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giovedì 10 novembre 2022

La mia Recensione - Ayn & Marlen und Marlen - From The Floor Below

Ayn & Marlen und Marlen - From The Floor Below

Onde su onde nel mare nero del dolore cercano un suono univoco, nella ricerca del quale si muovono discepoli curiosi, con oggetti, deviazioni, frustrazioni tenute elegantemente insieme da brani multiformi al confine del delirio. Arrivano da una piuma grigia della provincia di Biella, in quel Piemonte ricco di boschi, colline, a pochi chilometri da montagne schive, quindi immense.

Ed è da Ponderano, per l’esattezza, che anime a contatto con la disperazione e il fato, compiono il miracolo diabolico di seminare sospetti, scomodità, lacerazioni dai volti anneriti, da sensazioni sconvolte, il tutto all’insegna della lentezza che divarica la mente.

Ed è etereo vagare, etereo sentire ed etereo smarrimento nella scorribanda esistenziale che espone frutti dal profumo corrotto da una bellezza acerba, magistralmente potente.

Sussurri, assenza di urla e rumore che inquinerebbero il tutto, qui siamo al cospetto di un’opera colossale, che impegna l’ascolto per renderlo stremato e perfetto.

È analisi del tempo più che dei luoghi i quali, però, vengono mostrati come un impatto di battiti necessari, quasi smottati a causa delle campane del Signore del senso.

Perché Ayn & Marlen und Marlen del tempo studiano la forma, ascoltano i suoni pelvici e i tremori celebrali sino a creare, con la creta deliziosa di mani sapienti,  bagliori che lo rappresentano senza equivoci. Un album come esperienza continua con la solennità, il sottile dispiacere che parte da essere un taglio per divenire la crepa di un burrone in decomposizione. In tutto questo il sole nero che si pavoneggia all’interno di una grotta ha il ruolo di domandare all’esigenza il suo senso. Perché sa che senza se stesso la vita è già morte. 

Chitarre elettriche decadenti, in un post-punk avvelenato di tristezza, e chitarre ritmiche semiacustiche a generare il contatto con il folk rock non ammaestrabile conferiscono solo la base di suoni medievali perennemente in stato di eccitazione, tenuti a bada con fermezza per non generare confusione.


 Psichedelico è l’umore, magnetico è il pulsare, dilatata è la propensione di una inquietudine in movimento, tra ombre e abisso che si cercano incessantemente, con gocce di sudore che si sciolgono nell’acido di questa storia itinerante.

Nel disco si vola, lentamente, con le ali chiuse, nelle viscere delle tentazioni, nel ventre terrestre febbricitante, privo di lamenti.

Non sono generi musicali in parata, tantomeno danze che attendono di compiersi, bensì processi mentali che fustigano le velleità, ammanettandole e conducendole obbligatoriamente al nichilismo, Re della ragione, in attesa della vestizione.


Cantilene orgiastiche escono da fumi come funi: pronti ad affezionarsi al collo per sbiancarlo, con una presa che stringe piano piano. Un lavoro limpido nel girone della malinconia, di un gravitare nella psicoanalisi, con i Maestri a suggerire linee melodiche colme di stregoneria plumbea.

Tutto è un romanzo, tra questi solchi, partendo proprio da chi lo ha ospitato prima e pilotato dopo: Fëdor Dostoevskij.

Perché tutto pare proprio arrivare dal 1800 e dalle pagine di un libro, Bibbia sacrilega dell’anima dal titolo “Memorie dal sottosuolo”. Ed è ciò che vive segretamente tra la terra e le radici che troviamo in questo concept album: scavare dentro di sé, come un pellegrinaggio in cerca della meta.

Obbligata a essere metafisica.

Lo è per davvero perché tra le canzoni troviamo realtà assolute che neghiamo in quanto amiamo la comodità, la falsità e non l’autenticità e il rispetto delle sue leggi.


Quando si ascolta musica come quella che troviamo qui si è fortunati: un ingresso ci aspetta per portarci nei luoghi senza luci, come palestra, come allenamento per quello che verrà alla fine dei nostri battiti. Si vince il desiderio del bene per vivere la dimensione del perdersi, dove nessuna catarsi ci attende per purificarci e realizzare i nostri meriti e mezzi, ma piuttosto un veder proiettati i satelliti neri nella verità più profonda.

Si acquisisce appartenenza. Indissolubile.

Cacofonie, estremizzazioni, gocce di sale che escono da tastiere dal respiro ipnotico, sono i protagonisti del circo dannato di oscillazioni antiche che tornano tra le dita di questi cavalieri ombrosi.


Fluida architettura tra neuroni che, paralizzati, riescono in ogni caso a costruire un palazzo mentale, non come rifugio ma come espressione di una necessità. La band non corre, non ha fretta, perché sa bene come la lentezza sia saggezza, seppur anacronistica. 

Le suggestioni, i richiami, le vibrazioni sono il metronomo perfetto di un incedere che deve dare chiarezza all’interno della nebbia e non fuori.


Avverti il loro carillon sottolineare il tempo con lacrime fiere e robuste, sottili quando i sussurri della voce di Marleund Marlen sembra l’alito segreto di ogni respiro.

Mentre Ayn canta come un pilota delle tenebre, quasi esanime, portentoso. I due guidano le musiche verso passi che si distanziano dalla fisicità, attaccati come un francobollo al desiderio di unirsi come entità in via di estinzione.

Si deve uccidere il luccichio, separare solo l’inevitabile, con l’amore come ingombro e nei testi troviamo la maniacale esibizione di estremi che, con totale ragione e abnegazione, ci calamitano verso la purezza. Niente muta, abbisogna solo di essere conosciuto, tra vermi, sostanze ignote, dentro le chitarre che si prendono la responsabilità di decodificare e il lavoro delle bacchette di una batteria che quando arrivano sulle pelli aprono templi, con il basso che è uno schiavo ubbidiente della bellezza ammaestrata.

Non c’è più tempo per divagare: sia ora il momento di avere coraggio e bramosia per visitare questa bellezza eccelsa.



Song by Song


1 Catabasi


Il fuoco crea disastro, e la coltre di fumo diventa lava concentrica: il primo brano è il giorno dopo una eclissi morta in fretta con crepitii, voci, tastiere a rendere tragico il pensiero.



2 My Body Made Of Nothing 


Chitarra Darkwave su una lastra chimica, l’apocalissi gioca con il Neo-Folk e la voce peccaminosa di Marleund crea vibrazioni costanti.


3 Neptune In The V House


Il romanzo cresce, le pagine si aprono sotto occhi che scoprono la sfera glaciale, tamburi lontani come furori su una tastiera che diventa complice del fuoco.


4 Never Come  Back


Il dramma entra nella voce femminile su uno scampanellio che ci ricorda i Virgin Prunes e i Death in June in stato di grazia.

Quando arriva Ayn tutto si fa corale e la decadenza è il regalo del dolore.


5 Memoires Du Sous Sol


Gli In The Nursery e i Dead Can Dance più malefici si incontrano su questa traccia cupa e nefasta, lucente perché mostra la paura con la sua faccia ghignante.


6 Alchemical


Arriva quasi la dolcezza, come punizione divina, in una ballata liturgica dentro chitarre piene di echi e suggestioni magnifiche, con la voce che ci ricorda l’onda eterea della rimpianta 4ad.



7 The Worm is Born


Gli spettri baciano le profondità, le sue creature. Una chitarra Neo-Folk, doppie voci e controcanti deliziosi si sdraiano su una tastiera in odore di eternità. Ed è commozione pura.



8 Immutable Black


Tutto bolle ed evapora con le chitarre che sembrano birilli argentati mentre colpiscono anime deboli. Ed è Dark Country sino ad arrivare nella zona sacra dei Coil più armonici e peccaminosi. Ed è processione su un drumming che sveglia e ci trasporta sulla voce di Marleund Marlen, evocatrice dell’anima.


9 Anabasi


È la fine, tutto sfuma, si è massa liquefatta con il fiato congelato. La musica è Ambient e soffocante, permeata da suoni acidi che escono da grotte insanguinate. Iniziato con un delirio di presentazione, l’album si conclude con l’ultimo atto nichilista.


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

11 Novembre 2022


https://soundcloud.com/taiyototetsuo/sets/ayn-marlen-und-marlen/s-BYpfusfUFQV?si=68973578ac244bd1a5e08098d1180ef2&utm_source=clipboard&utm_medium=text&utm_campaign=social_sharing&fbclid=IwAR3tYx9vBGidrBcEeSwLF-YvqmHPXnlQncwFfM2WAvee9ik2TCffsZzXREs






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