Visualizzazione post con etichetta The Slow Readers Club - Put Of A Dream. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta The Slow Readers Club - Put Of A Dream. Mostra tutti i post

giovedì 6 marzo 2025

La mia Recensione: The Slow Readers - Out Of A Dream


 The Slow Readers Club - Out Of A Dream


Mani, tracce, odori, profumi, proiezioni (alcune dirette, altre inclini a una diplomatica forma di relativa esibizione), portano il tutto a concentrare il pensiero come il punto finale di una escrescenza in fase di esplosione: esistono fatti che non si raccontano, il mondo non è pronto, e un doveroso silenzio si inginocchia innanzi a una tecnologia diventata rapidamente il baricentro di un vuoto in avanzamento.

Potevano i Mancuniani The Slow Readers Club esimersi dall’esporre il dolore, la rabbia, la preoccupazione, dal descrivere l’impazzito mondo?

No di certo, e in queste nuove dieci canzoni non hanno trascurato di adoperare il costato grondante di sangue e trucioli, con un lavoro che recupera l’antico ardore della band, spiazzando dopo il loro album di due anni fa che aveva seminato sorrisi, segnali di pace, ed esponendo il gruppo di Manchester anche a uno schieramento politico.

Ci ritroviamo con il singolo individuo al centro, in una peristalsi emotiva che non si camuffa in uno scarto, mantenendo, sfortunatamente, il tutto nel corpo di una mente senza punti di riferimento. Tolgono spazio alla fuga e ci invitano all’introspezione, al considerare ottiche che pensavamo non fossero più necessarie.

La musica annuisce, prende in prestito vascelli, ruscelli, brandelli di luce e semina petali doloranti, con un innesto maggiormente moderato dell’elettronica e tuttavia trovando il giusto compromesso per permettere ai flussi sonori di precisare i testi di Aaron Starkie, qui, forse più che mai, il vero protagonista dell’album. Una danza moderata, con due brani che scuotono le gambe, anche se nel complesso si ha la sensazione di farla con una spada di Damocle sulla testa, il che rende tutto pericoloso. Non vi è gioia in questi versi, nemmeno nelle note, donando un miracolo di netta e pura sincerità, nessuna falsità, in quanto il gruppo di Manchester ha messo da parte quello che ora non ha più senso: nessun inganno di sicuro permea queste composizioni che, invece, stipulano un contratto con uno strategico percorso nel tempo. Avanzano, indietreggiano, ma mai ancorate al precisare il come. Questo rende l’opera un’operazione costante nei confronti delle pretese: i fans rimarranno di stucco, probabilmente non felici in quanto mancano quelle canzoni veloci che entrano dentro il cuore. Tutto è più lento, profondo, maturo, ed è una essenziale forma di riscatto nei confronti di chi finge rispetto a  chi ama per davvero.

Brani come fari notturni, con le acque dell’oceano del vivere che tremano, infreddolite e sconsolate: vi è un mondo che prende spazio (quello tecnologico per intendersi) che preoccupa perché sa come oscurare i rapporti, i valori e il tempo.

Il conflitto diventa grido, emarginazione, scempio e la musica il binocolo di una coscienza che traballa, mentre la gente attorno balla senza coscienza.

I lettori sono ancora più lenti, curvi, con gli occhi ingobbiti di Aaron, intento a descrivere approfonditamente ciò che è incline a modificare una storia che ha deciso di cambiare per sempre. In peggio.

Canzoni testimoni.

Canzoni timoni di un avanzare stordito.

Canzoni come sberle mute, senza lividi sulla pelle.

Si evidenzia l’attenzione a moderare l’aspetto volto a trascinare la folla nel luogo della condivisione: le note sono cumuli di nebbia, così come le parole sono sanpietrini che tolgono sicurezza all’equilibrio, sempre più precario. 

Si fa necessario un silenzio opprimente, con la solitudine come eremo interiore, rimanendo ancorati a una socialità come baluardo di una nuova contraddizione. Le bugie, le promesse non mantenute, l’amore propenso a dissolversi sono i temi principali di un concept album visuale, criptico, ma così tanto affascinante da stordire pienamente. 

Per riuscire a trasportare tutto questo in note, accordi, assoli, la dinamica principale mette l’accento su un’accortezza mai notata nei precedenti lavori: piani sonori come piallati da un maturo senso dell’ordine, in un mantra meno esibito, però sviluppato attraverso arrangiamenti carichi di poesia e di una quota abbondante di un nuovo veleno, creato dalla band stessa…

Lo smarrimento genera paura, la paura che esce dalla coda di questa finta evoluzione finisce nei solchi di un vinile che pare una pietra in cerca del suo giusto vuoto, ma vince la volontà di non inchinarsi, nella ricerca di un dialogo senza presa ma a ogni modo preferibile.

La voce di Aaron trova le correnti ascensionali che lo conducono a mostrare le corde vocali piangenti, in un cammino osceno di arricchimento e stordimento, con il falsetto che prende ancora più spazio, con parole che paiono essere paralizzanti ma mai frutto di un flash o di un errore. Piuttosto: ha trovato il modo di elevare la sua già ricca capacità di scrittura e, così facendo, ecco diminuiti slogan e frasi a effetto, per collocare invece le sue visioni in un circuito sensato, fluido, amniotico, introverso, però sempre nei pressi di un lampione con gli occhi tristi e preoccupati.

Il climax viene addolcito (solo apparentemente) da un paio di ballads che, però, alla fine diventano una via crucis in cui le spine sembrano entrare perfettamente nella carne di pensieri che faticano a rimanere forti…

C’è una forma di disciplina, di costruzione di un senso che riesce a galvanizzare il Vecchio Scriba, e lo si intuisce quando la band prende in considerazione l’autocitazione nella rovente Loved You Then che, con Dear Silence, è l’unico episodio in cui il ritmo, veloce, porta tutto via, come se le parole fossero meno ottundenti.

Perimetrale, introversa, caduca, quasi genuflessa, questa manifesta intenzione di adoperare l’arte del confronto che non teme l’affronto diventa l’unico gancio, l’unico modo per portare gli ascoltatori in un abbraccio necessario soprattutto davanti alla devastante Our Song Is Sung, probabilmente il momento più intimo dell’intero catalogo della formazione mancuniana. La voce, l’arpeggio, il synth in ginocchio diventano una poesia operativa che scuote, abbatte e riduce a brandelli ogni resistenza possibile…

Si diventa orfani, prigionieri, bambole, transistor disattivati e quindi liberi di pensare, di ricondursi alla ragionevolezza: dieci ceffoni che alzano l’orgoglio e lo sparpagliano nelle zone buie di un dolore in difficoltà.

Un disco di questi tempi, visti, descritti e portati nel soffitto, per illuminare i passi…


C’è una spina che va tolta e una nuova inserita: probabilmente questa colonna sonora vi condurrà a scegliere, a negarvi la complicità con la stupidità e non vi sarà null’altro che un oceano con l’intenzione di tornare vergine…




Song by Song



1 - Technofear

‘You’re talking too loud I can’t get no sleep’

La guerra cambia faccia, strategie, si inserisce nei corridoi dell’incoscienza e spara, dritta al cuore. I Readers trovano la sintesi, non solo fotografano ma insistono, gettano nel ritmo parole che confondono, assottigliano la verità in una canzone che nel ritornello fa esplodere la sua forza come una fragilità inevitabile, anche grazie al coro che appesantisce senza cedere…

Le chitarre si piegano, lasciano il fraseggio del synth, ma rimangono cucite con il loro ardore post-punk a sigillare una fede assoluta..


2 - Animals

‘And so we shelter here that life outside has got so hard’

Echi di Abba, di Blur, di OMD aprono il palcoscenico per ospitare un sincopato teatro dove l’amore passionale cerca un incantesimo. Ed ecco la coppia sotto la luce della modernità generare fragilità mentre, dal canto suo, la musica prova a tradurre il tutto variando poco e lasciando alla chitarra di Kurtis il compito di ricordarci The Edge ai tempi di Boy. Tutto è fissativo e gli accordi cercano la strada più corta per non ferirsi, riuscendoci in pieno…



3 - Little White Lies

‘Our day is coming, our love is built to last’

Sorprendente, genitoriale, ammaliante, lenta, lontana dal cliché della scrittura dei quattro, dimostra come insistere su un concetto minimizzando ogni ipotesi che differenziarsi sia una scelta obbligatoria. Si ascolta così una poesia che trema mentre un loop rovista, il drumming semplice fa cullare i passi e il basso protegge, con Aaron che porta la sua voce a due passi dal paradiso, che attende la coppia descritta nel testo…




4 - Dear Silence

‘Stepping outside the rubicon no rules apply no law this is fight you fight alone no turning back no more’

Ciò che si invoca ha la consapevolezza di un potere in fase di sviluppo: ecco il silenzio avanzare come ipotesi, come colla, come incipit, come beneficio, come disperato luogo da visitare. Il ritmo è deciso, le rime abbagliano, il significato stordisce e si viaggia nei primi anni Novanta con il suono del treno dei Kraftwerk.  Energica, questa gemma sa offrire miglia di evasioni come una fionda che sa tornare in fretta al domicilio sonoro dei primi tempi di questa formazione. I “vecchi” Readers qui si presentano ed è gioia per chi non sa amare la loro evoluzione…



5 - Know This I Am

‘Know this I am, know this I am, I am the face in the mirror - haunted’

Una chitarra arpeggia nel vento, la nebbia scende nelle corde triste di Aaron, i brividi si affrettano a compattarsi e, quando il cantante prende il registro alto, ci si ritrova a essere cuccioli fragili, con la morte che bussa nelle retrovie della mente…

Drammatica, rivela un cavernicolo totalmente tormentato, diventando un assassino che si culla beatamente nell’esplosione trattenuta di una chitarra che sembra un pugno di sale,  mentre il drumming pare essere un messaggio di Giove…

L’amore, la fede, la speranza mutano per essere proiettili che sanno creare un inaspettato conflitto.

Devastante…



6 - Boys So Blue

‘Fake a laugh, paint a smile, boys in pain all the while, all an act, oh what can I do’

Le cicatrici: come metterle in musica?

L’alcol, la droga, il sesso, prendono piede nella mancanza di rispetto e si ritrovano protagonisti di questo brano che, come una inaspetatta overdose, cerca l’applauso della morte.

La tastiera all’inizio ci riporta a Cavalcade, e poi ecco la chitarra semiacustica divenire il canto assoluto che paralizza ancor prima di quello effettivo di Aaron. È un brano urbano, arcigno, che prova a essere gentile con la bruttezza, vincendo a mani basse…



7 - Pirouette

‘I’ve grown accustomed to thе life I was given, while taking hits from all sidеs’

L’Everest decide di fare due passi, o meglio, di danzare, per portare il bacio sulle tempie di una ballerina che viaggia nella visione di un arrivo mai concretizzato. Persiste la speranza nel futuro mentre una nuvola cupa porta il brano a un ritornello che fatica ad arrivare, con consapevolezza, per scelta, per alleggerire solo al  momento giusto una tensione evidente.

L’elettronica dei Readers qui risulta pienamente disposta a prendersi i riff di chitarra di Kurtis che svetta e porta l’Everest a riposarsi felice…



8 - Puppets

‘We could have been anything but world revolves around greed again’

A dieci anni di distanza da quel Cavalcade che li aveva portati nei circuiti alternativi, il terz’ultimo brano pare ribadire il concetto che gli anni Ottanta sono quelli nei quali si può saccheggiare, ai quali si può volgere lo sguardo. È un momento tristissimo, intrigante, con un tappeto sonoro su cui stendere l’avidità e l’odio con l’unico vero solo di chitarra di tutto l’album, in cui il cuore decide di andare in apnea…




9 - Loved You Then

‘Loved you then but I hate you now does me good just to say it out loud’

Il treno arriva, chitarre e synth in combutta, note acute, lancinanti, il freddo polare che entra nel testo, in un mondo dominato dall'avidità la band decide di esplorare il recente passato e di truccargli i fianchi.

Rapida, incisiva e mantrica…



10 - Our Song Is Sung

‘Searching my mind to find something to say get out of here’

Ed è la fine. Che rimane, implacabile, in versi e note in tinta pastello, per generare lacrime e smottamenti, con la morte che apre le braccia, sorridendo, mentre il cantato spazza via i sogni, in un synth che circonda il dolore con notte piumate, e la chitarra scandaglia gli artigli con dolcezza, in uno iato struggente e paralizzante. La più triste canzone di sempre dei Readers chiude questo album e si fatica a immaginare un brano che sappia condensare la verità con maggiore capacità di questo. E il falsetto, i brividi di una rullata che spazza via la luce fanno di questa chiusura una benedizione.

E si torna all’ascolto della prima per ingannare noi stessi, mentre la verità i quattro l’hanno incisa per sempre…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

5-3-2025

La mia Recensione: The Slow Readers - Out Of A Dream

  The Slow Readers Club - Out Of A Dream Mani, tracce, odori, profumi, proiezioni (alcune dirette, altre inclini a una diplomatica forma d...