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venerdì 20 giugno 2025

La mia recensione: Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin


 Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin


Nel caos del disagio, esiste un corrispettivo silente e un programmato attrito, che disarciona il sapore acre della rabbia, come un’ostinazione che va esposta, già crocifissa.

La band Edna Frau stupisce ancora una volta, per un fatto davvero desueto che va necessariamente spiegato.

L’album di esordio di quasi cinque anni fa, My Ego is Bigger than Yours, pareva un secondo se non addirittura un terzo lavoro, per la sua elaborata propensione a muoversi dentro zone multiple, come in cerca di un aeroporto musicale dove poter esporre la fiumana di idee, presentando la piacevole difficoltà nell’accogliere grandi canzoni ma forse strutturate come un atto di presenza. Non un difetto, per carità, tuttavia nella sua incandescente bellezza si fatica a sostare.

Invece ora pare di trovarsi davanti a un incrocio da attraversare con il rosso e il nero, senza indugi, con quella irruenza giovanile che vuole smuovere le acque del cielo.

Un progetto robusto, rovente, appassionato e sofferto, però il dolore non è un lamento bensì una benevola forma di integrazione con gli sviluppi di sogni, incubi, accertamenti, attestati ironici e il guitto di una mescolanza musicale ridotta e comunque maggiormente in grado di insinuarsi nell’accoglienza di un ascolto che è educato a considerare le basi trasformative di un post-punk connesso in modo diminuito all’elettrodark che era molto presente nelle tracce dell’esordio.

Ci si ritrova così nel viaggio ondivago tra la Germania, gli Usa e l’Inghilterra, come una lampada che acceca per poterci far vedere solo l’indispensabile.

Stupisce come i testi di Vins Baruzzi e le musiche di Andrea Fioravanti sappiano esercitare il bisogno di guardare verso la schiena del tempo e dei luoghi.

I punti di contatto ci riportano alla entusiasmante parentesi dei tedeschi Stimmen der Stille, così come agli Actifed, ai Brotherhood of Pagans e ai Sound degli esordi. 

Ma è solo una finta, una scusa, perché i ragazzi usano la musica come razzi, riflessivi, per colpire la stagnante inattività del cervello.

Si spiega in tal modo la scelta delle chitarre di essere acido rovente che spara note come una baionetta, e la voce che nella sua teatralità ritrova i Killing Joke per il tempo di creare storie nelle quali l’accattivante cattiveria è solamente l’inizio di un incendio.

Musica come una rasatura inevitabile, con il nerbo caldo di vicende colme di saturate delusioni. La band suona come se fosse un’edera incattivita dal clima, porta il suo carico vitaminico nelle frustrate di un drumming che non ci fa danzare bensì rovistare nella nostra esigenza di portare la malinconia altrove. Il basso è una fabbrica di olio nero, che conserva il sapore degli anni Ottanta, mentre la chitarra ci scaraventa nel silenzio di dita che parlano un linguaggio che ci conduce ad accogliere un’anima colta davanti a un palazzo mentale incandescente e in fase di tremolio.

La voce e la modalità del canto è un labirinto rimbalzante, scarnifica e ci riporta sull’attenti, ospitando una dolcezza elaborata da testi che, finalmente, sentenziano, e la morale viene esposta, come è giusto che sia.

Anche solo per tali motivi quest’opera andrebbe mummificata nelle nostre orecchie, sviluppando, coscientemente, un grazie ispirazionale e devoto. Ricchezza e fragore qui superano di netto le sei creature artistiche: la sensazione è quella di sostare nel tempio desertico di un silenzio che alza le tende, in quanto ogni traccia ha nel suo dna un senso fertile della disamina, del disgusto, palesando l’allergia per il pop e prendendosi, prepotentemente e in modo meraviglioso, la possibilità di divenire ipnosi, nel sodalizio del matrimonio perfetto tra l’arte espressiva e l’ascolto.

Un disco pazzesco, per l’abbondanza di estasi razionale, per gli ingressi di ricordi che sembrano attuali, per la teatralità dell’impianto musicale che raccoglie l’elettrica danza e la commistione raffinata di un rock maturo con il cappotto grigio e il bavero nero.

E quando le stilettate ci riportano agli amati Belfegore del Vecchio Scriba, ci accorgiamo della convivenza, in modo meno esagerato rispetto al primo album, di quella ondata magnetica di electro band degli anni Novanta che conquistavano le dance hall ma non l’anima…

Lo spazio americano del disco si nota quando si riscontrano punti di contatto con la formazione Californiana Burning Image: ed è un sorriso del petto mentre affitta graffi nella mente.

L’energia di queste sei canzoni va oltre la bellezza: il buon gusto del gruppo di essere meno dispersivo ha segnato la convivenza con la schiettezza del loro sentire interiore.

La perfezione è stata raggiunta: abbandonata definitivamente l’idea di uno spazio musicale italiano, i ragazzi diventano piloti di uno spazio emotivo che si abbina in modo ricco a quello mentale: fuggono, fanno scappare, per poi presenziare, nella addomesticata ma elaborata forma canzone, al loro diniego nel cratere centrale dell’album, che andremo ad analizzare tra poco.

Significativo, nel cantato di quasi tutti i ritornelli, l’accostamento, nobile e rilevante, con la modalità espressiva di Mark Burgess dei mai dimenticati The Chameleons.

Ma è solo un attimo: Vins si nutre del suo immaginario e sposa le trame stratosferiche di Andrea rovistando nel suo presente. Ecco l’ennesima sorpresa, l’irruente capacità di spodestare i paragoni.

Le note musicali sono tutte parole gravide di urgenza e metodo, i testi sono amplessi sonori che tengono per il bavero la pazienza: un disco che va di fretta ma che è fatto per anime che sanno espandere la calma…

Passiamo ora all’approccio di ogni truciolo di questo lavoro: fate spazio e abbracciate questa band perché le lacrime, quelle migliori, non sono mai rispettose…



Song by Song


1 - The Laundry Of Sins

“If you need color sin wash

or are you here for black or white?”


Una rovente corsa, imbastita da un basso velenoso, ci conduce a sentire una modalità di canto prossima al buon Vanian dei Damned, mentre la struttura corrosiva della chitarra pare nascondersi. Invece è un veleno che fa il paio con il testo, uno schiaffo all’esistenza altrui, alla volgarità e alla sporcizia attitudinale. Un maestoso palco dove vengono esposti, con saggezza, dei saliscendi dinamici ben strutturati e, in mancanza di una falsa eleganza, la band vira verso una totale e devastante sincerità…



2 . Slow, Be Gentle I Am Virgin

“It’s time for my heart to know who you are”


Il ritmo sincopato potrebbe convincerci che l’insieme stia per rallentare l’intensità ma, davvero, assistiamo al suo clamoroso opposto: l’enfasi si presenta nel basso gracchiante, nel cantato a un registro vocale più alto e solo apparentemente più melodico. Il drumming è un insieme di alberi che hanno la funzione di catturare l’eccitante esposizione di un antico post-punk in cerca di vendetta. Il titolo, ironico e sarcastico, è solo una goccia di un oceano razionale che, come un bandito, non desidera l’approvazione ma vittime…



3 - See Me

“Taking off with your dreams

throwing away problems”


Si va in Germania, si vibra con una propensione alla drammaticità che stuzzica la pazienza, con il crollo del muro della visibilità, con l’immenso approccio (che non è mai un didascalico trucco) di un ritornello che abbraccia la foresta nera e la Dusseldorf più meditativa. Una cavalcata anomala di una chitarra che si appiccica al rumore e all’evasione in modo spettrale…



4 - Again

“Again a bad choice

they will be tests of survival”


Un gioiello in odore di Echo & The Bunnymen nel suo inizio, ma poi capace di sostare nelle zone terremotate di uno stile chitarristico più attuale, con inclinazioni darkwave e l’anima imbevuta di riverbero. L’episodio più esasperato dell’intero progetto ci offre la possibilità di una riflessione attraverso il gioco perfetto di altalenanze espressive. Epica, devastante, soffocante, la canzone è la ciliegina, in fase di ipnosi, che ci fa andare il bolo alimentare nei canali della nostra mente.

Chicca assoluta con un finale che pare uscito da Juju dei Banshees…



5 - Day One

“Describe all your feelings and fears”


Ed eccoli i semi del primo album ripresentarsi: l’attenzione nella mescolanza espressiva ci conduce a una elettronica nascosta ma pulsante, mentre il binomio voce-chitarra crea un’abbondante inclinazione all’abbandono metafisico. Una rincorsa, un pianto esasperante viene accumulato in questa semplice ma granitica sequenza di accordi. Il suono diviene così l’anima di una mortalità in cerca di rifugio…



6 - Working On Myself

“Too many thoughts are running in circles inside me”


La conclusione presenta un ospite, un elemento noto per il suo percorso artistico nei Sorry Heels.

Il brano è una ballad cacofonica, un grido lento, un lancinante passo di danza negli echi elettronici e nei vapori di un drumming elettrico e in grado di abitare le zone impervie della lentezza.

Vengono esposti i sentimenti del dramma con stigmate pop innevate di disperazione, per consegnare alla conclusione il rispetto dato da inevitabili riflessioni.

Radiofonico (ovviamente per i circuiti interessati alla divulgazione di una rabbia ammaestrata), magnetico e fluttuante, quasi a due passi da un aspetto onirico che mai prima si presentava.

Uno stupore anche offerto da un ritmo che, quando rallentato, ci consente di sentire le varianti elettro-dark della band.

Quando la malinconia crea un sorriso, l’atmosfera diventa un innesto prolifico per il ricordo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Giugno 2025

Vins Baruzzi - Voce

Andrea Fioravanti - Chitarre e polistrumentista 

Federico Guardigni - Batteria

Dario Foschini - Basso


22 Dicembre Records


https://ednafrau.bandcamp.com/album/slow-be-gentle-i-am-virgin



domenica 15 giugno 2025

La mia recensione: The Neuro Farm - Ghosts

 

The Neuro Farm - Ghosts


Rebekah Feng - Voce, violino elettrico

Brian S. Wolff - Voce e chitarra

Tim Phillips - Tastiere e sound-design

DreamrD - Batteria e percussioni


L’assenza, la distanza e la mancanza non si possono toccare ma loro (The Neuro Farm), invece, lo sanno fare perfettamente, arrivando a scuotere l’anima.

Che in questo caso è indiscutibilmente persa.

E per semplificare il tutto si potrebbero definire fantasmi i personaggi che gravitano all’interno di queste sette tracce della band americana.

Bellezza delirante, soffocante, in congiunzione con strali magnetici in grado di generare il senso di imprigionamento e liberazione, nel gioco di un ossimoro che rende valido il nutrimento di paralisi emotive.

Le influenze, evidenti e virali, ci conducono nei percorsi di artisti come Chelsea Wolfe, Midnight Juggernauts, Tori Amos, Nine Inch Nails, Pj Harvey, Cranes e molti altri, ma con questo quartetto ciò che stordisce non è l’evocazione bensì l’invasione, quella che ottunde, svela, rimarca il diritto di sondare molteplici attitudini che non troverete nell’elenco degli artisti sopra citati. Nel caos emozionale la bellezza emerge come una sopravvissuta che ha come interlocutore un fantasma e i suoi fratelli di sangue, in un luogo imperfetto per poter aver paura di non mantenere l'equilibrio, nel quale la stabilità è un impiccio. Musica per la psiche, per flussi che perdono consapevolezza e bave, ronzando continuamente come una dolce poesia piena di trucchi e trame sinistre: pare finta la dolcezza, per poi rivelarsi, invece, il basamento di un frutto generoso che, attraverso la scelta di generi musicali in contrasto, generano come risultato la liberatoria per una follia sudata ma soddisfatta. Il tempo, in queste sette composizioni, disturba, provoca, lenisce, disinfetta e pianta la bandiera negli incroci di ascese e discese spirituali che non hanno fine…

Tutto viene gettato sui contorni di uno specchio, accogliente, infaticabile, per dare alla molteplicità degli agganci tra il violino elettrico e la chitarra con le croste un senso di annessione che è formidabile.

Le stranezze diventano abiti, le note un afflato primario, i cambi ritmo la piazza che spiazza e impazza, nel corollario di una serie di tremori familiari. In questo gli All About Eve sono proprio i genitori di tali inclinazioni. 

Pubblicato il 10 di giugno del 2014, questo eccelso lavoro mostra i graffi di una darkwave priva di autocitazioni, con la cupezza in grado di raggiungere l’alternative, l’art pop e il cabaret graffiante dei primi anni ’70. Le armonie vocali (molto diverse tra quelle di Rebekah e di Brian), sono sì cupe ma mistiche, misteriose, come stantuffi sul pentagramma che pare un gomitolo di seta in una notte buia.

L’epicità è sempre controllata sino a quando i ritornelli offrono una chance di maestosa grandezza, tuttavia le eleganti fate non aprono poi di molto le labbra, come se la sontuosità potesse essere percepita più che udita…

Si ha la sensazione che rispetto al lavoro di esordio, Ghosts, sia una missiva lenta che, pur graffiando molto, conserva il garbo e il rispetto per il loro stesso futuro. Ma, chiaramente, parlando di fantasmi (meglio, ripeto, di anime perse), questo progetto è un sistema didascalico per fare della memoria, della paura, dell’esperienza un salvagente che possa smettere di generare scontri.

Pillole, grattugie, ventagli, punture in liquidi amniotici spesso inebetiti e mai rassicurati: questo è il vero valore di tali complessità. La drammaticità è un allarme e non una difesa capricciosa: basti pensare a come tutte le chitarre si allineino sia al ritmo che all’espansione circolare melodica, mentre il violino diventa il sunto di un alveare di giovani sirene…

La perdita dell’orientamento, in presenza dei fantasmi, nel magnetico magma di queste composizioni, ci presenta i suddetti spiriti come predecessori e testimoni di arguzie e strategie, perché ogni brano è una farfalla che con il suo volo porta via una stanza della propria mente…

Andiamo ora a visitare, con lentezza e devozione, tutte queste sette orme magnetiche…



Song by Song



1 - Black Wings


L’apertura è un condensato di atmosfere, con il riff di chitarra ripiegato su se stesso, in una mastodontica oscurità, e il cantato di Rebekah che ci porta al primo ep dei Cranes e di quella cantante in grado di fare del cielo un continuo temporale…

La cifra stilistica è data dall'apparente mobilità darkwave, ma il solo di violino, diamante dalla bellezza maligna, ci convoca a teatro per gittate di cabaret e monologhi medievali. Austera, violenta, una gramigna ad aprire la coscienza di incontri spiacevoli…



2 - Paralysis


Spesso l’ipnosi è magnete senza controllo, attraverso beats che paiono insistere e coniugarsi a trame sottili di synth deformati e deformanti, con il violino malinconico che si appiccica alla voce di Brian, ma con la sorpresa pazzesca di una lunga attesa prima della seconda strofa: rimane l’impianto principale, ma la voce sembra scomparire e le chitarre e il violino danzano negli anfratti del semibuio. Poi il ripristino e la cantilena diventa un via libera orgasmatico che rende la paralisi del titolo l’unica disciplina davanti al tutto…

Brano complesso, liturgico, permeato soprattutto nel finale di una tensione che asciuga il respiro…



3 - Skeletons


Una ninnananna post-punk come non se ne sentivano da diverso tempo con, nel ritornello, un impasto sonoro che impedisce al ritmo di essere gradevole, uno spettacolare e voluto disturbo per poi riprendere con l’arpeggio, il cantato e il precedente drumming quella linearità che forse crea meno problemi all’ascolto. Tutto viene governato da desideri malinconici, con programmati voli dati da arpeggi e contraltari del basso per fare del brano una supposta che vuole appoggiarsi sull’incubo che vive nei suoi solchi. Il violino va a far morire le parole e le lacrime paiono un grazie liberatorio…



4 - Submission


L’ipnosi del Trip-Hop in cerca di furtive immersioni gotiche si stabilizza nel drumming concitato e in una chitarra balbuziente tra echi e distorsioni calibrate con gocce di wah wah. 

Brian nel ritornello tocca i confini di due stalagmiti storiche degli anni ’70: John Foxx e Stan Ridgway ed è ipnosi e pianto, indiscutibile e inevitabile…

Il testo enfatizza e la musica sfugge, il cantato percepisce l’insieme e il brano diventa il funerale di ogni calma sperata…



5 - Falling


Nei primi anni 2000 le ballate gotiche prevedevano l’arpeggio e l’inclusione di piccoli assoli per saldare la convinzione che anche così si potesse arrivare alla massa. Questi ragazzi, invece, distribuiscono novità e fastidi con un drumming sincopato che spaia le carte, mentre nel finale il cantato indietreggia, viene quasi nascosto, e una chitarra piena d’acqua fa affogare il suono per poi ritornare con un lacerante sibilo circolare…



6 - Underground


Il penultimo episodio è la summa di un calvario lento e graffiante, con il testo che racconta l’oscura quotidianità dando all’inspirazione il ruolo di atterrire. Poi la sua lenta tensione guarda al cielo con aria di sfida mentre la chitarra, robotica, ma mai statica, si prende l'onere di ispessire la drammaticità. 



7 - Resolution


La fine vede la cacciata dal palco delle voci, affidando alle trame, intrecciate di suspense e malinconia, il compito di farci immergere in un’aria stranamente pulita, positiva, con i synth che sospendono il percorso precedentemente compiuto per esaltare la sparizione dei fantasmi… Un finale che profuma di epilogo nel quale i sentimenti più sconvenienti si riposino e il sogno di un accesso al futuro, più sereno, possa perlomeno avere una chance…


Epico, sinuoso, si insinua come una gramigna il cui possesso non può che generare un maledetto piacere…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15th June 2025


https://theneurofarm.bandcamp.com/album/ghosts



giovedì 15 maggio 2025

La mia Recensione: God in a Black Suit - Thresholds


 

God in a Black Suit - Thresholds


Esiste una prospettiva antica, radicata tra i sentieri autunnali, che sorregge e spinge la memoria a essere un fertilizzante del tempo. E ci sono luoghi che hanno la pelle esatta, intensa, pura e precisa per sostenere questo. Matera è uno scoglio che vive in alto, non nei pressi del mare bensì delle nuvole, capace di nutrire, generazione dopo generazione, persone e artisti votati all’uscita da quei luoghi. Una band perfetta per rendere il tutto chiaro è la protagonista del suo secondo episodio, dopo l’omonimo album di esordio, qui in uno stato di grazia totale e imbarazzante: essere in grado di far sembrare le loro composizioni dei voli angelici di stratagemmi lontani è davvero un miracolo, che rende la musica italiana davvero fortunata. La formazione, così apparentemente distante dalla Basilicata, con queste tracce attutisce invece il dolore del desiderio di appropriarsi di sogni che la spostino e spicca il volo, addentrandosi, nello specifico, in una mutazione sensoriale nel modo di concepire, strutturare e finalizzare le canzoni. Una crescita evidente, che materializza i loro impeti, in una sorta di educazione forzata per poter raggiungere uno status quo dove il suono possa regnare, principiare e strutturare queste malinconiche pieghe umorali in cerca di luce. Una corsa nelle zone antiche di una Germania che nella metà degli anni Settanta già creava crossover, per fare della purezza solo un vestito, ma non il nucleo della inclinazione artistica. La band Materana fa compiere sobbalzi, induce la memoria a divenire fertilizzante e cura, una dance floor dell’anima con il bisogno di sementi notturne. Rimane di questa formazione la volontà di non essere inglobata nel ghetto gotico, specialmente quello italiano, in quanto (chiaramente) tutte le composizioni sono sguardi, ascolti, dinamiche di sogni che mirano a fissare il benessere e il senso non in un genere preciso, bensì in una zona in cui tutto sia fluttuante e non rigido. 

Indubbiamente flussi di magnetico post-punk spuntano e stordiscono, ma non è mai definitivo e tantomeno sovrastante. Si trovano, così, metalli preziosi nelle pietre del gruppo, cinque pittori di favole con l’intenzione di far vibrare i corpi ma, soprattutto, di seminare tensione, dolcezza, per fare dell’insieme un perimetro maggiormente complesso rispetto a quanto potrebbe sembrare a un ascolto veloce.

No, calma: con i God in a Black Suit si deve essere lenti, votati alla pazienza, sentire il loro nomadismo entrare nel desert rock, così come nel post-rock, sino a sfiorare la psichedelia americana poco conosciuta degli anni Settanta.

Se lo si pratica si noterà come la band dia sempre l’impressione di isolare ogni singolo strumento al fine di poterlo indirizzare verso l’esaltazione personale.

Il basso di Annalisa Laterza è carta vetrata, una ghigliottina pesante dai fianchi conturbanti, in grado di far arrivare le note al ventre.

Bruno Pantone, chitarra e testi, è un fachiro, un elegante trapezista che disegna tracce nel cielo tenendo nei suoi polpastrelli una lunga scia di maestri ai quali non si inchina, offrendo, invece, trame complesse e al contempo semplici come un respiro.

Gianluca Natrella pare arrivare da Boston, in un giorno nel quale la noia va circondata con metrica gentilezza, ma anche con quella forza che struttura il piacere di sostenere il tempo attraverso le sue bacchette  micidiali.

Matteo Demma, voce e testi, è un folletto anacronistico, con la voce che passa dal registro terrorifico a quello prudente, tra sussurri e lapidi gutturali.

Pietro De Ruggieri, infine, con i suoi tappeti sintetici riesce a compattare la fiumana di impulsi nevrotici con maestosa eleganza: potresti crederlo spesso assente e invece è lì a fare da cerniera al tutto.

Una ipnosi continua fatta di ombre antiche e luci moderne, con i nervi che sfiorano la lealtà, la abbattono e fuggono, come angeli senza paure. Quando accelerano il ritmo, puoi quasi sentire il prurito esistenziale, la solitudine e l’ansia cercare ossigeno, immagini e luoghi sui quali poter respirare una ricercata sonorità. I testi, scritti a quattro mani, sono una mappatura fuoriuscita da questo mattone e cilindro sonoro che sa correggere anche la tattica: la scaletta è perfetta in quanto non c’è l’annoso problema del far avvicendare canzoni più lente con quelle più veloci, ma la volontà di fare della tensione un via, un traguardo, una ostinazione che rende questa formazione davvero unica nel panorama italiano. Il gioco delle voci, il controcanto con quella femminile, gli assoli piazzati in punti strategici dell’album ci fanno intendere l’ampiezza del loro immaginario. Un arazzo volumetrico, eclettico, con audacia innovativa che conserva, pienamente, la memoria di lunghi ascolti che qui vengono tradotti, esplorati e infine evoluti.

La ricchezza principale giunge dall’estetica apparentemente grezza, però, lo si deve ammettere, la produzione diviene una colla saggia per offrire raffinatezza e gioco di alchemici fili temporali.

Un lavoro che si presta allo studio: le singole tracce sono sentieri, ma alla fine dell’ascolto uno spazio impensabile si materializza nell’anima. Il dolore, la frustrazione, la fatica qui non sono un elenco, un grido, bensì il principio di una rivolta, di un passaporto morale da inventare e i cinque dimostrano compattezza e lealtà reciproca. Si scivola nelle lancette, tra brividi e stupori, per silenziare la noia, perché, innegabilmente, in questo minutaggio artistico troviamo maiuscole e minuscole intersezioni spirituali.

Ora non ci resta che andare a prendere ognuna di queste composizioni e ringraziare il loro contenuto…







Song by Song



1 - Thresholds

“There are Thresholds beyond, where time does not matter”

Una chitarra con la polvere e una lacrima costante costruiscono un arpeggio per principiare un lungo discorso che si espanderà con le altre tracce. Il crooning, inizialmente in inglese, si conclude in lingua italiana, mentre l’arpeggio continua a ricordarci l’ambient post-rock  della seconda metà degli anni Novanta. È attesa, è mistero, è un tuono lento, meraviglioso…



2 - A New Life

“The weight of these days is bearable, I don’t need a normal life”

Petali acidosi escono da una gabbia e corrono con trepidazione, nella cattura rapace di una nuova esistenza, mentre una miscela di Killing Joke e Au Pairs ci fa sentire in una cantina di un tempo remoto. Ma nel ritornello ci rendiamo conto di una freschezza che l’assolo che viene subito dopo esalta. È metamorfosi che cerca un clima. E lo troverà…


3 - To Forget

“I’ve forgotten all the affection from you”

Il cantato governa la prestigiazione di dita in grado di visitare il suono di New York caro agli amanti della No Wave per poi spiazzare mediante cespugli sonori che ci portano ai giorni nostri, con il talento che forma un incontro di forze centripete verso le rocce della città di Matera: è corsa con la bava alla bocca, in un’allucinazione fuorviante, perfettamente lubrificata dal tono semi-pop del ritornello…


4 - I Remember You

“I stay here completely alone, licking my wounds and counting my scars”

Manchester chiama, Matera risponde e Londra applaude. Con i Sound di Borland che piangono e abbracciano la band materana per questa esplorazione che, iniziando attraverso un basso sexy ma allo stesso tempo vibrante, porta a sé la chitarra dalle piume dream pop. Ed è estasi rapida, da vivere mentre il drumming, come memoria belga della migliore coldwave, sintetizza gli animi e li connette alla perfezione. Se The Edge fosse stato più interessato a variare il suo stile, qui avrebbe abbracciato Bruno Pantone…



5 - Dirt

“All you touch turns to dirt”

C’era la nuova psichedelia gallese, agli albori degli anni Novanta, che cercava di sposarsi con le trame nefaste, lente e aguzzine dei Dirty Boys, in una miscela pericolosa e sapiente. La successione armonica conduce a una distorsione limitata, con la batteria che è una frusta che punisce e governa l’ondata balsamica di un cantato che, come uno spirito sotto l’effetto di un acido mentale, sfida la chimica, domandola. La vetta dell’intero lavoro si posiziona qui, con la seducente successione di note che partono dai Southern Death Cult per planare fino ai Gorky’s Zycotic Mynci.





6 - One More Time

“Silence like a bomb, I can not think, just one breath and another”

Non mancano primitivi movimenti industriali che si incrociano con lo shoegaze americano, il tutto oliato da una trama sinistra, che si sospetta possa uccidere la tranquillità di un pensiero innocente. Velenosa, acuta, la canzone mostra come le latitudini di percorrenza del loro stile sia un semaforo del cielo senza sosta…


7 - Sunshine


“All on fire everywhere”

Kitchens of Distinctions e i Church degli esordi sono rapiti dal fatto che la pillola terremotata che si innesta nei nervi sia italiana: il suono, opaco, snervante e vibrante, traduce trame spirituali e lascia al basso il compito di bombardare la melodia per spegnere la notte…



8 - Whisper

“Air and sun, which I’ve never looked for”

L’acqua del pensiero sale le scale: una chitarra sporca brama le tracce di un basso che semplifica il testo, mentre le voci, qui spesso raddoppiate, generano una serie di finestre sensoriali che, iniziando da Peter Murphy, giungono a casa dei Catherine Wheel, in un giorno in cui il sole sciopera…



9 - Invisible

“I lag behind, I’m not in step”

Quando la canzone si fa covo, i respiri diventano precisi: come se fosse stata partorita dagli Adorable di Vendetta,  tenta di fare un dispetto e va a nascondersi e a creare una propria identità. Il contrasto della voce maschile con quella femminile regala compattezza e sogno, mentre si evidenziano installazioni cognitive di un pezzo che cerca di scrivere una nuova storia per il gruppo. Da qui la sua freschezza e unicità, un allargare i cordoni delle possibilità quasi bussando a un indie pop che attende voluttuosamente che il combo materano non se ne vada…



10 - Together

“Our love is a big cage, from which I don’t want to escape”

Da dove eravamo partiti? Dalla band che con Nag Nag Nag aveva sconquassato il mondo. La formazione di Matera fa lo stesso: inizia da qualcosa di noto per volare sull’ignoto, in un processo nomade davvero ben strutturato, chiamando a sé una pletora di farfalle truccate con eyeliner e smalto rosa, per lucidare paragoni che si possono evitare. Qui a vincere è il nerbo, la materia crassa di una spada che ferisce la pelle e ci ricorda come i Bauhaus non abbiano mai terminato la loro presenza terrena. Ecco allora la continuazione di quella vicenda ormai mitologica appaiarsi ai recenti Bambara, unendo perfettamente Regno Unito e America . Un delirio come un mantra da ossidare, totalmente…



11 - Goodbye

“You don’t know, you are paralyzed, you don’t know why, will you survive?” 

L’arte può creare pruriti, far arrossare la pelle e spossare, che è cosa buona e giusta. Il ritmo rimane alto pure qui, ma si ha la certezza che il quintetto non abbia saputo fare a meno del talento della decomposizione, in un puzzle frenetico e morboso, per finalizzare il tutto in una deriva magneticamente fissata per sempre…



12 - Breath

“We will love each other, without limits or constraints, I want to dream”

Una chitarra sorniona, un basso umido, una batteria secca e umorale e la voce amniotica e crudele sul suo altare sono i protagonisti di una composizione che circonda lo Shoegaze inglese degli esordi e cerca un braccio psichedelico per rinunciare agli eccessi. Raccolta, sottile, la canzone pressa la memoria e unisce tre decadi in un ponte dove gli occhi notano, tra le corsie di un arrangiamento brevissimo, il futuro della band…



13 - End

“We had nothing, and nothing had that sound”

Il dolore arriva, come una sentenza: l’album deve finire e i ragazzi esplorano il suono, il gioco dei rintocchi, del ritmo sincopato e la puntura di un’attesa che paralizza. Suona larga, la composizione, come un cannocchiale notturno dopo una pioggia infinita. Basso, batteria e voce si ritrovano tra i rintocchi delicati ma strazianti di una chitarra che ci fa lacrimare. In questa rarefazione esplorativa la lentezza diventa un brivido che sentenzia: questa band ha toccato la sua perfezione, come un regalo definitivo per la nostra esistenza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15 Maggio 2025


https://godinablacksuit.bandcamp.com/album/thresholds


https://open.spotify.com/album/47iKT2U28JPKhuewrlM3Pk?si=Y3DHwOHvQDm90J8fSOyvxw


https://music.apple.com/gb/album/thresholds/1810903637



My review: Edna Frau - Slow, Be Gentle I Am Virgin

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