, in un percorso solo fintamente separato. Le idee, gravide di umori e maturate esposizioni all’addensamento di pensieri a braccetto con la filosofia, vengono rese libere dal talento, dal lavoro sul senso, sulla schiena di storie dall’involucro protetto dai suoni che spargono tenerezza e curiosità. Molti i luoghi su cui le canzoni planano, molti i riferimenti in  cui si potrebbe trovare un sorriso, un sollievo, ma, soprattutto, grande è il perimetro dei versi, degli arrangiamenti, del cantato, del flusso energetico, dei raggi di sole che fanno dei Bolshoi di un tempo un piacevole ma non essenziale ricordo. 

Trevor Tanner, come sempre chitarrista e voce, disegna, attira l’ascoltatore nelle sue praterie mentali, mentre Paul Clark (tastiere) è il grande artefice di questo caleidoscopio, di questa foresta che cerca di catturare la luce per nutrirsi di speranze. E le loro nuove residenze, americane, hanno favorito un parto artistico nel quale, tra i due poli, vengono compresse sensazioni, dolori, impeti e una folta vegetazione sensoriale: un album come uno slancio che non conosce direzione, per dar senso alla vera libertà.

È rock che sembra nato dalle bave di Lou Reed, dalla psichedelia australiana della seconda parte della carriera dei Church, sino a chiamare a sé il periodo degli anni Novanta di band inglesi che riprovavano il brivido della sponda americana che si ispirava specificatamente a quella di Boston. E quella della band inglese Eat. Inoltre vi è presente l’ebbrezza data dai lavori di gruppi vicini allo slowcore, specialmente poi quando nei ritornelli a prevalere è un senso malinconico.

Non sono assenti gli antichi petali cupi, le bordate di tossine ma il tutto è più levigato, con la capacità di entrare anche nelle zone del country, quasi come una sfida, facilmente vinta, in quanto i due non hanno mai mancato all’appuntamento con l’ironia (come nel brano Cowboy Chords). Però in tutto questo esercizio artistico, le chitarre sono sempre lontane dal voler inghiottire il tutto: sono generose, attente e scrupolose, volenterose nel tradurre il passaggio delle loro esistenze. 

Ci vuole coraggio per scrivere un battito di ali, quando prima si descrivevano passi insicuri nella notte buia delle strade di Londra.

La testimonianza dell’età adulta, di un percorso che cerca lo sviluppo non può legarsi alla nostalgia.

Ci sono elementi di contatto con un’idea gloriosa e pericolosa: orchestrare l’esistenza con canzoni come una matrioska con l’intenzione di un contatto, come se i brani fossero pagine all’interno di una biblioteca vogliose di entrare nei palmi delle nostre mani.

Quando poi arriva Beautiful Creature si capisce come la radice rock americana sia capace di rivelare il lato post-punk di un tempo ma rivestito di una pellicola luminosa vicina all’incanto di un miracolo, perfettamente riuscito. Forte è la presenza degli anni Novanta in almeno la metà dei brani, tuttavia non come limite, bensì come palestra muscolare di assoli in grado di riportare il suono nel luogo che gli compete. E poi i Blue Aeroplanes che spesso fanno capolino, come lo fa la sensazione di un cabaret pop in cerca di un applauso timido, e il recitato di Trevor sale sul palcoscenico della pazzia, con citazioni, riferimenti davvero notevoli. Si danza con consapevolezza, si sorride e si trovano lacrime generose nella splendida e conclusiva This Town, vero gioiello intuitivo, capace di sorprendere e trascinare nell’intima località del ragionamento ogni  paura…

Fulcro, baricentro e freccia libera di separarsi dalle prigioni è la mastodontica Platitudes of Scorn, un trattato biologico, un vocabolario di bellezza che, partendo dalla psichedelia inglese, atterra nella ballad claustrofobica americana, per divenire il pezzo su cui collegare il lato solare e quello cupo dei due artigiani musicali, qui in totale armonia, per dare non solo al brano ma all’intero album un senso di epicità inevitabile.

Hanno colto il senso dello spargimento del tempo e lo hanno lasciato libero di voltare loro le spalle, senza acredine, senza eruzioni inutili di rabbia. Una clamorosa disciplina, resa possibile dalla loro stessa produzione, fa sentire il tutto come un lungo soffio dalle undici piume, dove ognuna rincuora le altre.

Piccole scintille del loro passato  si possono trovare nella penultima composizione, Built in Obsolescence, un crocevia, una pillola che dalla mente di un passato prova ad arrivare alla realtà. Amniotica, nevrotica, elettrica, è sicuramente epidermica in quanto sa come tenere un lasso di tempo enorme comprimendolo in un minutaggio che, seppur breve, è molto rappresentativo per quanto concerne il periodo che fu per loro glorioso.

Non si può rinunciare a Suburbs, quel secondo incanto sonoro che mette i brividi, per la scrittura che brucia le ostilità e ridà senso al vivere della provincia, a storie che rischiano di rimanere inascoltate.

Si può fare a meno del passaporto ma non dell’identità: ecco che la già citata This Town rivela antichi amori rimescolati (The Velvet Underground), che in un momento di freschezza riescono a ingannare il movimento delle lancette dell’orologio, per poi trasferirsi verso i Beatles e l’Inghilterra, per un ritorno a casa.

Che è perfettamente il fattore dominante di questo disco: partire dal limite (il lockdown), per trovare una nuova residenza: quella dentro di sé, per un risultato clamorosamente armonioso e intenso…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers






mercoledì 19 marzo 2025

La mia recensione: HA : ZE - Healers


 

HA : ZE - Healers


Partiamo abbordando un’amica, l’immaginazione, e mettendola al centro di una chiacchera, intensa, insieme alla storia, per poi ribaltare il tutto nella capitale della Lettonia, Riga, entrando nelle stanze, mentali prima e fisiche poi, di un musicista e produttore, figlio quasi incosciente di quella città che ha trafficato con la vita in modo davvero difficile durante la seconda guerra mondiale, con migliaia di ebrei condannati a una morte ingiusta.

In questo secondo album a nome HA : ZE, Tomass Bekeris continua il viaggio iniziato nel 2018 mediante l’esordio con quel Passage che tanto aveva colpito il Vecchio Scriba.

Però è bene sapere che l’artista in questione ha un lungo percorso nel campo dell’heavy metal per poi maturare, come un big bang improvviso, una dilatazione multipla e sorprendente.

Qui, in queste mastodontiche nove tracce, ci ritroviamo nel vapore acqueo di umore in cerca di un attimo di tregua, con la premura di entrare in generi musicali abituati solo a sfiorarsi. Si presentano in questo modo l’elettronica, l’hip hop, il post punk, il post rock, l’ambient, con una chitarra spesso midi a contornare il cielo di questo maremoto, incredibilmente lento, ma denso, come una tempesta che gioca ad avvicinarsi quasi di soppiatto. Lo spazio della ricerca si concentra nell’assimilazione delle distanze, delle rotte pianificate dai luoghi e dalle persone, per escludere totalmente la voce, come atto spirituale necessario per non macchiare queste proiezioni sonore.

Tomass, al fine di giungere al nucleo di una realtà balbuziente, rallenta l’apoteosi dei ritmi, così diseducativi, per iniettarvi dentro trame sonore che arrivano a sedimentare, sedurre, sventrare il superfluo e ricaricare l’anima di una nuova luce.

Si è sicuramente in quel lato del mondo dove l’ipnosi giunge dai luoghi impervi, dalla durezza del vivere contro una natura che non si piega. Ed è in quella stanza, in cui nulla è minuscolo, che le note di questo fuoriclasse compositivo trovano la perfetta simbiosi con i paesaggi non lontani dalla sua città: tutto è conversione, contatto, moto a luogo continuo. I loop, le dinamiche non fanno altro che portare l’intuizione della trama in una apertura obbligatoria, con arrangiamenti roventi ma tenuti a bada con classe e sapienza.

La varietà, che comprende dolcezza e spremute elettriche al limite della sopportazione (per chi non ama le chitarre anche solo leggermente pesanti), è al servizio di un prodigioso rigore: a vincere non è il ritmo, l’armonia e molto altro (compito soprattutto della forma canzone e della musica Pop), quanto piuttosto l’ascolto precedente a quei singoli attimi qui compressi, raggruppati e poi disseminati nelle multiple variazioni, per rendere l’ascolto un viaggio onirico ma all’interno di una attenta attività cerebrale. L’elettronica non è mai la pelle e tantomeno le ossa di questa architettura musicale bensì la colla che, dalla bassa temperatura a quella alta, riesce a mantenere connesse situazioni che riempiono il cielo della confusione il luogo perfetto per avvertire la drammaticità di queste composizioni.

Ed è caos. Petali industriali che perlustrano. Disagio che inquieta. Terrore fondente. Schizzi di luce e buio in avanzamento.

Il basso è lo strumento atto a rendere inospitale per i deboli di cuore l’ascolto in quanto rovista il ventre, mentre i sintetizzatori fanno da riassunto, con le chitarre a dipingere i fianchi del dolore.

L’orizzonte diventa la stagione del coraggio: chi ascolta Healer si mette al sicuro, nel rifugio antiatomico di queste pillole nervose in cerca di dolcezza, come colonna sonora inevitabile di smottamenti interiori.

Tomass Bekeris non dimentica l’effervescenza metal del suo passato ma la trasferisce, smussando la durezza e l’impeto, per portare il tutto anche in un quasi invisibile strato progressive, per amicarsi gli angeli delle note, che qui, in questo marchingegno ipnotico, trovano spesso momenti di calma e serenità. Ma assistiamo a degli splendidi imprevisti, a delle perversioni amare miracolose e miracolanti, che danneggiano, in modo straordinario, la sicurezza che l’ascolto potrebbe creare. Si spiegano così i mille inserti, minuscoli e sensuali, che seducono e rendono ibride le note che sembrano essere quelle “principali”.

Per arrivare a tutto ciò il musicista lettone chiama a sé otto artisti, ognuno di loro a rendere un cuneo, un sasso, un nervo che si appesantisce solo per provare a vibrare nello spazio vulnerabile della fantasia. Non ospiti, ma ulteriori architetti che ispessiscono il progetto iniziale.

Ci ritroviamo, dunque, davanti a bordate minimali e poi oggettive, con i transistor che si appiccano al suono, vero Re di questo incredibile progetto: non a sua immagine, tantomeno somiglianza, bensì un fuggitivo, un atleta fondista che scappa da quelle terre per trovare altre dimensioni.

Un impulso primitivo governa l’aspetto e l’assetto elettronico: tastiere ed effetti che spaziano nei secondi, mentre ricercano la ridondanza del delay per generare polvere e liquidi amniotici, con il risultato di assistere a un parto lungo nove brani e non nove mesi…

L’amarezza, l’indisciplina, l’onestà e il suo contrario brillano infelici in queste chitarre che riassumono ciò che il dream pop degli esordi faceva. Ma non poteva rimanere puro.

Il segreto della bellezza e, soprattutto, della ricchezza di questo effluvio sonoro è proprio da precisarsi nella volontà di mischiare le carte, i decenni musicali, di specificare la necessità di abbracci anche forzati ma sensati, per far divenire l’insieme un prefabbricato di cui abitare con meno paura l’interno…

Non si può che risultare viaggiatori, magari per molti perplessi e insoddisfatti, ma almeno il Vecchio Scriba è assolutamente convinto che ciò che si è esplorato sia un mistero geografico, storico, pieno di pulviscoli, di diademi, di strategie, di ingenuità in cerca di un'adozione, per finire, stremati, in una coccola infinita, piena di lividi…


Album of the year 2025


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

19 Marzo 2025


https://haze.bandcamp.com/album/healer

La mia Recensione: Loom - a new kind of SADNESS

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