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venerdì 21 marzo 2025

La mia recensione: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


C’era una volta e c’è ancora un luogo nel Wiltshire, nel sud dell’Inghilterra, non lontana da Bath, una località resa famosa da una formazione post-punk e darkwave (Bolshoi), che di nome fa Trowbridge e che ha portato per un pò, nel suo ventre, le prelibate peripezie del quartetto.

Nel 1990 la band si sciolse e ora il Vecchio Scriba si accinge a portarvi in un oceano in fuga, lenta, verso il cielo, con una miscela armonica che ha richiami antichi, delicati, profumati, dove il folk, la psichedelia, la pelle inumidita di Alternative e Indie Rock fa da base per un circolo razionale inevitabile. Le undici canzoni sono state scritte durante il lockdown, a distanza: Florida chiama, Seattle risponde, in un percorso solo fintamente separato. Le idee, gravide di umori e maturate esposizioni all’addensamento di pensieri a braccetto con la filosofia, vengono rese libere dal talento, dal lavoro sul senso, sulla schiena di storie dall’involucro protetto dai suoni che spargono tenerezza e curiosità. Molti i luoghi su cui le canzoni planano, molti i riferimenti in  cui si potrebbe trovare un sorriso, un sollievo, ma, soprattutto, grande è il perimetro dei versi, degli arrangiamenti, del cantato, del flusso energetico, dei raggi di sole che fanno dei Bolshoi di un tempo un piacevole ma non essenziale ricordo. 

Trevor Tanner, come sempre chitarrista e voce, disegna, attira l’ascoltatore nelle sue praterie mentali, mentre Paul Clark (tastiere) è il grande artefice di questo caleidoscopio, di questa foresta che cerca di catturare la luce per nutrirsi di speranze. E le loro nuove residenze, americane, hanno favorito un parto artistico nel quale, tra i due poli, vengono compresse sensazioni, dolori, impeti e una folta vegetazione sensoriale: un album come uno slancio che non conosce direzione, per dar senso alla vera libertà.

È rock che sembra nato dalle bave di Lou Reed, dalla psichedelia australiana della seconda parte della carriera dei Church, sino a chiamare a sé il periodo degli anni Novanta di band inglesi che riprovavano il brivido della sponda americana che si ispirava specificatamente a quella di Boston. E quella della band inglese Eat. Inoltre vi è presente l’ebbrezza data dai lavori di gruppi vicini allo slowcore, specialmente poi quando nei ritornelli a prevalere è un senso malinconico.

Non sono assenti gli antichi petali cupi, le bordate di tossine ma il tutto è più levigato, con la capacità di entrare anche nelle zone del country, quasi come una sfida, facilmente vinta, in quanto i due non hanno mai mancato all’appuntamento con l’ironia (come nel brano Cowboy Chords). Però in tutto questo esercizio artistico, le chitarre sono sempre lontane dal voler inghiottire il tutto: sono generose, attente e scrupolose, volenterose nel tradurre il passaggio delle loro esistenze. 

Ci vuole coraggio per scrivere un battito di ali, quando prima si descrivevano passi insicuri nella notte buia delle strade di Londra.

La testimonianza dell’età adulta, di un percorso che cerca lo sviluppo non può legarsi alla nostalgia.

Ci sono elementi di contatto con un’idea gloriosa e pericolosa: orchestrare l’esistenza con canzoni come una matrioska con l’intenzione di un contatto, come se i brani fossero pagine all’interno di una biblioteca vogliose di entrare nei palmi delle nostre mani.

Quando poi arriva Beautiful Creature si capisce come la radice rock americana sia capace di rivelare il lato post-punk di un tempo ma rivestito di una pellicola luminosa vicina all’incanto di un miracolo, perfettamente riuscito. Forte è la presenza degli anni Novanta in almeno la metà dei brani, tuttavia non come limite, bensì come palestra muscolare di assoli in grado di riportare il suono nel luogo che gli compete. E poi i Blue Aeroplanes che spesso fanno capolino, come lo fa la sensazione di un cabaret pop in cerca di un applauso timido, e il recitato di Trevor sale sul palcoscenico della pazzia, con citazioni, riferimenti davvero notevoli. Si danza con consapevolezza, si sorride e si trovano lacrime generose nella splendida e conclusiva This Town, vero gioiello intuitivo, capace di sorprendere e trascinare nell’intima località del ragionamento ogni  paura…

Fulcro, baricentro e freccia libera di separarsi dalle prigioni è la mastodontica Platitudes of Scorn, un trattato biologico, un vocabolario di bellezza che, partendo dalla psichedelia inglese, atterra nella ballad claustrofobica americana, per divenire il pezzo su cui collegare il lato solare e quello cupo dei due artigiani musicali, qui in totale armonia, per dare non solo al brano ma all’intero album un senso di epicità inevitabile.

Hanno colto il senso dello spargimento del tempo e lo hanno lasciato libero di voltare loro le spalle, senza acredine, senza eruzioni inutili di rabbia. Una clamorosa disciplina, resa possibile dalla loro stessa produzione, fa sentire il tutto come un lungo soffio dalle undici piume, dove ognuna rincuora le altre.

Piccole scintille del loro passato  si possono trovare nella penultima composizione, Built in Obsolescence, un crocevia, una pillola che dalla mente di un passato prova ad arrivare alla realtà. Amniotica, nevrotica, elettrica, è sicuramente epidermica in quanto sa come tenere un lasso di tempo enorme comprimendolo in un minutaggio che, seppur breve, è molto rappresentativo per quanto concerne il periodo che fu per loro glorioso.

Non si può rinunciare a Suburbs, quel secondo incanto sonoro che mette i brividi, per la scrittura che brucia le ostilità e ridà senso al vivere della provincia, a storie che rischiano di rimanere inascoltate.

Si può fare a meno del passaporto ma non dell’identità: ecco che la già citata This Town rivela antichi amori rimescolati (The Velvet Underground), che in un momento di freschezza riescono a ingannare il movimento delle lancette dell’orologio, per poi trasferirsi verso i Beatles e l’Inghilterra, per un ritorno a casa.

Che è perfettamente il fattore dominante di questo disco: partire dal limite (il lockdown), per trovare una nuova residenza: quella dentro di sé, per un risultato clamorosamente armonioso e intenso…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers






My Review: The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


 

The Bolshoi Brothers - The Bolshoi Brothers


Once upon a time, and still is, there was a place in Wiltshire, in the south of England, not far from Bath, a place made famous by a post-punk, darkwave band (Bolshoi), whose name is Trowbridge and which for a while carried the quartet's delicious vicissitudes in its belly.

In 1990 the band disbanded and now the Old Scribe is about to take you on an ocean voyage, slow, to the heavens, with a harmonic blend that has ancient, delicate, fragrant overtones, where folk, psychedelia, the dampened skin of Alternative and Indie Rock form the basis for an inevitable rational circle. The eleven songs were written during  lockdown, at a distance: Florida calls, Seattle answers, in an only pretendedly separate path. The ideas, pregnant with moods and matured exposures to the thickening of thoughts at arm's length with philosophy, are set free by talent, by working on meaning, on the back of stories from the protected envelope of sounds that shed tenderness and curiosity. Many are the places over which the songs glide, many the references in which one might find a smile, a relief, but, above all, great is the perimeter of the verses, the arrangements, the singing, the energetic flow, the rays of sunshine that make the Bolshoi of yesteryear a pleasant but not essential memory. 


Trevor Tanner, as always guitarist and vocalist, draws, attracts the listener into his mental prairies, while Paul Clark (keyboards) is the great creator of this kaleidoscope, of this forest that tries to capture the light to feed on hope. And their new residences, American, have favoured an artistic birth in which, between the two poles, sensations, pains, impetuses and a thick sensory vegetation are compressed: an album like a momentum that knows no direction, to give meaning to true freedom.

It is rock that seems to be born from the burrs of Lou Reed, from the Australian psychedelia of the second half of Church's career, and even calls to mind the 1990s period of British bands that reproduced the thrill of the American shore that was specifically inspired by that of Boston. And that of the British band Eat. Moreover, there is the thrill given by the works of bands close to slowcore, especially then when a melancholic sense prevails in the refrains.


The old sombre petals are not absent, the broadsides of toxins, but the whole is more polished, with the ability to enter even country areas, almost like a challenge, easily won, as the two have never missed the appointment with irony (as in the song Cowboy Chords). However, throughout this artistic exercise, the guitars are always far from swallowing the whole: they are generous, attentive and scrupulous, willing to translate the passage of their lives. 

It takes courage to write a flutter of wings, when previously they were describing insecure footsteps in the dark night on the streets of London.

The testimony of adulthood, of a path that seeks development, cannot be tied to nostalgia.

There are elements of contact with a glorious and dangerous idea: to orchestrate existence with songs like a Matryoshka doll with the intention of contact, as if the songs were pages inside a library eager to fit into the palms of our hands.


When Beautiful Creature arrives, it becomes clear how the American rock roots are capable of revealing the post-punk side of yesteryear, but clothed in a luminous film close to the enchantment of a miracle, which is perfectly successful. The presence of the nineties is strong in at least half of the tracks, however not as a limitation, but as a muscular gymnasium of solos capable of bringing the sound back to its rightful place. And then the Blue Aeroplanes often peep in, as does the feel of a pop cabaret in search of shy applause, and Trevor's acting takes the stage of madness, with quotations, references that are truly remarkable. One dances with awareness, smiles and finds generous tears in the splendid and conclusive This Town, a true intuitive jewel, capable of surprising and dragging into the intimate locality of reasoning every fear...   

Fulcrum, barycentre and arrow free to separate from the dungeon is the mammoth Platitudes of Scorn, a biological treatise, a vocabulary of beauty that, starting from English psychedelia, lands in the claustrophobic American ballad, to become the piece on which to connect the sunny and the sombre sides of the two musical craftsmen, here in total harmony, to give not only the song but the entire album an inescapable sense of epicness.

They have grasped the sense of the passing of time and let it turn its back on them, without bitterness, without unnecessary eruptions of anger. A resounding discipline, made possible by their own production, makes the whole thing feel like one long breath from eleven feathers, each one heartening the others.

Small sparks from their past can be found in the penultimate composition, Built in Obsolescence, a crossroads, a pill that from the mind of a past tries to reach reality. Amniotic, neurotic, electric, it is definitely epidermic in that it knows how to hold an enormous amount of time by compressing it into a minute-length that, although short, is very representative of the period that was glorious for them.  One cannot do without Suburbs, that second sonic enchantment that sends shivers down one's spine, for the writing that burns away hostilities and restores meaning to provincial living, to stories that risk remaining unheard.

One can do without a passport but not without identity: here, the aforementioned This Town reveals remixed old loves (The Velvet Underground), which in a moment of freshness manage to fool the movement of the hands of the clock, only to move on to the Beatles and England, for a homecoming.

Which is perfectly the dominant factor of this record: starting from the limit (the lockdown), to find a new residence: the one within oneself, for a resoundingly harmonious and intense result...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21st March 2025


https://thebolshoibrothers.bandcamp.com/album/the-bolshoi-brothers


giovedì 28 novembre 2024

La mia Recensione: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 

Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Tre sopravvissuti fanno da ponte radio all’epopea terrena di anime disintegrate, saltate in aria in un cielo che desidera solamente mantenere la memoria di quello che è successo: si contemplano le ragioni del disastro, si sviluppa il seme della fine con suoni (e non canzoni) che, oltre a narrare, metabolizzano con una zoppia che esclude (tranne pochissime eccezioni) la forma canzone. Pare che nella testa dell’unico autore di questo mastodontico progetto (Michael Serafin-Wells) ci sia un computer attaccato a un cratere, con vermi, rapaci, scorie, trucioli, martelli e una valanga di scosse telluriche a illuminare la volta celeste nella celebrazione di una sconfitta prevedibile.

Vengono creati, quindi, percorsi millenari, racconti che escludono il cantato ma prevedono il crooning e lo storytelling di Summer Serafin e di Sylvia Solanas, che non sono niente altro che angeli femminili con le lacrime nelle corde vocali.

Il Big Bang iniziale non è nulla rispetto a questa processione di lava, bave e rantoli, nel cimitero rovente di un sogno in apnea. 

Si muovono le parole come comete stanche mentre il Moog Synth, la bowed guitar, le percussioni sono rattoppi di una ferita compressa tra queste lamiere sonore che sprofondano attimo dopo attimo.

Sembra un volo, quello di Birdy (e infatti quel Peter Gabriel che scrisse la colonna sonora potrebbe pensare di aver trovato dei nipoti molto più guerrieri e spavaldi di lui), in cui ciò che si vede si trasforma nella dovuta esagerazione di sonorità come pali della luce in genuflessione. Tutto è accorato ma lento, facendo così lievitare la tensione, l’imbarazzo, il fastidio e la certezza che non sia la gradevolezza ciò che ci colpisce il ventre. Ed è proprio da lì che il suono si trasforma nella transizione e nella traduzione di un percorso che trova lo sbarramento di un’epoca che non ha più visibilità.

Un viaggio psichedelico nella follia del prog rallentato, nei minuscoli approcci ai Velvet Underground e a Pink Floyd, quando, cioè, possiamo ascoltare delle quasi canzoni…

Sono però attimi, delle vampate erronee, un micromondo che non può avanzare. Michael non solo è un visionario, ma procede con le undici composizioni del primo disco, per poi scomodare in quelle del secondo disco gli incubi tipicizzanti della musica industriale degli albori, quella inglese del 1976 per intenderci. Per questo motivo giunge lo stupore: un progetto Newyorkese che vive nella Terra d’Albione sin da prima della comparsa degli esseri umani. Epico, granitico, devastante, questo dodicesimo loro album e quinto doppio approfondisce maggiormente il bisogno di rendere sottile l’armonia e di fronteggiare invece la destrutturazione molecolare del pop, del rock e, come accennato prima, della forma canzone.

La chitarra è la madre che consola i suoi figli, ed è tutta farina del sacco di Michael Serafin-Wells, artigiano del tempo, detentore dello scettro dell’atomo che diventa attimo e, straordinariamente, ripetibile. Qui l’applauso deve scattare, tremante e nervoso: questo talentuoso ricercatore e sviluppatore della distruzione di ogni faciloneria artistica si mette il casco, si benda e gratta la storia, la geografia, entra nello studio del chimico nucleare costruendo la sua bomba, postatomica. Ci si ritrova in una bacinella di sabbia nella quale scendono note nere come bisturi  impazziti.

Un resoconto osceno, terribile, pesante, dove l’aria muore nella glacialità espositiva di echi e riverberi, delay e meccaniche ripetizioni robotiche in cui il ritmo non è mai sostenuto dalla batteria bensì dai loop di un iPad vigoroso e determinato a incutere paura e allucinazione continua.

La natura, che siano uccelli, pesci e quant’altro, è l’unica che pare avere dignità, l’unica a essere sopravvissuta e, quando arrivano le campane, non si ha dubbio che sia il vento a suonarle.

La sperimentazione nelle officine del suono tedesco del 1961 e del 1962 inorridirebbe davanti a questa miscela di contrattempi, avamposti sonori e cliché attitudinali che cercano loop umani e ideali da sbattere contro le viscere di un idilliaco tremore. Lo sfacelo del racconto non può prevedere empatia nei confronti di una modalità accomodante. 

Infatti.

Ciò che avviene è una valanga di ultimi respiri in volo decadente, alla ricerca del ventre terreste, come una deposizione di intenti liturgica ma agnostica: non c’è Dio in questo disco semplicemente perché l’uomo è scomparso del tutto, e dalle sue ceneri sono nati questi frammenti.

Sono visioni sospese e poi lacerate, orgasmi delle particelle lunari che celebrano il silenzio corroso, creature mostruose che escono dai corpi dei ricordi, in un assemblaggio distorto e fulminante.

Non esistono arpeggi lunghi ma note, ammassi di note, note storte, note senza possibilità di un pentagramma che veneri il loro potere.

È distruzione continua, frammentazione e mai diffusioni sognate: gli incubi veri sono lenti, smorfiosi, diseducati e abrasivi.

In alcuni momenti dell’album capiamo l’importanza dei Television e di una breve parte della carriera dei Virgin Prunes (A New Form Of Beauty) quando l'approssimazione di un parquet musicale trovava spazio nell’istinto omicida di fraseggi spericolati. 

Le stelle precipitano, l’ellisse cambia opinione e le strade diventano magazzini della memoria ipnotizzati. Per realizzare tutto questo caos si restringono i parametri della fantasia e ci si abbandona all’ossessione, come pazienti di un TSO che ridono della non comunicazione tra le parti.

Ma, aspetto fondamentale di questo lavoro, è la NON COMUNICABILITA’, non esiste un parlare e un ascoltare, ma tutto è raziocinio in frittura, con dosi di droghe sparse dentro il sibilìo costante di questo rumore basale.

Ci si ritrova a considerare certi gruppi come antichi antenati di questa sbalorditiva messa in atto di oscena crudeltà: si dovrebbe immaginare come la non musica di queste ventidue molecole scomposte non siano altro che un nuovo testamento, una nuova partitura ascensionale, perché, per davvero, tutto quello che cade trova modo di risalire con maggior circospezione.

Non c’è gioia, niente di solare, solo un alto fungo atomico che pare cercare una base per far riposare l’amarezza e la desolazione.

Della musica Neo-Folk questo doppio album ha il senso della sintesi.

Della musica Industriale quello sanguigno di una lacerazione continua nei confronti delle verità.

Della musica classica ha tutto: il pudore, l'ardore, la teatralità in cerca di un applauso paralizzato in un giorno di lavoro.

La festa è un grido indecoroso che non può presenziare.

Dello Shoegaze rimane l’abbondanza di distorsioni controllate.

Del Dream Pop la lastra dopo un sogno morto.

Del Rock l’idea che tutto muoia…


Rimane l’odore di una tragedia, di un canto senza orecchie in ascolto, una sedia elettrica ad alto voltaggio ma prive di reazioni muscolari.

In parole povere: un progetto che entusiasma il Vecchio Scriba perché ci si ritrova nel futuro, con le giuste dosi di terrore e di ambasce affittate composizione dopo composizione.

Stoica è l'intenzione di snaturare il processo di avvicinamento all’ascolto, mentre ciò che vive tra questi solchi è un rifiuto persistente del pubblico, le orme umane non sono desiderate e si preferiscono le onde del mare contaminate dall’amianto e le tracce di petrolio sulle ali dei gabbiani (tra i protagonisti assoluti di questo Lp), per connettersi al dolore che sintetizzi un proscenio e un abbandono.

Ci si ritrova, così bene, nelle sacche amniotiche di Poe, con le sue nevrosi, e nella spettacolare conversione stilistica del leader degli Psyco Tv: un gemellaggio continuo con la demenza giovanile e non senile. Si raccontano le vicende di un tempo raggomitolato nei suoni cadaverici e nelle voci femminili sommerse dai frastuoni, come lapidi in movimento in attesa del ghigno malefico.

Magnetica e crudele, la storia dell’arresto del sogno vibra in piena credibilità dato lo spessore di questo sistema convesso, che permette la fuga da ogni accettazione.

E qui si palesano i moti giapponesi, le vicende del Nepal, la storia triste di Ulisse, gli spettri di Lovecraft, i racconti ipotetici di Sofocle, e così via, in un infinito che rende petroso l’avvenire…

Non è un capolavoro (grazie a Dio) ma un testamento che disegna il futuro come una rigida lapide: se tutto deve finire per davvero abbiamo la giusta NON musica, i vestiti gettati tra i latrati del vento e la luce che si inginocchia innanzi alla morte…




Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Novembre 2024

My Review: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Three survivors act as a radio bridge to the earthly epic of disintegrated souls, blown up in a sky that only wishes to keep the memory of what happened: the reasons for the disaster are contemplated, the seeds of the end are developed with sounds (and not songs) that, besides narrating, excludes (with very few exceptions) the song form. It seems that in the head of the sole author of this mammoth project (Michael Serafin-Wells) there is a computer attached to a crater, with worms, raptors, slag, shavings, hammers and an avalanche of telluric tremors illuminating the vault of heaven in celebration of a predictable defeat.

Thus, millennial paths are created, tales that exclude singing but involve the crooning and storytelling of Summer Serafin and Sylvia Solanas, who are nothing less than female angels with tears in their vocal chords.


The initial Big Bang is nothing compared to this procession of lava, burrs and gasps, in the burning graveyard of an apnoea dream. 

The words move like tired comets while the Moog Synth, the bowed guitar, the percussion are patches of a wound compressed between these sonic sheets that sink moment after moment.

It sounds like a flight, Birdy's (and indeed that Peter Gabriel who wrote the soundtrack might think he had found grandchildren far more warrior-like and swaggering than he), in which what is seen turns into the due exaggeration of sounds like genuflecting light poles. Everything is heartfelt but slow, raising tension, embarrassment, annoyance and the certainty that it is not pleasantness that strikes our bellies. And it is from there that the sound transforms into the transition and translation of a path that finds the barrage of an era that no longer has any visibility.

A psychedelic journey into the madness of slowed-down prog, into tiny approaches to the Velvet Underground and Pink Floyd, when, that is, we can listen to almost songs...


They are, however, moments, errant flashes, a micro-world that cannot move forward. Not only is Michael a visionary, but he proceeds with the eleven compositions of the first disc, and then in those of the second disc he disturbs the typical nightmares of the industrial music of the early days, the English music of 1976 to be clear. Hence the astonishment: a New York project that has lived in the Land of Albion since before the appearance of human beings. Epic, granitic, devastating, this twelfth album of theirs and fifth double deepens the need to make harmony subtle and instead confront the molecular deconstruction of pop, rock and, as mentioned earlier, the song form.

The guitar is the mother who comforts her children, and it is all the work of Michael Serafin-Wells, craftsman of time, holder of the sceptre of the atom that becomes a moment and, extraordinarily, repeatable. Here the applause must go off, trembling and nervous: this talented researcher and developer of the destruction of all artistic ease puts on his helmet, blindfolds and scratches history, geography, enters the nuclear chemist's office building his bomb, postatomic. One finds oneself in a bowl of sand in which black notes descend like mad scalpels.


An obscene, terrible, heavy account, where the air dies in the expositional glaciality of echoes and reverberations, delays and mechanical robotic repetitions in which the rhythm is never sustained by the drums but by the loops of a vigorous ipad determined to instil fear and continuous hallucination.

Nature, be it birds, fish or whatever, is the only one that seems to have dignity, the only one to have survived, and when the bells come, there is no doubt that it is the wind that rings them.

Experimentation in the German sound workshops of 1961 and 1962 would be horrified at this mixture of mishaps, sonic outposts and attitudinal clichés that seek human and ideal loops to slam into the bowels of an idyllic tremor. The debacle of storytelling cannot provide empathy for an accommodating mode. 

Indeed.

What happens is an avalanche of last breaths in decadent flight, in search of the earthly underbelly, like a liturgical but agnostic deposition of intent: there is no God in this record simply because man has disappeared altogether, and from his ashes these fragments were born.


They are suspended and then torn visions, orgasms of moon particles celebrating corroded silence, monstrous creatures emerging from the bodies of memories, in a distorted and fulminating assemblage.

There are no long arpeggios but notes, clusters of notes, crooked notes, notes without the possibility of a stave to worship their power.

It is continual destruction, fragmentation and never dreamed of diffusion: real nightmares are slow, dysmorphic, wild and abrasive.

In certain moments of the album we understand the importance of Television and a brief part of Virgin Prunes' career (A New Form Of Beauty) when the approximation of a musical parquet found space in the murderous instinct of reckless phrasing. 

Stars plummet, the ellipse changes its mind and the streets become hypnotised warehouses of memory. In order to realise all this chaos, the parameters of fantasy are narrowed down and we indulge in obsession, like patients of a compulsory health treatment laughing at the non-communication between the parts.

But, a fundamental aspect of this work, is the NON-COMMUNICATION, there is no talking and no listening, but everything is fried reasoning, with doses of drugs scattered within the constant hissing of this basal noise.


One finds oneself considering certain groups as ancient ancestors of this staggering enactment of obscene cruelty: one should imagine how the non-music of these twenty-two decomposed molecules are nothing less than a new testament, a new ascending score, because, for real, everything that falls finds a way to rise with greater circumspection.

There is no joy, nothing sunny, just a high atomic mushrooming that seems to seek a base to rest bitterness and desolation.

Of Neo-Folk music, this double album has the sense of synthesis.

Of industrial music, it has the bloodiness of a continuous laceration against truths.

From classical music it has everything: the modesty, the ardour, the theatricality seeking paralysed applause on a working day.

The party is an unseemly cry that cannot attend.

Of Shoegaze remains the abundance of controlled distortion.

Of Dream Pop the slab after a dead dream.

Of Rock the idea that everything dies....


What remains is the smell of a tragedy, a song with no listening ears, an electric chair with high voltage but no muscular reactions.

To put it simply: a project that excites the Old Scribe because one finds oneself in the future, with the right doses of terror and ambivalence  tearing composition after composition.

Stoic is the intention to distort the process of approaching the listening, while what lives between these grooves is a persistent rejection of the audience, human footsteps are not desired and the waves of the sea contaminated by asbestos and the traces of oil on the seagulls' wings (among the absolute protagonists of this LP) are preferred, to connect with the pain that synthesises a proscenium and an abandonment.

One finds oneself, so well, in Poe's amniotic sacs, with his neuroses, and in the spectacular stylistic conversion of the leader of Psyco TV: a continuous twinning with youthful, non-senile dementia. The events of a time curled up in cadaverous sounds and female voices submerged in the din, like moving tombstones waiting for the evil grin.

Magnetic and cruel, the story of the arresting dream vibrates in full credibility given the thickness of this convex system, which allows an escape from all acceptance.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29th November 2024


https://bipolarexplorer.bandcamp.com/album/memories-of-the-sky


mercoledì 6 novembre 2024

La mia Recensione: Aursjøen - Strand


 




Aursjoen - Strand

“La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono a caso” - Italo Calvino


Nella spettacolare forma artistica che prevede la progressione dentro i maremoti emozionali, la lentezza diventa l’unica coinquilina ragionevole, in una pacifica e collaborativa convivenza.

Ecco che uno dei membri della polivalente band Octavian Winters innesca un detonatore sensuale, coi bassi ritmi a collegare il cielo e l’osceno del mondo, una musicoterapia che, partendo dall’elettronica curva su scale empiree e segrete, capovolge il pop e scrive canzoni come meteore e statiche statue danzanti, calibrate dal suo canto, corretto in corsa da controcanti e strategie di una produzione attenta a riversare luce tra bagliori eterei e tuttavia colmi di quel nero che non snellisce bensì preoccupa. Su questa base tutto diventa un'esperienza non catartica ma protettiva: ci sono luoghi dell’anima che l’artista di San Francisco preferisce mantenere come gocce di vetro nei suoi percorsi creativi. Musica glaciale, dove i panegirici dell’uomo comune tendono a frantumarsi, perché Aursiøen è una telefonata di note sotterranee. Da cui tutto parte per spegnere incantesimi e follie.

Un E.P. che la libera, la rinforza, capovolge il conosciuto e diviene residenza di sperimentazioni fluviali, mantenendo il contatto, nel suo timbro vocale (pieno e oscuro), con quelle voci che in passato, nel suo precedente progetto, non trovavano adiacenza e possibilità espressiva. Arrivano Siouxsie, Sinéad O’Connor, Björk, Elizabeth Frazer a ricordarci come la ricerca ostinata di una originalità sia cosa stupida: ci sarà sempre qualcuno che troverà un nome che l’ha per gioire di una vittoria inutile e irrisoria.

Questa cantante ha delle grucce nell’ugola, la sua mano scrive testi che salgono nella sua bocca per essere fantasmi gentili nel buio di notti vogliose di una distrazione. Quello che racconta e il modo in cui lo fa la mette su una discesa temporale: composizioni come un allontanamento, come una ferita sibilante in cerca di un’armonia gradevole, con richiami alla musica classica, partendo da un trip-hop nerastro all’interno di allacciamenti gotici, con una chitarra e il suo delay a frantumare la purezza, facendolo divinamente.

Il pop alternativo diviene folk alleggerito, con stravaganze davvero radiose e sublimi, con balbettii che inquinano la sicurezza, rendendoci ascoltatori in stato di fragilità, con una meccanica compositiva che avvicina la possibilità di un bacino di accoglienza popolare, mettendo a tacere chi la vorrebbe solo per poche anime.

Le stratificazioni, gli arrangiamenti, le progressioni, l’enfasi e la leggerezza (quella di Calvino nell’introduzione) sono gli elementi che continuano a partorire grappoli, frammenti, scintille di idee che reclamano note, come se uscissero dal risveglio di una persona in coma.

Micidiale, caustica, rapitrice di melodie arcane e vicine alla mitologia, questa artista lavora concetti privati, semina una lastra di impeti con lo sguardo dentro le cartucce di una voce che spara i cambi di registro con attenzione e capacità.

E dei testi, dei richiami sognanti verso gli anni Ottanta, della sensazione che sei canzoni sembrino trenta non ne vogliamo parlare?

In questo si dovrebbe tirare in ballo la seconda parte della carriera dei Dead Can Dance, forse il sistema di misura più vicino alla ragionevolezza per inquadrare il grande percorso compiuto con questo lavoro, per riuscire a dargli una credibilità che merita di sicuro.

Per il Vecchio Scriba questo non è soltanto l’E.P. del mese e dell’anno 2024, piuttosto è l’augurio che le anime pensanti possano scoprire con queste delicate pennellate artistiche una serie di mondi non connessi tra loro ma in fase di annusamento, nella spettacolare modalità di circospezione.

E si scopre come la bellezza sappia essere violenta: davanti a tutto ciò un cuore sano perde efficacia e si accascia, felicemente…


Song by Song


1 -Nytär


Una terra senza acqua esce da questi aggeggi elettronici, chiamateli computer, tastiera, beats, non importa: l’inizio del brano è già un geyser che si precisa nelle orecchie, un geniale intro per la voce che sembra uscire da un concerto della 4AD in un attimo di distrazione della massa gotica.

Pj Harvey osserva attenta: capisce come Aursjøen utilizzi il registro alto non come acclamazione o preghiera, bensì come soluzione per portare sul suolo terrestre angeli e demoni. Esempio di come la musica eterea stia a suo agio con un temporale, lento, pieno di elettronica e suspense.



2 - Apollo



Eccoli gli Octavian Winters nell’intro di chitarra: una bordata gotica che butta giù il cielo! E poi è una duna del deserto nel battibecco dei Tuareg, a benedire il connubio tra darkwave e trip-hop, con il ritornello che sentenzia la facilità che possiede di permettere alla malinconia e all’allegria di convivere. Misteriosa, trasmette un prurito piacevole, dato dalla metodica del canto, raffinato ma potente.


3 - Lilypad


Si cambia, si dimentica e si prosegue: siamo ora tra i pilastri della world music in cerca di anime voraci, di sospiri con eco e riverbero che montano la panna di una forma canzone che lascia spazio agli accenni di chitarra e tastiera, nel dondolio di un pomeriggio che vede la voce più nascosta, come una meteora in cerca di una metafora. Ma poi nell’apertura del ritornello le note in maggiore ci portano equilibrio e godimento. E ci viene in mente la stessa attitudine al gioco canoro di una cantante che è ancora un missile in anticipo nel mondo trip-hop, quella Skye Edwards dei Morcheeba che echeggia spesso in queste sei canzoni.



4 - Suns Of Tomorrow


Poi esiste l’estraneità e il giocattolo diverso nei luoghi predisposti alla ludicità.

Eccolo questo brano che visita l’ignoto, il sacro, l’accartocciare la voce per fare posto a campane, a beats magnetici, e un velo triste ci copre perfettamente gli occhi. La sperimentazione qui diviene saggezza al pascolo, per perseverare con la brevità del giro di accordi, lasciando poi spazio a un cambiamento ritmico e scenico impressionante, tra sibili e suggestioni drammatiche di altissimo livello, con incursione di fiati che creano un terrore rappresentativo di una genialità impressionante.



5 - For Want Of


L’eco maestro del dramma interiore esce a fumare: canzone che ci penetra attraverso il chiaroscuro vocale, mentre la musica, compatta, siderea, plumbea, struttura l’ascolto all’interno della pazzia maniacale di Diamanda Galas. Si canta per colpire l’aria, per irritare e tenere buoni gli spiriti, come fate, come diavolesse. Aursjøen impressiona, ci travolge con il modo in cui usa la complessità per esplodere ma solo in lontananza…



6 - Strand


Dio mio. Una chiusura che mette il magone, che ci rende orfani, visto che la bellezza e la leggerezza decidono di partorire una figlia amorfa, stralunata e vicina alla fine prematura. Un incubo rappresentato come atto contemplativo, un trasporto nomade di antiche culture millenarie che qui trovano il benvenuto e si piange, di gioia, di gioia, di gioia mentre tutto si fa muto con queste praterie vocali che divengono l’unico vento su cui depositare il nostro grazie infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

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