Pink Turns Blue - Black Swan
Erano gli anni Ottanta, Leeds generava un flusso razionale ed emotivo enorme, a cui era stato dato l'appellativo di Post-punk, e tutto si era fatto nucleo, viscere, corteccia, piuma, spranga, per contaminare prima il suolo europeo e poi quello mondiale.
La città musicale per eccellenza guardava, studiava, prendeva prima le misure e poi le distanze, sapendo divenire in fretta un faro buio, nelle vicinanze di un coinvolgimento gotico e letterario senza possibilità di contraddirne la forza.
Berlino creò un infinito grigio di cui due musicisti furono paladini, ma senza nessuna volontà di esserne il cardine e gli esponenti più in vista.
I Pink Turns Blue sono una istituzione quasi religiosa per quella Germania che sa come amare i propri figli, sicura che il duo (ora diventato trio), non tradisce, tiene tra le proprie talentuose braccia chilometri di arte che non desidera essere esposta alla luce dei media, delle persone, di chiunque, per quella semplicità, modestia, senso teutonico del lavoro che non cerca applausi, per una non strategia che sa fluttuare tra le ombre prendendosi quel poco ossigeno che basta per generare pillole sonore in odore di anestesia, nell’apoteosi di sussurri e suggerimenti che spesso sono davvero praticamente invisibili.
Mic Jogwer, Paul Richter e Luca Sammuri sono riapparsi, come prede scheggiate, come cilindri sonici in un giorno di lavoro, con la valigia piena di storia, geografia, sociologia e una dieta che invita l’egoismo moderno a sciogliersi. Esplorano con sempre maggior meticolosità gli anfratti del Post-punk, diminuendo ancora di più la fantasia, le illuminazioni, mettendo a tacere l’istinto e lavorando, piuttosto, su poche linee, su ampi loop da cui trarre la vitalità che serve sia a loro che a noi.
Un’orchestra mentale invita le note a essere discrete, trasparenti, feroci, come cannibali antichi che sanno come mordere le caviglie: la malinconia non viene lasciata sola, bensì accompagnata da una visione che spinge a un’unità umana degna della scuola filosofica del 1900 che, guarda caso, veniva proprio da un’altra città tedesca.
Un disco come un viaggio con un sacco di iuta sulle spalle, a raccogliere, a seminare, ad aspettare, a sorridere, mai a far piangere, perché quello non è il loro compito.
La claustrofobia del vivere moderno entra nella nebbia di chitarre obbedienti, del drumming secco e votato alla semplicità, con il basso che rimane affezionato ai Red Lorry Yellow Lorry per un tappeto che, grazie a tastiere velate, rende omogenea l’intensità e la erige al ruolo di semaforo mentale.
Riff non complicati ma profondi affondano, il cantato di Mic è sempre più uno scheletro con palpitazioni sghembe, irresistibile e provocatorio, con il suo inconfondibile accento a farci sorridere come tenera forma di abbraccio. Le sue parole, però, sono lamine e spine che non tornano mai nella sua gola…
Il suono è un marchingegno oscuro, un mistero che cerca l’ampiezza del pop, tossendo, prendendo da quella Leeds di cui si diceva prima le particelle velenose delle sue fabbriche, per un ipotetico ponte con Berlino, al fine di seminare un invisibile territorio di morte e lutti.
Il trio non cerca di essere convincente con canzoni piene di varianti, di trucchi e accessi colmi di eccessi: preferisce una modalità desertica, insieme al sole e alla luna, al caldo e al freddo e il dolore e la poca gioia tutti confluiti in pochi accordi, raggiungendo il risultato di essere maggiormente convincenti e in grado di divenire uno specchio mai appannato.
La magia delle dodici composizioni sta tutta nella direzione, in questi proiettili gentili con il bavero alzato, insieme alla dose perfetta di struggenti affermazioni, nelle quali i rapporti tra l’io e gli altri pare essere un film quasi muto, per generare oscillanti proiezioni colme di sudore e tosse: incute paura, il giusto disagio e, se si presta attenzione, tutto è perfettamente posizionato tra il meccanismo freddo e distaccato e una generosa esplosione affettiva.
La produzione conferisce la giusta continuità rispetto al precedente, e in essa è ben chiaro che i quasi quarant’anni di carriera ci propongono persone molto distanti dagli esordi, ma con la stessa propensione a fare della musica un lavoro serio e non un parco giochi privo di specifiche premure.
Il fascino con loro diventa la palestra di una intelligenza che non può avere tanti seguaci: sempre stati avanti loro e queste tracce dimostrano, grazie a un’ossatura verticale e mai pomposa, di lasciare da parte le velleità del successo, che è per loro un avvenimento inutile. Tutto ciò lo si comprende bene perché sono undici sentenze, dove nessuno sale sul loro treno ma, davvero, credetemi, è preferibile per la massa evitare i suoi binari.
Molte band attuali sono cresciute grazie ai PTB e hanno poi preferito imbalsamare la ricchezza dello spirito con la bellezza estetica, quella sterile.
Il rosa, il blu e il nero: tre colori messi di fila, come un logico mantello di appartenenza, con la pelle, il cielo e la morte saggiamente rappresentati in questi solchi.
Non possiamo fare altro che avvicinare le orecchie al suo interno e deglutire la gioia e la paura, come unico atto intelligente…
Song by Song
1 - Follow Me
I synth pieni di crepe e la chitarra malinconica battezzano l’album. E poi un’anima si pone domande, cerca risposte nel cielo e nelle persone per una canzone piena di dolore in transito, con la pelle che trema in questo riff elettronico figlio dei Kraftwerk e nelle chitarre piene proprio della luce cupa di questa band ai loro esordi. Un invito che è la risposta muta di chi adora questa prima traccia, come una cosa buona e giusta…
2 - Can’t Do Without You
Eccola la canzone pop, o meglio, che prova a entrare in un posto di cui la band non ha mai voluto fare parte. Diventa un singolo, un generatore di collante tra quel genere e l’indie elettronico, con il ritmo che assume le sembianze di un mantra semplice su cui si appoggia la linea del synth.
3 - Dancing With Ghosts
Si provi a immaginare un punto nel cielo in cui le traiettorie chitarristiche dei Mission e dei Red Lorry Yellow Lorry si incrociano. Ecco: da qui parte un arcobaleno di bellezza liquida con invocazioni, desideri verso una metrica essenziale e tipicizzante per i Berlinesi. Ed è stupore e gioia in miscelata danza.
4 - Fighting for the Right Side
Come tradurre la claustrofobia in un calendario in cui le candele sono spente e spinte da questo basso a portare la voce sulle pareti tappezzate da un profondo bisogno di giustizia. Chitarre che assorbono il glam, quasi hard rock, brevi attimi e poi è poesia decadente per condurre questo pezzo sul loro podio di cui noi non possiamo che desiderare di condividere lo spazio.
5 - Why Can’t We Just Move On
Ci ritroviamo nella dark electro zone degli Slow Readers Club, con Manchester che chiama a sé Berlino. Una grazia sonora viene invasa da una tristezza che paralizza. Ed è mantra come una epilessia genetica che sparge sale e miele…
6 - Black Swan (But I Know There’s More to Life)
Siamo al punto più alto, dove il Dio del volo perde il fiato. Nasce un pianto onesto su questi tasti in bianco e nero, sulla voce grigia, su questo cigno che pare volare tra le pareti di un testo perfettamente adiacente alle frustrate di una chitarra che cerca di graffiarci il respiro, per una sensazione di ipnotica dannazione senza fine…
7 - Like We All Do
Ogni lampo ha una invisibile forza contraria: ecco ciò che accade in questa improvvisa corsa che ci ricorda i Belfegore, con quel medesimo impeto che raggelava la notte. Il crescendo di chitarre rock (nei pressi dei Cult di Sonic Temple) ci induce a una gioia di cui non si conosce l’indirizzo ma, come farfalle drogate di vita, ci arriveremo trafelati. E gli errori dell’esistenza trovano in questo piccolo gioiello urbano un catino perfetto…
8 - Friday Night Out
Accordi ingannevoli precedono uno sputo fumogeno, velenoso, con il ricordo dei primi singoli dei Fields of the Nephilim (specialmente nel giro del basso e nella “semplicità” della chitarra), a rendere questa canzone la sintesi dell’evoluzione della band della capitale tedesca: tutto qui è visione poetica, in chiaroscuro, in stato di peccaminosa forma di avviso per ciò che potrebbe succederci…
9 - Please Don’t Ask Me Why
Mai dimentichi del loro disco d'esordio, i tre sciorinano canzoni come gocce d’acqua piene di memoria. Il brano è un abbraccio temporale, un bacio alle tempie e un invito a leggere la vita dei sentimenti con attenzione. La voce diventa esiziale, propedeutica, recitativa sulle agghiaccianti vibrazioni di una sei corde in stato di trance…
10 - I Can Read Your Name in the Stars
Terzo episodio in cui il pianoforte prende il palcoscenico: è solo il trampolino di lancio per una serie di parole che sanno essere una fionda gentile, in attesa del tuono. Che arriva, dolcemente, come se il tutto fosse la base di una inconsueta ballad, per un baritonale approccio dimenticato al fine di favorire l’inclinazione di una serie di inaspettati sorrisi…
11 - Stay for the Night
La gloria deve avere una corona ben visibile da tutti. Si chiude sempre un percorso con l’infinito che illumina il passato. Così fa questa canzone, sintesi sontuosa e perfetta di un delittuoso atto di bellezza che fa del loop congenito e sviluppato in tre precise fasi lo spettacolare anfiteatro di una barriera corallina sonora che fa piangere malgrado tutto. Una densità onirica, una sequenza di riferimenti resi sottili e quasi nascosti, ma in queste poche note succede il caos, il suo contrario, in un avvicendamento ondivago, con il cuore del pezzo che mostra i bagliori della sua complessità quando viene a mancare il drumming e il synth. Proprio in quel momento capisci le zone di smottamento che sa produrre questo pazzesco brano che chiude l’album e apre il cuore verso una paranoica e irresistibile volontà di circondarsi di questa magnetica dipendenza…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Marzo 2025
https://pinkturnsblue.bandcamp.com/album/black-swan
ORDEN-RECORDS BERLIN - MusicBrainz
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