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domenica 26 marzo 2023

La mia Recensione: Snow Ghosts - The Fell

 Snow Ghosts - The Fell


Sul podio come album dell’anno del 2023: il vecchio scriba deve ancora decidere la posizione, ma la band di Bath ci salirà di sicuro, perché dentro il cuore queste composizioni producono magia continua, accarezzano la pelle e sprigionano chilometri di molecole del sorriso, sì,  quella serotonina sempre più rara.

Certamente la musica contiene strati di difficoltà quotidiana, zone d’ombra, urla soffocate, ma i due (ora tre perché raggiunti da un polistrumentista eccelso che risponde al nome di Oliver Knowles) sanno coniugare la drammaticità del Neo Folk a una elettronica cupa riuscendo, incredibilmente, a dare energie e non tormenti. Certamente con l’ascolto non si ride, ma si riflette e lo si fa benissimo e da qui ecco spiegati i sorrisi.

Con questo lavoro maestoso, mai apocalittico, sempre centrato a rappresentare le centraline impervie dello spirito umano, la band sa come prenderci per mano e portarci nelle zone nelle quali potremmo avere paura. Ma loro sono sicuri, decisi, come anche delicati. La voce di Hannah Cartwright è una spugna che tende le sue braccia, per raggiungere note spargendo vibrazioni e calore, con il supporto di Ross Tones e di Oliver, angeli del suono e delle trame che si affacciano sulle sponde del fiume pieno di battiti elettronici, sempre sperimentali e verticali: si sale dal basso verso l’alto per elevare la mente. Ogni elemento diventa mitologico, anacronistico, di una propensione mistica incontrollabile, il rapporto con il suolo e i suoi elementi (sino ad arrivare ai segreti della Natura) vagano liberamente nei solchi di queste dodici perle, per definire la ricerca e sistemarla tra le braccia del cielo. L’accadimento pandemico ha maggiorato l’intenzione di valutare le dinamiche comportamentali, politiche e sociali, per cucire al tutto un abito che non distrugga nulla, affinché la memoria diventi un’esperienza che insegni. Non alzano mai la voce, non si gettano velocemente in stupide pulsioni, bensì ragionano, per divenire dottori dell’anima che per curarci costruiscono pillole di poesia da prendere prima e dopo i pasti…

Ma alla fine, inevitabilmente, si piange: un album così non potrà che sollevare i coperchi della nostra mediocrità perché questa saggezza, questa modalità di espressione è un seme splendido a cui bisogna far posto.

Che l’incredulità di questa bellezza trovi posto in voi… 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26 Marzo 2023


https://snowghosts.bandcamp.com/album/the-fell






My Review: Snow Ghosts - The Fell

 Snow Ghosts - The Fell


On the podium as album of the year 2023: the old scribe has yet to decide on the position, but the Bath band will definitely get there, because inside the heart these compositions produce continuous magic, caress the skin and release miles of smile molecules, yes, that increasingly rare serotonin.

Certainly, the music contains layers of everyday difficulties, shadowy areas, stifled screams, but the two (now three because they are joined by an excellent multi-instrumentalist who answers to the name of Oliver Knowles) know how to combine the drama of Neo Folk with dark electronics, succeeding, incredibly, in giving energy and not torment. Certainly by listening, one does not laugh, but one reflects and does so very well, hence the smiles.

With this majestic work, never apocalyptic, always focused on representing the impervious powerhouses of the human spirit, the band knows how to take us by the hand and lead us into areas where we might be afraid. But they are confident, decisive, as well as delicate. Hannah Cartwright's voice is a sponge that stretches out its arms, to reach notes spreading vibrations and warmth, with the support of Ross Tones and Oliver, angels of sound and textures that overlook the banks of the river full of electronic beats, always experimental and vertical: it rises from the bottom to the top to elevate the mind. Each element becomes mythological, anachronistic, of an uncontrollable mystical propensity, the relationship with the soil and its elements (up to the secrets of Nature) wander freely in the grooves of these twelve pearls, to define the quest and place it in the arms of heaven. The pandemic event has increased the intention to evaluate the behavioural, political and social dynamics, to sew to the whole a dress that does not destroy anything, so that memory becomes an experience that teaches. They never raise their voices, they do not throw themselves quickly into silly impulses, but they reason, to become doctors of the soul who, in order to cure us, construct pills of poetry to be taken before and after meals...

But in the end, inevitably, we weep: an album like this can only lift the lids of our mediocrity because this wisdom, this mode of expression is a splendid seed that must be made room for.

May the incredulity of this beauty find a place in you.... 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26th March 2023


https://snowghosts.bandcamp.com/album/the-fell









giovedì 10 novembre 2022

La mia Recensione - Ayn & Marlen und Marlen - From The Floor Below

Ayn & Marlen und Marlen - From The Floor Below

Onde su onde nel mare nero del dolore cercano un suono univoco, nella ricerca del quale si muovono discepoli curiosi, con oggetti, deviazioni, frustrazioni tenute elegantemente insieme da brani multiformi al confine del delirio. Arrivano da una piuma grigia della provincia di Biella, in quel Piemonte ricco di boschi, colline, a pochi chilometri da montagne schive, quindi immense.

Ed è da Ponderano, per l’esattezza, che anime a contatto con la disperazione e il fato, compiono il miracolo diabolico di seminare sospetti, scomodità, lacerazioni dai volti anneriti, da sensazioni sconvolte, il tutto all’insegna della lentezza che divarica la mente.

Ed è etereo vagare, etereo sentire ed etereo smarrimento nella scorribanda esistenziale che espone frutti dal profumo corrotto da una bellezza acerba, magistralmente potente.

Sussurri, assenza di urla e rumore che inquinerebbero il tutto, qui siamo al cospetto di un’opera colossale, che impegna l’ascolto per renderlo stremato e perfetto.

È analisi del tempo più che dei luoghi i quali, però, vengono mostrati come un impatto di battiti necessari, quasi smottati a causa delle campane del Signore del senso.

Perché Ayn & Marlen und Marlen del tempo studiano la forma, ascoltano i suoni pelvici e i tremori celebrali sino a creare, con la creta deliziosa di mani sapienti,  bagliori che lo rappresentano senza equivoci. Un album come esperienza continua con la solennità, il sottile dispiacere che parte da essere un taglio per divenire la crepa di un burrone in decomposizione. In tutto questo il sole nero che si pavoneggia all’interno di una grotta ha il ruolo di domandare all’esigenza il suo senso. Perché sa che senza se stesso la vita è già morte. 

Chitarre elettriche decadenti, in un post-punk avvelenato di tristezza, e chitarre ritmiche semiacustiche a generare il contatto con il folk rock non ammaestrabile conferiscono solo la base di suoni medievali perennemente in stato di eccitazione, tenuti a bada con fermezza per non generare confusione.


 Psichedelico è l’umore, magnetico è il pulsare, dilatata è la propensione di una inquietudine in movimento, tra ombre e abisso che si cercano incessantemente, con gocce di sudore che si sciolgono nell’acido di questa storia itinerante.

Nel disco si vola, lentamente, con le ali chiuse, nelle viscere delle tentazioni, nel ventre terrestre febbricitante, privo di lamenti.

Non sono generi musicali in parata, tantomeno danze che attendono di compiersi, bensì processi mentali che fustigano le velleità, ammanettandole e conducendole obbligatoriamente al nichilismo, Re della ragione, in attesa della vestizione.


Cantilene orgiastiche escono da fumi come funi: pronti ad affezionarsi al collo per sbiancarlo, con una presa che stringe piano piano. Un lavoro limpido nel girone della malinconia, di un gravitare nella psicoanalisi, con i Maestri a suggerire linee melodiche colme di stregoneria plumbea.

Tutto è un romanzo, tra questi solchi, partendo proprio da chi lo ha ospitato prima e pilotato dopo: Fëdor Dostoevskij.

Perché tutto pare proprio arrivare dal 1800 e dalle pagine di un libro, Bibbia sacrilega dell’anima dal titolo “Memorie dal sottosuolo”. Ed è ciò che vive segretamente tra la terra e le radici che troviamo in questo concept album: scavare dentro di sé, come un pellegrinaggio in cerca della meta.

Obbligata a essere metafisica.

Lo è per davvero perché tra le canzoni troviamo realtà assolute che neghiamo in quanto amiamo la comodità, la falsità e non l’autenticità e il rispetto delle sue leggi.


Quando si ascolta musica come quella che troviamo qui si è fortunati: un ingresso ci aspetta per portarci nei luoghi senza luci, come palestra, come allenamento per quello che verrà alla fine dei nostri battiti. Si vince il desiderio del bene per vivere la dimensione del perdersi, dove nessuna catarsi ci attende per purificarci e realizzare i nostri meriti e mezzi, ma piuttosto un veder proiettati i satelliti neri nella verità più profonda.

Si acquisisce appartenenza. Indissolubile.

Cacofonie, estremizzazioni, gocce di sale che escono da tastiere dal respiro ipnotico, sono i protagonisti del circo dannato di oscillazioni antiche che tornano tra le dita di questi cavalieri ombrosi.


Fluida architettura tra neuroni che, paralizzati, riescono in ogni caso a costruire un palazzo mentale, non come rifugio ma come espressione di una necessità. La band non corre, non ha fretta, perché sa bene come la lentezza sia saggezza, seppur anacronistica. 

Le suggestioni, i richiami, le vibrazioni sono il metronomo perfetto di un incedere che deve dare chiarezza all’interno della nebbia e non fuori.


Avverti il loro carillon sottolineare il tempo con lacrime fiere e robuste, sottili quando i sussurri della voce di Marleund Marlen sembra l’alito segreto di ogni respiro.

Mentre Ayn canta come un pilota delle tenebre, quasi esanime, portentoso. I due guidano le musiche verso passi che si distanziano dalla fisicità, attaccati come un francobollo al desiderio di unirsi come entità in via di estinzione.

Si deve uccidere il luccichio, separare solo l’inevitabile, con l’amore come ingombro e nei testi troviamo la maniacale esibizione di estremi che, con totale ragione e abnegazione, ci calamitano verso la purezza. Niente muta, abbisogna solo di essere conosciuto, tra vermi, sostanze ignote, dentro le chitarre che si prendono la responsabilità di decodificare e il lavoro delle bacchette di una batteria che quando arrivano sulle pelli aprono templi, con il basso che è uno schiavo ubbidiente della bellezza ammaestrata.

Non c’è più tempo per divagare: sia ora il momento di avere coraggio e bramosia per visitare questa bellezza eccelsa.



Song by Song


1 Catabasi


Il fuoco crea disastro, e la coltre di fumo diventa lava concentrica: il primo brano è il giorno dopo una eclissi morta in fretta con crepitii, voci, tastiere a rendere tragico il pensiero.



2 My Body Made Of Nothing 


Chitarra Darkwave su una lastra chimica, l’apocalissi gioca con il Neo-Folk e la voce peccaminosa di Marleund crea vibrazioni costanti.


3 Neptune In The V House


Il romanzo cresce, le pagine si aprono sotto occhi che scoprono la sfera glaciale, tamburi lontani come furori su una tastiera che diventa complice del fuoco.


4 Never Come  Back


Il dramma entra nella voce femminile su uno scampanellio che ci ricorda i Virgin Prunes e i Death in June in stato di grazia.

Quando arriva Ayn tutto si fa corale e la decadenza è il regalo del dolore.


5 Memoires Du Sous Sol


Gli In The Nursery e i Dead Can Dance più malefici si incontrano su questa traccia cupa e nefasta, lucente perché mostra la paura con la sua faccia ghignante.


6 Alchemical


Arriva quasi la dolcezza, come punizione divina, in una ballata liturgica dentro chitarre piene di echi e suggestioni magnifiche, con la voce che ci ricorda l’onda eterea della rimpianta 4ad.



7 The Worm is Born


Gli spettri baciano le profondità, le sue creature. Una chitarra Neo-Folk, doppie voci e controcanti deliziosi si sdraiano su una tastiera in odore di eternità. Ed è commozione pura.



8 Immutable Black


Tutto bolle ed evapora con le chitarre che sembrano birilli argentati mentre colpiscono anime deboli. Ed è Dark Country sino ad arrivare nella zona sacra dei Coil più armonici e peccaminosi. Ed è processione su un drumming che sveglia e ci trasporta sulla voce di Marleund Marlen, evocatrice dell’anima.


9 Anabasi


È la fine, tutto sfuma, si è massa liquefatta con il fiato congelato. La musica è Ambient e soffocante, permeata da suoni acidi che escono da grotte insanguinate. Iniziato con un delirio di presentazione, l’album si conclude con l’ultimo atto nichilista.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

11 Novembre 2022


https://soundcloud.com/taiyototetsuo/sets/ayn-marlen-und-marlen/s-BYpfusfUFQV?si=68973578ac244bd1a5e08098d1180ef2&utm_source=clipboard&utm_medium=text&utm_campaign=social_sharing&fbclid=IwAR3tYx9vBGidrBcEeSwLF-YvqmHPXnlQncwFfM2WAvee9ik2TCffsZzXREs






sabato 11 giugno 2022

La mia Recensione: Einsturzende Neubauten - Halber Mensch

La mia Recensione:


Einsturzende Neubauten - Halber Mensch


Luogo di collocazione emotivo: pozzanghera elettrica.


Epoca: attorno alla perdizione sensoriale, circa.


Elementi necessari all’ascolto: fulmini addominali, senza pause né disturbi.


La disgrazia delle preferenze giunge alla punizione onesta, nessuna possibilità di sfuggire, si sono rotti gli argini dell’inferno, per accogliere in un tripudio di ferite lancinanti chi osa stare lontano da questo orgasmo bellico.

Üntergang è il luogo del precipizio, la casa di un fuoco fatuo che ha generato un’onda che copre l’inconsapevole mondo. Da Berlino, dove tutto geme e urla, dove si progettano impalcature di bellezze siderali, dove non c’è uscita di sicurezza, nasce la follia delle forme più astruse e caotiche, l’orgasmo nero che annichilisce.

Necessità di terrorizzare la banalità, la comfort zone, le genuflessioni deprimenti e senza nerbo, il dovere di educare l’ignoto verso uno scontro fatto di scintille e detriti sonori. Ecco che gli edifici devono crollare e provocare fastidio, dolore, confusione, su polvere di fumo benedetto da anime sconvolte e disobbedienti ad una sistemazione esistenziale priva di contenuto, concetto e perdizione.

Non ci sono palchi, le transenne vengono gettate sotto lame senza perdono, si tritura il presente, nel delirio del “tutto serve” per rendere martire ogni cosa.

Dopo due collezioni di lava sanguinante e corrosiva, i Berlinesi decidono di infangare il suono e cercare una collocazione diversa per dare l’impressione di un cedimento, di un inganno: siamo illusi, ignoranti, gli EN utilizzano la volgarità per smascherare le nostre stupide conclusioni.

Alber Mensch è omicidio culturale, valanghe che puzzano di cupidigia disastrata e perfetta.

Al suo interno troviamo molto più della morte. Questa, a confronto della distruzione che ci viene mostrata, diventa un incubo tollerabile. Concessioni e negazioni, sferzate concettuali su territori sconosciuti e armati di torbido orrore, di silenzi sverginati con fruste nere, piene di borchie: alla pace è tolta ogni accessibilità, non ne troverete e sarete prigionieri dell’esaltazione traumatica.

Se il terrore, il disagio, la fuga senza più ossigeno nei nervi potete chiamarli musica, accomodatevi pure e rilassatevi, è pronto il rito dello sconvolgimento a segare la presunzione.

Gli EN non concedono respiro, oltre gli inferi c’è solo la constatazione di un dolore e della perdizione che, uniti, massacrano tutto quello che è convenzionale. 

A morte l’abitudine, allora.

Loro danno spazio a ciò che non ha grazia, una disgrazia che contagia sino all’irrigidimento del tutto, come unico, spaventoso godimento.

Berlino come Nagasaki: morte del futuro, conclamata e impossibile da seppellire, tra le lamiere e le spinte allucinogene di massacri continui a ogni forma di bellezza.

Lo stato dello cose (Wim Wenders lui sa) conosce l’ultimo passo tra i lacci attorno ai nostri pensieri, l’attesa della fine dell’incubo dura cinquantacinque minuti e cinquantacinque secondi: troppi, vero?

Berlino inchiodata alla sua croce, forse “tradita” dai suoi stessi concittadini, la purga più intollerabile da subire, nei liquidi amniotici come in quelli gastrici, urla di rabbia contro queste creature uscite dal sorriso dei vermi. La violenza abita, conquista, entra in aghi sorridenti di tossicità varie, acquisite e conquistate per liberarsi della noia e del vuoto. Freddo oltre i Poli, ossidata la temperatura, si può concedere al delirio la polverizzazione degli schemi, un massacro pianificato, dove il baricentro di ogni follia sorride alla devastazione mai contemplata prima.

Sono strategici, furbi, maliziosi gli EN: dopo avere per davvero distrutto i timpani con Kollaps e Zeichnungen des Patienten O. T., mitragliate furiose al di là di ogni immaginazione, creano il teatro della illusione intossicando con finta musica, dove sembrano esistere le condizioni di parvenze sonore vicino alla forma canzone.

Certo, è così, ma a quale prezzo, in quale modo, chi può davvero sentirsi salvo davanti a questa concessione?

Petali di litanie ossessive gravitano nei canali uditivi per infiammare ogni desiderio melodico, una precipitazione continua di malumore, di dissolvenza emotiva necessaria per i cinque distributori di dinamite al fine di non concedere il respiro di un sogno che porti l’ascoltatore in un bunker. Tutto inutile.

Qualcosa doveva crollare, sono partiti dal basamento di una cultura corrotta, storta, complice, venduta al consumismo e dove l’ideale politico incominciava a stare stretto ad una piccola “tribù indegna”: gli EN ne erano i più feroci rappresentanti e l’arte era vista come un’apoteosi che poteva fornire gli elementi e gli argomenti giusti. Giù tutto allora, ruspe e martelli pneumatici a sfracellare quel cemento, quell’acciaio buono solo per essere visto stravolto e abbattuto. 

Il cantato di Blixa proveniente dalle catacombe ben si allineava agli attacchi perversi degli altri quattro, come uno scudo lanciato a bomba sulle armonie, le frivolezze, le giocosità di canzoni non più tollerabili. Bisognava cancellare un passato scomodo esercitando una violenza diversa, distruggere se stessi per nascere puri, con la polvere di cemento sulla pelle, in stato perenne. Ed ecco l’occasione per eliminare l’ego di un mondo ormai già sordo ma non consapevole: Halber Mensch dunque come viatico necessario per scoprire responsabilità, colpe, disarmonie, e conoscere l’annullamento del diritto al “sempre avanti comunque”; gli EN dichiarano la guerra e procedono, senza ostaggi. La pelle dell’uomo andava scorticata, incenerita, presa a colpi di pistola, ferita da scosse elettriche primordiali, buttata nel vuoto da scorribande di fresatrici semoventi, bisognava capitalizzare il materiale bellico infinito a disposizione: l’amica Pazzia, dagli occhi pieni di vene nere, saldata a stagno, senza esitazioni, giungeva come unico aiuto. Una distruzione creativa che deve divenire una sirena d’allarme per ogni coscienza in fase di opposizione: gli EN sparano, costruiscono armi chimiche nei sepolcri sacri dei loro eccessi, come prigionia liberatoria, assoluta.

Come vedremo più avanti, la band berlinese non dimentica nemmeno l’amore: lo butta nel fuoco di attacchi implacabili, non risparmia accuse, lo circonda di velenose polemiche e gli strappa la maschera.

Per assurdo gli EN si mostrano più raffinati e addirittura eleganti rispetto agli esordi ma è un’illusione mirata, usata con le armi di chi crede al loro processo di caduta. Rimane, invece, un assalto davvero implacabile, post moderno. Sotto i detriti che lasciano ben in vista, ci sono i commenti terribili nei confronti della società, della politica, con i polsi legati che poi vengono tagliati, senza esitazione. Entrano nel teatro mondiale della rappresentazione del finto come se dappertutto esistessero Charlottenburg e il Deutsche Oper Berlin, per un balletto dove la realtà viene fatta danzare consapevole della morte imminente.

Un lavoro che evidenzia tracce di minimalismo già presente nella capitale tedesca ben da prima dei cinque metallurgici impazziti. Un cammino verso un dandismo sonoro, una pseudo complicità organica per sistemare bene i loro ordigni, come se fossero stati puliti prima dell’esplosione dei nostri ascolti. 

Ma tutto ciò che ho scritto potrebbe far pensare a un album accessibile rispetto al loro stesso passato e accessibile al contempo per chi ha dimestichezza con certe “sonorità”. Nulla di più falso, perché non ci si deve soffermare sulla struttura del suono ma occorre includere quella dei testi, forse addirittura molto più ostili di ogni distruzione più o meno alleggerita rispetto ai primi due fuochi, datati 1981 e 1983. 

Occorre però specificare: mentre i primi vagiti di musica industriale si concentravano sulla produzione di rumori casuali, disturbando quel poco che conducesse ad una sterile soddisfazione, gli Einsturzende Neubauten erano desiderosi, sin dall’inizio, di costruire temi, argomenti, per poi creare un’opera di unificazione di strutture che si ponevano decisamente al di fuori di quella che era considerata la musica classica accademica del ventesimo secolo, cioè il volgare Pop.

Halber Mensche diventa così un’evoluzione colta, spiazzante, determinata da una consapevolezza di ulteriori necessità, non un vero cambiamento bensì una saldatura composta di nuovi elettrodi fusibili, per poi causare il piegamento di leghe di Nichel e leghe di Titanio per un osceno divertimento bellico. Distruggere per togliere il puzzo umano incosciente, sedato da millenni di comodità e abitudini volgari. Ci pensano gli EN, portandoci nella scuola del rumore dedita alla ricerca sonora, alla contemplazione fuori da ogni logica, dando chiaramente l’impressione di voler creare una generazione violenta, sintetica e anticipatrice di un nichilismo senza possibilità di arresto. Tutto viene facilitato dal punto di partenza: distruggere Berlino usando la fertile cultura che vive nei sotterranei, quella degli anni 70 che osava, creava avanguardie e progettava una vita parallela. Ascoltare questo lavoro è vivere di respiri, infiniti sussurri maniacali che viaggiano nell’addome invocando urla strazianti, coralità come base di risate isteriche e grottesche, per essere liberi di creare lo sterminio di atmosfere surreali, alla ricerca dell’apocalisse. Che verrà.

Abbiamo la sicurezza di essere stati divisi in due e che la metà ancora in vita sia quella cattiva, pesante, devastante e devastata. L’altra metà è rimasta uccisa dalle presse, dallo stress e dai lampi. Il sarcasmo e la dura critica sociale della band le ha chiuso le vene, insieme alla loquacità metodica e capace di spezzarle il fiato. 

Blixa nell’album diventa più devastante, col suo cantato, rispetto ai suoi compagni di avventura, dando alla sua continuità espressiva il ruolo di ricercatore di ossessioni, di limitatore della libertà, come l’antico greco Caronte, trasportando i morti e la morte entro le tracce di questo disco, come se l’appuntamento fosse all’interno del cimitero di Dorotheenstadt.

Che si taccia ora! È tempo di dare senso a questa fiumana di parole, andiamo a spaccare gli  otto pilastri, per guardare i lori interni e avvolgerci nello stordimento.



Canzone per canzone



Halber Mensch


Tutto inizia con un coro femminile a cappella, in una modalità che fa pensare a qualcosa di poco umano, desideroso di creare qualcosa di terrificante, sino a quando Blixa libera tutta la sua intensità e forza evocativa mentre parla della morte dell’intelligenza e di un pensiero che deve conoscere uno spazio maggiormente libero. Vistosa dimostrazione che gli “strumenti” musicali della band potevano conoscere un pò di riposo, offrire una pausa prima di rendere evidente, nell’album, una natura meno incline alla pura distruzione dei lavori precedenti ma non per questo meno “disturbanti”.




Yü-Gung (Fütter Mein Ego)


Ci troviamo davanti a una sorpresa nella loro carriera: ritmo isterico, priva di melodia, un treno che accelera e frena, il cantato che da solo graffia sino al finale claustrofobico. Percussioni sotto forma di loop con inserti synth, nel labirinto di una corsa che sembra uno schianto continuo, consente al combo tedesco la prima vera, e riuscita, canzone che precederà l’ingresso della band verso soluzioni dinamiche diverse e anche di interesse nei confronti di quell’elettronica che sperimenteranno maggiormente in futuro.




Trinklied


Soldati camminano in una marcia ipnotica, tutto ridotto nella strumentazione per affacciarsi a tratti, brevemente, creando poi continuità in un cantato isterico: quando dalla sintesi nasce la base del terrore, un degrado certificato, preludio della successiva Z.N.S.

Un racconto sonoro, sintetico, suggestivo, teso, nevrotico, dove l’attore Blixa mangia il palco con la sua voce, risucchiando ogni atomo di polvere dentro il suo cantato e lo squallore cantato perfettamente.




Z.N.S


La nostra vita viene dichiarata come sfacelo inevitabile, in una nube folle di percussioni che cadono dal cielo, urla scomposte e vibrazioni di pseudo feedback, in una ossessione resa praticabile. Tutto è governato da un continuo schiocco delle dita, una trave viene percossa ossessivamente, un senso di oppressione governa l'ascolto mentre Blixa racconta perfettamente, con enfasi, di una crisi di astinenza da sostanze stupefacenti per rendere definitive tutte le nevrosi e i deliri umani. Incantevole la mancata continuità musicale, che arriva a sprazzi, incendiata da soluzioni nuove, negando di fatto che abbia tutti i crismi della canzone. Diabolica.




Seele Brennt


La forza di una allucinazione governa la potentissima Seele Brennt, manifesto della loro insurrezione, di piani dinamici discontinui e per questo spaventosi, dove l’urlo agghiacciante di Blixa terrorizza appoggiato ad una carica tellurica tenuta quasi nascosta, e poi un colpo di frusta, il via dentro un pianoforte imbastardito. Con un finale che toglie il fiato all’interno di detriti che creano una tensione devastante. La suspense regna dentro dinamiche fatte di pause e riprese del ritmo per convogliare in un caos ragionato. E l’anima brucia in un giorno infuocato dalle schegge insensibili.




Sehnsucht


Abrasiva, maniacale, terrifica e allucinata, un ibrido perfetto tra il post-punk primordiale e l’urgenza distruttiva fuori ogni schema per generare un caos educato alla dipendenza immaginifica, chitarre sghembe e ritmiche (con accordi blues/psichedelici per brevi istanti), contornate da scuotimenti nevrotici sulla voce alienante di Blixa. Presenta una sensualità malata, dalla quale si viene risucchiati, dentro un nucleo teso a sparpagliare minuscoli atomi di melodia, subito abortiti. Una ragnatela sonora dalla quale è un piacere provare dipendenza.




Der Tod Ist Ein Dandy


Il momento più devastante dell'album, ipnotico e necessario per le anime viandanti, una ciminiera al lavoro, dove tutto viene buttato al suo interno.

Si viene soffocati da questa fabbrica che si impegna per schiacciarti, annullarti in un lavorio incessante, nessun riposo, turni continui sino allo sfinimento. Gli assordanti rumori sono alla fine salvifici: meglio morire con questa musica che non inganna come la vita, perché alla fine è celestiale essere triturati dentro la bellezza. Come in una produzione lavorativa dove viene annullato il pensiero, ecco che il brano ci butta in un tornio circondato da frese e altre macchine, dove l’inferno al confronto sembra calmo…




Letztes Biest (Am Himmel)


Dopo la morte causata con intensità, ecco che per l’ultimo brano la band si sente libera di sperimentare un funerale quasi melodico, sul palco di un teatro dadaista, dando modo di anticipare le nuove direzioni artistiche future. Brevi accordi recitati come se fossero un rosario, mentre il cantato si appoggia a un basso scordato e a uno scuotimento frammentato.


Alex Dematteis

Musicshockworld

11 Giugno 2022



Einsturzende Neubauten:


Blixa Bargeld

Mark Chung

Alexander Hacke

N.U. Unruh

F.M. Einheit


Produttore: Gareth Jones


https://open.spotify.com/album/5T06pEavfCaLWxhnq8eNdw?si=lnEGInCyRm6rfBn9PU-hVg








venerdì 13 maggio 2022

La mia Recensione: Area - International POPular Group / Crac!

 La mia Recensione:

Area - Crac!


I veri monumenti dovrebbero avere pianta stabile nella nostra mente, quotidianamente, come presenza tangibile di un’importanza riconosciuta.

Da dove partiamo?

Direi da Gianni Sassi, un monte, un’anima densa di impegni e qualità che ha continuato a smuovere le coscienze impegnandosi a tutto tondo, comprendendo anche la creazione della rivista d’arte ED912 e la casa discografica CRAMPS, insieme a Sergio Albergoni e Franco Mamone. 

Dopo aver ideato fantastiche copertine per album divenuti importanti e rilevanti, Gianni con la sua etichetta ha dato modo a diverse band di portare avanti un discorso di qualità a 360 gradi.

Gli Area ne sono l’esempio più fulgido.

La loro è stata una militanza politica che ha difeso pensieri, attitudini, ha modificato il significato di libertà in modo nobilissimo e attraverso la musica ha fatto del rock un insieme di luoghi, immagini e sostanza che ha stimolato un collettivo di notevole spessore. 

Sono qui per parlarvi del loro terzo album, Crac!, un Levitico moderno, potente e velenoso per chi fa del disimpegno un’attitudine di vita.

Ascoltare questo disco è sconsigliato per questo tipo di persone: davanti a pagine di storia che rappresentano la coscienza, per loro credo sia conveniente starne lontano.

L’abilità tecnica, ineccepibile, è funzionale a visitare l’ignoto con progressioni, stacchi, rallentamenti e accelerazioni sempre con la necessità di messaggi da approfondire. 

Il Jazz qui è un pulsare continuo che sa attendere il suo momento in quanto l’avanguardia e il progressive sono tuoni che vogliono illuminare il cielo. Le progressioni strumentali sono le voci di anime a testa bassa che vogliono alzarla, in un percorso evolutivo perfettamente raggiunto: non più generi mischiati, bensì l’evoluzione ascensionale di coinvolgimenti che sono stati educati.

 Il motivo?

Vi era la necessità che tutto fosse evidente, specificato, perché non diventasse solo catarsi, ma soprattutto indagine sonora e lirica per un tutto che non manifestasse solamente un puzzle concluso, quanto piuttosto un unico insieme di bellezza e coscienza dalla lampadina accesa.

Crudo, impegnativo, necessario, rappresentativo, questo insieme di suoni rarefatti e potenti va ascoltato avendo presente cosa accadeva in quei tempi, la progressione di eventi che determinavano posizioni. Non è musica: è vita che cerca la manifestazione di una legittima volontà, avendo al suo interno il desiderio di toccare i diritti di farlo e non sentirsi in colpa. Si muove molto bene questo insieme di brani, rapidamente, con tonnellate di piombo per via dei testi di Gianni Sassi: Demetrio Stratos ha compiuto una impresa colossale, unica, devastante, con un cantato assolutamente inimitabile. 

Fatto di estremi, come una perversità che non prevede cambiamenti di rotta, questo fascio artistico è un atto unico che va oltre la bellezza: vi saranno sempre individui che diranno che non è il loro capolavoro, che è meno suggestivo eccetera, ma sono chiacchiere da Bar, non in grado sicuramente di coglierne la magnificenza. Innovativo, consequenziale al loro percorso ma con la qualità di aver appreso anche da altre culture e album, Crac! è in grado di ipnotizzare e condurre l’ascoltatore ad assentarsi davanti al gusto e a scelte determinate negli anni.

Qui esiste la rivoluzione della rivoluzione, voluta e programmata, dove il consenso diviene un elemento sterile.

Ciò che è espresso desidera uno studio e non una valutazione: è il principio di nuove identità nascenti. Non esiste un caos che produca crescita se prima non è assistito dalla curiosità e in questo manicomio di bellezza ne troviamo quintali. La follia sta nell’intento, nella programmazione e nella sua esecuzione, che insieme devastano e certificano una elevatissima distinzione tra la bravura e il compimento di qualcosa di inafferrabile e sconvolgente. Si può ancora godere di qualcosa che appartiene (per stupidità, che conviene sempre esibire…) al tempo passato, ad una decade ormai lontana dalla nostra osservazione? Se fossimo abituati alla ragionevolezza non ci porremo questa domanda. Crac! è una bilancia che soppesa l’utile fastidioso con l’inutile che tiene l’impegno in una cassaforte blindata.

Sentirsi inadeguati all’ascolto di questo album è chiaramente come essere una rosa pronta a schiudersi: è solo una questione di tempo perché poi l’incanto diverrà sequestro, puro e sublime. Chi passava ore a sentire questo disco in quel periodo sapeva che farlo facilmente era l’ultima delle preoccupazioni: vi era un grembo mentale pronto ad essere fecondato, senza paura.

L’attualità di quel tempo era crudele e andava esaminata: per i testi ci ha pensato Sassi con gli scandali disgustosi della Democrazia Cristiana, il franare del buon senso, la tensione che l’aria voleva polverizzare, il terrorismo che divideva l’ideologia con azioni determinate e cruente, in una Via Crucis dalle tappe infinite.

Per quanto concerne la musica: libera di essere vincolata da temi così densi, ha spiccato il volo verso l’abbondanza, nutrendosi di una capacità innegabile di fare il giro del mondo tra generi e intuizioni massicce, come il muschio che si affianca ad una spugna senza confini. 

Pregno di genialità, colpi di fulmine, propensioni senza catena, tutto diventa non digeribile se lo stomaco è abituato all’acqua, che non appesantisce troppo. Sono canzoni come pranzi lunghi e impegnativi, senza dieta, ma con tutti quegli ingredienti che sembrano eccessi, smisurati ma essenziali.

L’analisi del tempo, distinta e messa a fuoco, non può mai essere sinonimo di disimpegno e leggerezza: le orecchie della nostra coscienza in quei momenti si ingrossano, studiano, conoscendo anche la stanchezza facendo ciò. 

Erano tempi duri per alcuni Paesi (Portogallo su tutti) e il ritiro delle truppe Americane nel Vietnam dava al Comunismo mondiale una forza diversa, attesa e voluta. C’era anche bisogno del giusto linguaggio artistico per continuare un discorso che fosse mondiale e l’ascolto di questo gioiello ne dà una misura precisa. Testi diretti e metaforici si univano alla musica che sapeva fare altrettanto. Si doveva guardare avanti nel tremolio di pensieri ancora balbettanti che cercavano posizione e stabilità. Un disco che contesta, motiva, eccelle per un minor tono buio rispetto ai primi due, ma con in dote una maggior consapevolezza ed una metodica diretta, che frantuma e offre nuovi elementi per un confronto/scontro più che mai necessario. Si avverte la propensione al dialogo, che nasce da un’improvvisazione capace di stimolare il litigio sonoro che non si conforma ma induce a un allargamento verso lo scintillio magnetico di talenti. Essi esercitano continuamente la loro influenza: tutto ciò non aveva mai raggiunto questi livelli, perché nei due album che precedettero questo vi erano chiaramente altre necessità. Come corsari senza benda sugli occhi, gli Area ci tolgono il gusto di essere anime apatiche con esercizi culturali da capogiro, insostenibili ora più di allora, vista la nostra totale propensione alla comodità. Note, progressioni, diversificazioni, deliri di ogni tipo si danno appuntamento tra questi solchi che, come estasi crescente, ci restituiscono un piano intellettivo ragionevole e che arriva in zona Cesarini con le menti in stato soporifero. La crescita verticale ottenuta e dimostrata con queste sette composizioni stupisce per precisione e ampiezza, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza: in tempi in cui il nomadismo era tenuto lontano dal fare politico chiuso e ottuso, ascoltare Crac! significa, perlomeno, sentirsi profughi e sconnessi. 

Ora il fiato e i battiti si mettono di fronte. Le pistole della verità stanno per sparare sette proiettili e, se siete pronti, andiamo a guardarli da vicino, per morire in pace…



Canzone per Canzone 


L’album della militanza più evidente che mai incomincia con la corsa di un ragazzo che viene invitato a guardare avanti. Vertigini ritmiche, richiami sonori alle zone dove Demetrio Stratos è nato (Egitto) per poi andare oltre fanno de L’ELEFANTE BIANCO un esempio di connubi multipli. in modo da poter poter esercitare il potere dell’idea che trova radice solo se avanza. I musici sono Benedetti dallo stato di Grazia con un mantra che genera ampi respiri sulla strada del ritmo. E la voce stabilisce la certezza che il migliore cantante italiano di sempre sappia cantare le parole scritte da Gianni Sassi provocando ulteriori brividi.

La puntina avanza e ci fa sobbalzare: la natura di LA MELA DI ODESSA, resa strepitosa dal contrabbasso di Ares Tavolazzi, vive di momenti, tutti estasianti, sin dalla sua introduzione. Si avverte la sensazione di un viaggio alla ricerca di contaminazioni continue. Con ritmiche lontane dai 4/4 della batteria, Giulio Capiozzo dimostra di essere fantasioso e tecnicamente eccelso, trascinando Patrizio Fariselli in scorribande con la sua tastiera verso paradisi collinari per sconfiggere “il mondo che era ancora piatto”.

Non hai nemmeno il tempo di assimilare che i ragazzi sfoderano l’asso nella manica che riesce a mostrare il lato psichedelico californiano e un progressive alieno, per fattura tecnica e sperimentale: giunge MEGALOPOLI a complicare le cose e quindi a renderle perfette. Demetrio gioca con le ottave, la chitarra di Paolo Tofani duella tra la sabbia con Fariselli: sono rimandi, echi, riflessi eleganti per coinvolgere Tavolazzi a fare del Jazz il tifoso del rock con idee fresche e rigeneranti. Suite che incanta, determina cosa significhi essere dei fuoriclasse in un’Italia pigra nel conferire loro la patente della Bellezza.

Stiamo attenti ora, per il prossimo capitolo: gli Area prendono i Doors, li semplificano e poi dimostrano loro come connettere il pianoforte e il sintetizzatore per esplorare mantra ed evoluzioni anti-cliché, allontanandoli poi del tutto.

Questa è NERVI SCOPERTI, la giostra elettrica che sconvolge per la latitudine della sua radice, sirena che allinea i talenti in assoli e giochi sottili a migliorare le intenzioni di colleghi illustri, semplicemente devastante.

Il collettivo, la propensione e la volontà di connettere il testo alla musica genera un’apoteosi plurigemellare per un incantevole esercizio di contrazione pelvica: GIOIA E RIVOLUZIONE fa tanto male alla testa, spiazza ma rinvigorisce, una spinta ideologica che trova il modo di trasferirsi in una musica quasi giocosa. Tutte le dita combattono, c’è qualcosa da capire e da far capire e tutti si dannano. Sentiamo una coralità sonora che comprende pure una chitarra ritmica semiacustica per dare alla canzone la sensazione che bisogna coinvolgere tutti, in modi diversi, la band desidera sparare, nella strada dove l’amore attende. Stupefacente, quasi goliardica, tribale ma sorridente, lancia semi pop in modo da poter essere compresa meglio data l’urgenza del tema di cui è composto il testo.

Il genio di Tofani crea con il suo sintetizzatore una grandiosa introduzione per la successiva IMPLOSION, viaggio robotico, lunare, con oscillazioni del suono degne dell’avanguardia tedesca. Il delirio si fa concreto, come un pugno lisergico che accarezza gli Stati Uniti ma poi li lascia, come dispetto necessario. Il basso di Ares è uno stregone occidentale, bianco, dalle dita mosse da un impeto incontenibile e che consente al brano di essere l’esempio di una improvvisazione senza briglie e dove il drumming di Capiozzo è uno sciopero poderoso contro la tecnica maldestra di molti addetti alle pelli e ai piatti: lui dimostra cosa sia l’applicazione e il talento. Demetrio sciopera a sua volta con la voce, ma le sue dita sull’organo sembrano la continuazione delle sue corde vocali. Una sola parola per definire tutto ciò che accade in questa composizione: capolavoro!

Il vinile trema: sa già che ora ci spaventeremo, saremo inondati da una nuova scossa.

AREA 5 è la corsa di gatti e topi, di nemici che improvvisano strategie e tra la scorribanda di dita sul pianoforte e il magnetico lavoro di Demetrio alla voce, tutto diviene schizoide e inquieto, come un horror che tenta di essere portatore di allegria. Tutto proviene da Juan Hidalgo e Walter Marchetti (studiate e meditate gente, parafrasando Renzo Arbore e la sua birra) e la sensazione che rimane sulla pelle è quella di una paura incompresa, perché queste note in ogni caso seducono e trasportano dentro i labirinti di un gioco che sembra provenire da una captazione. Modo divino per concludere l’esperienza di un match culturale stravinto dalla band: e c’è ancora molto da imparare…


Musicisti intriganti, impazziti, generatori di corrente, cavalieri del suono, pittori dalle tele enormi, con un cantante che sa usare la voce con le sue diplofonie, trifonie e quadrifonie, e altro ancora, nel gioco infinito di tentacoli spiazzanti per forza e precisione. Gli strumenti usati come armi, con la faccia da fioretto, spesso sorridente, ma poi nel loro arsenale si trova una notevole serie di macchine da guerra. Non si sta sereni un attimo e tutto questo coinvolge così tanto che, parafrasando Franco Battiato, possiamo affermare “ed è bellissimo perdersi dentro questo incantesimo”. 

Mi fermo con la consapevolezza che è stato contemplato un solo granello di sabbia del loro Sahara, e nemmeno tanto bene, però posso avere la certezza che sia finita la lezione. Domani, ne sono certo, i Maestri Area torneranno dietro la cattedra e io sarò un pò più felice, perché maggiormente vicino a questo album che non ha una sola ruga che sia una…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

13 Maggio 2022


Area - International POPular Group / Crac!

15 giugno 1975



  • Electric Bass, Acoustic Bass, Trombone – Ares Tavolazzi
  • Electric Guitar, Synthesizer [E.M.S.], Flute – Giampaolo Tofani
  • Electric Piano, Piano, Bass Clarinet, Percussion, Synthesizer [A.R.P.] – Patrizio Fariselli
  • Percussion, Drums [Slingerland] – Giulio Capiozzo
  • Voice, Organ, Harpsichord, Steel Drums, Percussion – Demetrio Stratos






giovedì 28 aprile 2022

La mia Recensione: Flavio Ferri / Alex Dematteis - Speakdown

 La mia Recensione 


Flavio Ferri / Alex Dematteis - Speakdown


Un fiume nero scorre nelle vene di chi crede di averlo ancora rosso: un’incoscienza colpevole che addormenta i sensi, la ragione, camuffa e distorce la verità per finire dentro la zona della comodità, la nemica numero uno della saggezza, del benessere, del buonsenso e della verità che costruisce le basi di un miglioramento prima personale e poi collettivo.

Esiste un colpevole: l’ingannatore egoista.

Esso ha sodomizzato lo scorrere del tempo che aveva dei limiti ma ragionevolezze varie.

Flavio Ferri e Alex Dematteis l’hanno trovato e affrontato: atto disumano, crudele, ingiusto, violento e così non si deve fare, speriamo che abbiano scherzato.

Il loro lavoro si chiama Speakdown, tre angoscianti e dissacratorie cavalcate con spade tratte e lucidissime dentro questo cattivo che si nasconde e mostra solo il presunto benessere che contagia la civiltà moderna.

Non hanno fotografato la realtà perché le immagini sono fatte per essere dimenticate, servono a poco se non coniugate ad una ragione che scatta in piedi per reagire e agire, se è il caso di farlo.

Tutto quello che hanno prodotto è una dura lotta, centimetro per centimetro dentro il Capitalismo e il Mercato, fratelli siamesi di una esistenza anestetizzata e resa volgare. I due hanno pianificato un delirio, un contrasto pieno zeppo di frammenti indigesti atti a grattugiare l’apparato uditivo prima e la coscienza dopo.

Missili su crateri colmi di pece, dove non esistono barlumi di lucidità che possano confortare ed essere spunti propositivi.

Si sono dati il ruolo di distruttori di ciò che era già annientato di per sé, creando scenari apocalittici, cancellando la gradevolezza dell’ascolto della musica, che è divenuta magma, scintille di catrame, nebulosa, devastazione sonora, annullando e schiacciando la noiosa e inutile forma canzone.

Coraggioso e combattivo oltre ogni limite accettabile, Flavio Ferri ha operato scientemente non interessandosi al consenso (altro elemento catastrofico del Mercato) e ha costruito invece un micidiale marchingegno nel quale tutta la sua vorace combattività ha generato stridori come conseguenza del rapporto tra il concetto ed il mezzo utilizzato.

Facendo così l’artista milanese ha avuto modo di liberare l’espressività, la precisione, ha mirato e fatto fuoco con il suo ordigno, ha voltato le spalle alla comodità per farci sgranare gli occhi: rimane solo l’indifferenza a tutta questa follia. Per lui sarebbe la manifestazione evidente che il Mercato e soci vari sono scontati e in tal modo paleserebbe la sua vittoria, consapevole che in tutto questo la felicità non troverebbe luogo.

Purtroppo.

Dal canto suo Dematteis, su incarico di Ferri, ha scritto storie, scorticato la ragione dell’egoismo, inveito, arrossato il respiro e pianificato un insieme di pensieri che potessero resocontare il fallimento.

Ha insistito a descrivere la tossicità umana e vivisezionando lo squallore di una comunicazione massiccia, ma priva di un messaggio colto ed elevato, ha deciso di filmare con le parole amare gocce di veleno e micce di pensieri insoluti e di difficile  codificazione.

I rapporti, gli egoismi, il senso del possesso degli oggetti, la gravità di silenzi umani a favore del caos del consumo sono stati la scintilla creativa dei due per fare un disco pesante, ostico, indigesto, ma non scontato. Sono stati determinati e consapevoli e hanno portato l’arte nel luogo dove appare più assente: quello della volontà di fare dei disastri un punto di partenza, come un invito ad un senso collettivo che possa cambiare le carte.

Ma falliranno: il mondo ha troppe follie piatte per accettare questa che è lucida e iperdinamica.



Canzone per Canzone 



Daily Snapshot n.1


La luce del dopo nucleare comportamentale si apre su un tappeto elettronico e giunge la voce della Borsa a segnalare l’orrore di ciò che sopravviverà: la fame di speculazione, del guadagno. Ferri cammina lento con la processione analogica che rappresenta il tremore, la precarietà, la banalità che lotta per vincere. Suoni, come distruzione accesa e confermata, che si affacciano sino a quando un giro di basso pesante si accorda con un vibrato paranoico ed ossessivo. Da quel momento è un susseguirsi senza sosta di detriti fuori ritmo a sentenziare il vuoto che ha stravinto sul sistema umano di alienazione. Diciassette minuti di strazio e vertigine, con segni di terrore e al contempo di rassegnazione: la catastrofe è appena incominciata.


Fuck the Style


Dematteis e Ferri iniziano subito con la rappresentazione teatrale del vuoto che si compiace, la fiumana di sciocchezze che entra nell’illusione di una solitudine che pensa di trovare nella tecnologia l’unica modalità per valorizzare la comunicazione, divenuta proprio per questa ragione inesistente. Flavio crea angoscia, film muti con onde psichedeliche e industriali, beats e strati sonori ad alta densità termica: tutto viene congelato, quasi polverizzato da flussi catastrofici a ciclo perpetuo. Alex esamina il disastro umano e l’ignoranza con la sua assenza, seguendo Flavio per avanzare drammaticamente in una processione violenta: non rimane che quella modalità per mostrare l’imbecillità umana. Quasi sedici minuti di tortura sonora sconvolgente per divenire l’atterraggio sulla pelle della morte e per celebrare e definire la fine di tutto. Senza repliche. 



Understress 


Il balletto degli illusi, gli incubi che diventano un grido infinito trovano sede definitiva nell’atmosfera plumbea e agghiacciante delle rovine a battito impreciso di Ferri, che crea una simil danza allucinata, a tratti sensuale, con accenni melodici che illudono, come illude la realtà che inganna se stessa. Un mantra sidereo smette di gravitare nella volta celeste e plana su un mondo incattivito e sotto stress. Sono aghi le parole di Dematteis come lo sono i circuiti tetri di Ferri: uniti nel certificare il Mercato che, compatto, schiaccia i cervelli. Mantra bellici e astuti graffiano le orecchie con l’opposizione al senso ritmico, tutto si spezza, si interrompe e riprende come scatti inevitabili, sino a sconquassare la resistenza dell’ascolto. Parole come vermi contagiosi esplorano e sentenziano e la musica non è tale bensì un fungo allucinogeno che deturpa la lucidità. È un cataclisma a flussi, violenza perpetrata che su una elettronica bastarda, saccheggia tutto ciò che rimane della nullità umana…



Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

29 Aprile 2022


https://www.vrec.it/prodotto/ff01/




My Review: Duran Duran - The Chauffeur

  Duran Duran - The Chauffeur  When fairy tales are tinged with black, burdened with drama, sinking their hands into the sacrilege of pain, ...