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giovedì 28 agosto 2025

My review: Eirēnē, Paris Alexander & The Stave Church - Inner Sanctum


 

Eirēnē, Paris Alexander & The Stave Church - Inner Sanctum


When a sensitive soul seeks contact with truth, it can only note, through a laborious mnemonic journey, what it has chosen, experienced and endured, including a mask, inevitably the primary source of secrets and misinterpretations.

The wonderful Eirene writes a frighteningly truthful text for everyone, translating herself and immersing us in awareness, in an enchanting game of rebounds and intuitions, which manifest superiority over what was a concrete block for her new propensity for truth.

To achieve all this, together with her life and musical partner Paris Alexander and Bruce Courtney (better known for his project The Stave Church), she has created a song that mirrors the sky, an exciting shower of sculptural tremors, with her vocal range fluctuating and transporting the music to a territory where the dark hemisphere is found, inevitably forced to draw tepid rainbows, which are the perspective of a text that aims to be sincere and proactive.

A sound base that impregnates fear with its dark electro flashes and unusual rhythmic pauses for Paris, who gives free rein to her creativity here, mixing experience and knowledge to better allow Eirēnē new ways of singing, with vibratos, elongated syllables, in a march with ever-present EBM chromosomes, while at the same time knowing how to translate the epic nature of Baroque music into an electric guise, achieving an incredible level of seduction as a result.

A song with two sides, in which it is wonderful to see how skilfully Bruce has managed to insert himself, marking the whole with his recognisable style. 

After the very first moments, in which Dead Can Dance seem to kick things off, an amniotic electric forest arrives, with skeletal chords and hypnotic black clouds created by superb synth work. 

The words become a dumping ground, a funnel, a stranglehold, and guilt and shame are set in a magnetic flow that leaves no escape. The notes become heavy, dancing like a naive attempt to escape, and the project envisages silent tears set in the glare of the singer's high register, ending up absorbing and swallowing them.

Witnessing a bow, a journey towards choices, both in life and art, is an honour that we must know how to transform: the two British artists and the American artist have done so, with the certainty that in their artistic composition, the true, the false, the dark and the dream of better times have been perfectly connected to an inevitable and desired catharsis, annexing to the pleasure of writing the duty of cleansing the soul.

The music, consequently, was a perfect partner for the lyrical side, making us close our eyes and transporting the dance into the dark corners of our refusal to believe in who we are.

A song like a fan: it refreshes us, but it does not make us forget the difficulties of life.

For this reason, the Old Scribe declares that the trio has written a choral manifesto, pointing the way forward in a captivating manner, freezing time and giving everyone a chance to improve the quality of our lives.

And it is definitely much more than just music...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28th August 2025


Out tomorrow



La mia recensione: Eirēnē, Paris Alexander & The Stave Church - Inner Sanctum


 

Quando un’anima sensibile cerca il contatto con la verità non può che annotare, tramite un faticoso percorso mnemonico, quello che ha scelto, vissuto e subito, tra cui anche una maschera, inevitabile, prima fonte di segreti e di male interpretazioni.

La meravigliosa Eirēnē scrive un testo spaventosamente veritiero per tutti, traduce se stessa e ci fa immergere nella consapevolezza, in un gioco incantevole di rimbalzi e guitti, di manifesta superiorità nei confronti di ciò che era un blocco di cemento per la sua nuova propensione al vero.

Per fare tutto questo crea, insieme al suo partner di vita e musicale Paris Alexander e a Bruce Courtney (meglio conosciuto con il progetto The Stave Church) una canzone che è uno specchio del cielo, una pioggia emozionante di scultoree propensioni al tremito, con il suo range vocale che fluttua e trasporta la musica in un territorio dove l’emisfero cupo si trova, giocoforza, costretto a disegnare tiepidi arcobaleni, che sono la prospettiva di un testo che vuole essere sincero e propositivo.

Una base sonora che ingravida la paura con i suoi flash dark electro e pause ritmiche inconsuete per Paris che qui dà sfogo alla sua creatività, mescolando l’esperienza e la conoscenza per meglio permettere a Eirēnē modalità nuove nel canto, con vibrati, sillabe allungate, in una marcia con i cromosomi ebm perennemente presenti, e al contempo sapendo tradurre l’epicità della musica barocca con un abito elettrico, conseguendo come risultato un incredibile livello di seduzione.

Un brano con due facce in cui è meraviglioso constatare come Bruce sia stato abile a incunearsi, marchiando l’insieme con il suo stile riconoscibile. 

Dopo i primissimi istanti nei quali i Dead Can Dance sembrano dare il via al tutto, arriva una foresta elettrica amniotica, con accordi scheletrici e nuvole nere ipnotizzanti conferiti da un superbo lavoro dei synth. 

Le parole diventano una discarica, un imbuto, una stretta al collo, e i sensi di colpa e la vergogna vengono incastonati in un magnetico flusso che non lascia scampo. Le note si fanno grevi, si danza come ingenuo tentativo di fuga e il progetto prevede lacrime mute incastonate nei bagliori del registro alto della cantante, finendo per assorbirle e inghiottirle.

Essere testimoni di un inchino, di un cammino nei confronti delle scelte, di vita e artistiche, è un onore che dobbiamo saper trasformare: i due artisti inglesi e quello americano lo hanno fatto, con la certezza che nella loro composizione artistica il vero, il falso, il nero e il sogno di tempi migliori siano stati perfettamente connessi a una catarsi inevitabile e voluta, annettendo al piacere di scrittura il dovere di una pulizia dell’anima.

La musica, conseguentemente, è stata una partner perfetta per il lato lirico, facendoci chiudere gli occhi e trasportando la danza negli angoli bui del nostro rifiuto di credere in ciò che siamo.

Una canzone come un ventaglio: rinfresca, ma non ci fa dimenticare le difficoltà della vita. 

Per questo motivo il Vecchio Scriba dichiara che il trio ha scritto un manifesto corale, ha indicato la strada e lo ha fatto in modo accattivante, paralizzando il tempo e dando a tutti una chance per migliorare la qualità delle nostre esistenze.

Ed è decisamente molto più che musica…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Agosto 2025


In uscita domani



domenica 15 giugno 2025

La mia recensione: The Neuro Farm - Ghosts

 

The Neuro Farm - Ghosts


Rebekah Feng - Voce, violino elettrico

Brian S. Wolff - Voce e chitarra

Tim Phillips - Tastiere e sound-design

DreamrD - Batteria e percussioni


L’assenza, la distanza e la mancanza non si possono toccare ma loro (The Neuro Farm), invece, lo sanno fare perfettamente, arrivando a scuotere l’anima.

Che in questo caso è indiscutibilmente persa.

E per semplificare il tutto si potrebbero definire fantasmi i personaggi che gravitano all’interno di queste sette tracce della band americana.

Bellezza delirante, soffocante, in congiunzione con strali magnetici in grado di generare il senso di imprigionamento e liberazione, nel gioco di un ossimoro che rende valido il nutrimento di paralisi emotive.

Le influenze, evidenti e virali, ci conducono nei percorsi di artisti come Chelsea Wolfe, Midnight Juggernauts, Tori Amos, Nine Inch Nails, Pj Harvey, Cranes e molti altri, ma con questo quartetto ciò che stordisce non è l’evocazione bensì l’invasione, quella che ottunde, svela, rimarca il diritto di sondare molteplici attitudini che non troverete nell’elenco degli artisti sopra citati. Nel caos emozionale la bellezza emerge come una sopravvissuta che ha come interlocutore un fantasma e i suoi fratelli di sangue, in un luogo imperfetto per poter aver paura di non mantenere l'equilibrio, nel quale la stabilità è un impiccio. Musica per la psiche, per flussi che perdono consapevolezza e bave, ronzando continuamente come una dolce poesia piena di trucchi e trame sinistre: pare finta la dolcezza, per poi rivelarsi, invece, il basamento di un frutto generoso che, attraverso la scelta di generi musicali in contrasto, generano come risultato la liberatoria per una follia sudata ma soddisfatta. Il tempo, in queste sette composizioni, disturba, provoca, lenisce, disinfetta e pianta la bandiera negli incroci di ascese e discese spirituali che non hanno fine…

Tutto viene gettato sui contorni di uno specchio, accogliente, infaticabile, per dare alla molteplicità degli agganci tra il violino elettrico e la chitarra con le croste un senso di annessione che è formidabile.

Le stranezze diventano abiti, le note un afflato primario, i cambi ritmo la piazza che spiazza e impazza, nel corollario di una serie di tremori familiari. In questo gli All About Eve sono proprio i genitori di tali inclinazioni. 

Pubblicato il 10 di giugno del 2014, questo eccelso lavoro mostra i graffi di una darkwave priva di autocitazioni, con la cupezza in grado di raggiungere l’alternative, l’art pop e il cabaret graffiante dei primi anni ’70. Le armonie vocali (molto diverse tra quelle di Rebekah e di Brian), sono sì cupe ma mistiche, misteriose, come stantuffi sul pentagramma che pare un gomitolo di seta in una notte buia.

L’epicità è sempre controllata sino a quando i ritornelli offrono una chance di maestosa grandezza, tuttavia le eleganti fate non aprono poi di molto le labbra, come se la sontuosità potesse essere percepita più che udita…

Si ha la sensazione che rispetto al lavoro di esordio, Ghosts, sia una missiva lenta che, pur graffiando molto, conserva il garbo e il rispetto per il loro stesso futuro. Ma, chiaramente, parlando di fantasmi (meglio, ripeto, di anime perse), questo progetto è un sistema didascalico per fare della memoria, della paura, dell’esperienza un salvagente che possa smettere di generare scontri.

Pillole, grattugie, ventagli, punture in liquidi amniotici spesso inebetiti e mai rassicurati: questo è il vero valore di tali complessità. La drammaticità è un allarme e non una difesa capricciosa: basti pensare a come tutte le chitarre si allineino sia al ritmo che all’espansione circolare melodica, mentre il violino diventa il sunto di un alveare di giovani sirene…

La perdita dell’orientamento, in presenza dei fantasmi, nel magnetico magma di queste composizioni, ci presenta i suddetti spiriti come predecessori e testimoni di arguzie e strategie, perché ogni brano è una farfalla che con il suo volo porta via una stanza della propria mente…

Andiamo ora a visitare, con lentezza e devozione, tutte queste sette orme magnetiche…



Song by Song



1 - Black Wings


L’apertura è un condensato di atmosfere, con il riff di chitarra ripiegato su se stesso, in una mastodontica oscurità, e il cantato di Rebekah che ci porta al primo ep dei Cranes e di quella cantante in grado di fare del cielo un continuo temporale…

La cifra stilistica è data dall'apparente mobilità darkwave, ma il solo di violino, diamante dalla bellezza maligna, ci convoca a teatro per gittate di cabaret e monologhi medievali. Austera, violenta, una gramigna ad aprire la coscienza di incontri spiacevoli…



2 - Paralysis


Spesso l’ipnosi è magnete senza controllo, attraverso beats che paiono insistere e coniugarsi a trame sottili di synth deformati e deformanti, con il violino malinconico che si appiccica alla voce di Brian, ma con la sorpresa pazzesca di una lunga attesa prima della seconda strofa: rimane l’impianto principale, ma la voce sembra scomparire e le chitarre e il violino danzano negli anfratti del semibuio. Poi il ripristino e la cantilena diventa un via libera orgasmatico che rende la paralisi del titolo l’unica disciplina davanti al tutto…

Brano complesso, liturgico, permeato soprattutto nel finale di una tensione che asciuga il respiro…



3 - Skeletons


Una ninnananna post-punk come non se ne sentivano da diverso tempo con, nel ritornello, un impasto sonoro che impedisce al ritmo di essere gradevole, uno spettacolare e voluto disturbo per poi riprendere con l’arpeggio, il cantato e il precedente drumming quella linearità che forse crea meno problemi all’ascolto. Tutto viene governato da desideri malinconici, con programmati voli dati da arpeggi e contraltari del basso per fare del brano una supposta che vuole appoggiarsi sull’incubo che vive nei suoi solchi. Il violino va a far morire le parole e le lacrime paiono un grazie liberatorio…



4 - Submission


L’ipnosi del Trip-Hop in cerca di furtive immersioni gotiche si stabilizza nel drumming concitato e in una chitarra balbuziente tra echi e distorsioni calibrate con gocce di wah wah. 

Brian nel ritornello tocca i confini di due stalagmiti storiche degli anni ’70: John Foxx e Stan Ridgway ed è ipnosi e pianto, indiscutibile e inevitabile…

Il testo enfatizza e la musica sfugge, il cantato percepisce l’insieme e il brano diventa il funerale di ogni calma sperata…



5 - Falling


Nei primi anni 2000 le ballate gotiche prevedevano l’arpeggio e l’inclusione di piccoli assoli per saldare la convinzione che anche così si potesse arrivare alla massa. Questi ragazzi, invece, distribuiscono novità e fastidi con un drumming sincopato che spaia le carte, mentre nel finale il cantato indietreggia, viene quasi nascosto, e una chitarra piena d’acqua fa affogare il suono per poi ritornare con un lacerante sibilo circolare…



6 - Underground


Il penultimo episodio è la summa di un calvario lento e graffiante, con il testo che racconta l’oscura quotidianità dando all’inspirazione il ruolo di atterrire. Poi la sua lenta tensione guarda al cielo con aria di sfida mentre la chitarra, robotica, ma mai statica, si prende l'onere di ispessire la drammaticità. 



7 - Resolution


La fine vede la cacciata dal palco delle voci, affidando alle trame, intrecciate di suspense e malinconia, il compito di farci immergere in un’aria stranamente pulita, positiva, con i synth che sospendono il percorso precedentemente compiuto per esaltare la sparizione dei fantasmi… Un finale che profuma di epilogo nel quale i sentimenti più sconvenienti si riposino e il sogno di un accesso al futuro, più sereno, possa perlomeno avere una chance…


Epico, sinuoso, si insinua come una gramigna il cui possesso non può che generare un maledetto piacere…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

15th June 2025


https://theneurofarm.bandcamp.com/album/ghosts



venerdì 21 marzo 2025

La mia recensione: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


C’era una volta e c’è ancora un luogo nel Wiltshire, nel sud dell’Inghilterra, non lontana da Bath, una località resa famosa da una formazione post-punk e darkwave (Bolshoi), che di nome fa Trowbridge e che ha portato per un pò, nel suo ventre, le prelibate peripezie del quartetto.

Nel 1990 la band si sciolse e ora il Vecchio Scriba si accinge a portarvi in un oceano in fuga, lenta, verso il cielo, con una miscela armonica che ha richiami antichi, delicati, profumati, dove il folk, la psichedelia, la pelle inumidita di Alternative e Indie Rock fa da base per un circolo razionale inevitabile. Le undici canzoni sono state scritte durante il lockdown, a distanza: Florida chiama, Seattle risponde, in un percorso solo fintamente separato. Le idee, gravide di umori e maturate esposizioni all’addensamento di pensieri a braccetto con la filosofia, vengono rese libere dal talento, dal lavoro sul senso, sulla schiena di storie dall’involucro protetto dai suoni che spargono tenerezza e curiosità. Molti i luoghi su cui le canzoni planano, molti i riferimenti in  cui si potrebbe trovare un sorriso, un sollievo, ma, soprattutto, grande è il perimetro dei versi, degli arrangiamenti, del cantato, del flusso energetico, dei raggi di sole che fanno dei Bolshoi di un tempo un piacevole ma non essenziale ricordo. 

Trevor Tanner, come sempre chitarrista e voce, disegna, attira l’ascoltatore nelle sue praterie mentali, mentre Paul Clark (tastiere) è il grande artefice di questo caleidoscopio, di questa foresta che cerca di catturare la luce per nutrirsi di speranze. E le loro nuove residenze, americane, hanno favorito un parto artistico nel quale, tra i due poli, vengono compresse sensazioni, dolori, impeti e una folta vegetazione sensoriale: un album come uno slancio che non conosce direzione, per dar senso alla vera libertà.

È rock che sembra nato dalle bave di Lou Reed, dalla psichedelia australiana della seconda parte della carriera dei Church, sino a chiamare a sé il periodo degli anni Novanta di band inglesi che riprovavano il brivido della sponda americana che si ispirava specificatamente a quella di Boston. E quella della band inglese Eat. Inoltre vi è presente l’ebbrezza data dai lavori di gruppi vicini allo slowcore, specialmente poi quando nei ritornelli a prevalere è un senso malinconico.

Non sono assenti gli antichi petali cupi, le bordate di tossine ma il tutto è più levigato, con la capacità di entrare anche nelle zone del country, quasi come una sfida, facilmente vinta, in quanto i due non hanno mai mancato all’appuntamento con l’ironia (come nel brano Cowboy Chords). Però in tutto questo esercizio artistico, le chitarre sono sempre lontane dal voler inghiottire il tutto: sono generose, attente e scrupolose, volenterose nel tradurre il passaggio delle loro esistenze. 

Ci vuole coraggio per scrivere un battito di ali, quando prima si descrivevano passi insicuri nella notte buia delle strade di Londra.

La testimonianza dell’età adulta, di un percorso che cerca lo sviluppo non può legarsi alla nostalgia.

Ci sono elementi di contatto con un’idea gloriosa e pericolosa: orchestrare l’esistenza con canzoni come una matrioska con l’intenzione di un contatto, come se i brani fossero pagine all’interno di una biblioteca vogliose di entrare nei palmi delle nostre mani.

Quando poi arriva Beautiful Creature si capisce come la radice rock americana sia capace di rivelare il lato post-punk di un tempo ma rivestito di una pellicola luminosa vicina all’incanto di un miracolo, perfettamente riuscito. Forte è la presenza degli anni Novanta in almeno la metà dei brani, tuttavia non come limite, bensì come palestra muscolare di assoli in grado di riportare il suono nel luogo che gli compete. E poi i Blue Aeroplanes che spesso fanno capolino, come lo fa la sensazione di un cabaret pop in cerca di un applauso timido, e il recitato di Trevor sale sul palcoscenico della pazzia, con citazioni, riferimenti davvero notevoli. Si danza con consapevolezza, si sorride e si trovano lacrime generose nella splendida e conclusiva This Town, vero gioiello intuitivo, capace di sorprendere e trascinare nell’intima località del ragionamento ogni  paura…

Fulcro, baricentro e freccia libera di separarsi dalle prigioni è la mastodontica Platitudes of Scorn, un trattato biologico, un vocabolario di bellezza che, partendo dalla psichedelia inglese, atterra nella ballad claustrofobica americana, per divenire il pezzo su cui collegare il lato solare e quello cupo dei due artigiani musicali, qui in totale armonia, per dare non solo al brano ma all’intero album un senso di epicità inevitabile.

Hanno colto il senso dello spargimento del tempo e lo hanno lasciato libero di voltare loro le spalle, senza acredine, senza eruzioni inutili di rabbia. Una clamorosa disciplina, resa possibile dalla loro stessa produzione, fa sentire il tutto come un lungo soffio dalle undici piume, dove ognuna rincuora le altre.

Piccole scintille del loro passato  si possono trovare nella penultima composizione, Built in Obsolescence, un crocevia, una pillola che dalla mente di un passato prova ad arrivare alla realtà. Amniotica, nevrotica, elettrica, è sicuramente epidermica in quanto sa come tenere un lasso di tempo enorme comprimendolo in un minutaggio che, seppur breve, è molto rappresentativo per quanto concerne il periodo che fu per loro glorioso.

Non si può rinunciare a Suburbs, quel secondo incanto sonoro che mette i brividi, per la scrittura che brucia le ostilità e ridà senso al vivere della provincia, a storie che rischiano di rimanere inascoltate.

Si può fare a meno del passaporto ma non dell’identità: ecco che la già citata This Town rivela antichi amori rimescolati (The Velvet Underground), che in un momento di freschezza riescono a ingannare il movimento delle lancette dell’orologio, per poi trasferirsi verso i Beatles e l’Inghilterra, per un ritorno a casa.

Che è perfettamente il fattore dominante di questo disco: partire dal limite (il lockdown), per trovare una nuova residenza: quella dentro di sé, per un risultato clamorosamente armonioso e intenso…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers






My Review: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


Once upon a time, and still is, there was a place in Wiltshire, in the south of England, not far from Bath, a place made famous by a post-punk, darkwave band (Bolshoi), whose name is Trowbridge and which for a while carried the quartet's delicious vicissitudes in its belly.

In 1990 the band disbanded and now the Old Scribe is about to take you on an ocean voyage, slow, to the heavens, with a harmonic blend that has ancient, delicate, fragrant overtones, where folk, psychedelia, the dampened skin of Alternative and Indie Rock form the basis for an inevitable rational circle. The eleven songs were written during  lockdown, at a distance: Florida calls, Seattle answers, in an only pretendedly separate path. The ideas, pregnant with moods and matured exposures to the thickening of thoughts at arm's length with philosophy, are set free by talent, by working on meaning, on the back of stories from the protected envelope of sounds that shed tenderness and curiosity. Many are the places over which the songs glide, many the references in which one might find a smile, a relief, but, above all, great is the perimeter of the verses, the arrangements, the singing, the energetic flow, the rays of sunshine that make the Bolshoi of yesteryear a pleasant but not essential memory. 


Trevor Tanner, as always guitarist and vocalist, draws, attracts the listener into his mental prairies, while Paul Clark (keyboards) is the great creator of this kaleidoscope, of this forest that tries to capture the light to feed on hope. And their new residences, American, have favoured an artistic birth in which, between the two poles, sensations, pains, impetuses and a thick sensory vegetation are compressed: an album like a momentum that knows no direction, to give meaning to true freedom.

It is rock that seems to be born from the burrs of Lou Reed, from the Australian psychedelia of the second half of Church's career, and even calls to mind the 1990s period of British bands that reproduced the thrill of the American shore that was specifically inspired by that of Boston. And that of the British band Eat. Moreover, there is the thrill given by the works of bands close to slowcore, especially then when a melancholic sense prevails in the refrains.


The old sombre petals are not absent, the broadsides of toxins, but the whole is more polished, with the ability to enter even country areas, almost like a challenge, easily won, as the two have never missed the appointment with irony (as in the song Cowboy Chords). However, throughout this artistic exercise, the guitars are always far from swallowing the whole: they are generous, attentive and scrupulous, willing to translate the passage of their lives. 

It takes courage to write a flutter of wings, when previously they were describing insecure footsteps in the dark night on the streets of London.

The testimony of adulthood, of a path that seeks development, cannot be tied to nostalgia.

There are elements of contact with a glorious and dangerous idea: to orchestrate existence with songs like a Matryoshka doll with the intention of contact, as if the songs were pages inside a library eager to fit into the palms of our hands.


When Beautiful Creature arrives, it becomes clear how the American rock roots are capable of revealing the post-punk side of yesteryear, but clothed in a luminous film close to the enchantment of a miracle, which is perfectly successful. The presence of the nineties is strong in at least half of the tracks, however not as a limitation, but as a muscular gymnasium of solos capable of bringing the sound back to its rightful place. And then the Blue Aeroplanes often peep in, as does the feel of a pop cabaret in search of shy applause, and Trevor's acting takes the stage of madness, with quotations, references that are truly remarkable. One dances with awareness, smiles and finds generous tears in the splendid and conclusive This Town, a true intuitive jewel, capable of surprising and dragging into the intimate locality of reasoning every fear...   

Fulcrum, barycentre and arrow free to separate from the dungeon is the mammoth Platitudes of Scorn, a biological treatise, a vocabulary of beauty that, starting from English psychedelia, lands in the claustrophobic American ballad, to become the piece on which to connect the sunny and the sombre sides of the two musical craftsmen, here in total harmony, to give not only the song but the entire album an inescapable sense of epicness.

They have grasped the sense of the passing of time and let it turn its back on them, without bitterness, without unnecessary eruptions of anger. A resounding discipline, made possible by their own production, makes the whole thing feel like one long breath from eleven feathers, each one heartening the others.

Small sparks from their past can be found in the penultimate composition, Built in Obsolescence, a crossroads, a pill that from the mind of a past tries to reach reality. Amniotic, neurotic, electric, it is definitely epidermic in that it knows how to hold an enormous amount of time by compressing it into a minute-length that, although short, is very representative of the period that was glorious for them.  One cannot do without Suburbs, that second sonic enchantment that sends shivers down one's spine, for the writing that burns away hostilities and restores meaning to provincial living, to stories that risk remaining unheard.

One can do without a passport but not without identity: here, the aforementioned This Town reveals remixed old loves (The Velvet Underground), which in a moment of freshness manage to fool the movement of the hands of the clock, only to move on to the Beatles and England, for a homecoming.

Which is perfectly the dominant factor of this record: starting from the limit (the lockdown), to find a new residence: the one within oneself, for a resoundingly harmonious and intense result...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers


My review: Eirēnē, Paris Alexander & The Stave Church - Inner Sanctum

  Eirēnē, Paris Alexander & The Stave Church - Inner Sanctum When a sensitive soul seeks contact with truth, it can only note, through a...