Peter Yates - You Never Know What You Might Find
Come uno shock che rivitalizza i circuiti della comprensione, eccoci in un impianto crepuscolare ma colmo di pulsioni (lente), per precisare la descrizione e l’assorbimento di tutto ciò che la natura genera, rivelato attraverso balsami sonori che circondano e disarmano l’indifferenza.
Vogliamo chiamarla musica? Mi parrebbe riduttivo.
Siamo davanti a una forma di disciplina che educa allo sfoltimento e all’abbandono di cliché di ascolto che mal si coniugano a quello che questa arte dovrebbe difendere: l’unicità, la serietà, l’intenzione di creare germogli mentali che aprano i pori dei pensieri.
Torna Peter Yates ed è la conferma di un livello di classe difficilmente raggiungibile dai musicisti e autori attuali. Ribadisce la capacità di usare filtri, di setacciare l’inutile e di abbandonarlo, di approcciarsi, divinamente, allo studio del suono, mostrando dilatazioni, echi leggeri ma perfettamente rotondi, riverberi che disinfettano il frastuono e lo rendono ubbidiente a questa analisi che si completa diventando un’operazione chirurgica perfettamente riuscita.
Lo sguardo prende slancio dalla psichedelia rarefatta, come un sospiro che indaga e riflette e porta il contenuto nella clessidra del tempo, accostandosi a una ambient music vogliosa di contenersi, di non essere un calice di spumante italiano bensì ancora un semplice ma preziosissimo grappolo, quasi insicuro ma certamente rispettoso delle grandezze a cui si interessa. Peter rallenta, si china, si ostina, si mimetizza e lascia antichi momenti gloriosi in un garage abbandonato: come musicista solista è nettamente migliore, più capace di esprimere concetti e di calibrare un genio mai riconosciuto prima. L’intensità che raggiunge non abbisogna della seppur notevole grandezza di quella band che il Vecchio Scriba non smetterà mai di amare.
Ma qui ci ritroviamo in un incantesimo, dove delicatezza, purezza, candore e rispetto conducono questi quattordici brani all’interno di un viale che pare abbracciare gli alberi, le case, i moti di una esistenza confusa. Le idee, qui, invece, sono chiare e si sente il profumo della modestia che non celebra ma conserva il proprio percorso di crescita interiore.
Musica, allora, che è un flusso cinematico, sensoriale, solare nella schiuma di una luce ancora dormiente: ci pensano apparenti arpeggi con la forma di deliziose ninnananne e archi in sinuosi dipinti per sorvolare la zona del vivere e renderla una saggia estasi primaverile…
Parrebbe di sentir camuffato il blues epico di antiche traiettorie per trasformarsi in una messa che ancora deve decidere se essere laica o sacra. Ma si respira spiritualità, devozione al silenzio con le note che divengono ramificazioni consapevoli, avendo la dote di ispessire la consapevolezza delle cose terrene.
Gira attorno a piccole sequenze di accordi, cercando l’epicentro, per trasportarlo poi su un terrazzo, dove può essere notato dalle anime in volo.
Non è un album per tutti ed è una grande gioia: a volte può essere una grande vittoria non far parte di una massa, specie quella attuale che ignora e non riconosce la purezza di quest’arte sempre più violentata e sicuramente usata in malo modo. Yates entra nei suoni di una cucina, nell’ingresso di casa, adopera piccoli stratagemmi per ipnotizzare, come una seduta nella quale non è la catarsi l’obiettivo. Lo è il sentire sconfitta la solitudine in quanto queste composizioni allertano i sensi e li sparpagliano in un giorno in cui il tempo speso ad ascoltare questo lavoro rappresenta la prima forma di orgoglio, sapendo che i racconti e le fiabe a volte sono l’antipasto di una realtà che osa assomigliare a essi.
Un disco solo apparentemente strumentale perché, se si presta attenzione, queste composizioni traducono continuamente il flusso di pensieri che alberga nella mente di questo incredibile artista: saper cogliere gli aspetti diversi del linguaggio, partendo dal silenzio per finire alla voce degli strumenti, diventa per davvero il bellissimo esempio di una nuova comunicazione.
Quando la preziosa amicizia che lo lega a Jo Beth Young decide di mostrarsi (Beside), allora ci ritroviamo con voci diverse affiancate, in una danza medievale con flussi elettronici annessi, tra patterns, chitarre sognanti e stridori che aspettano la voce della cantante, qui alle prese con un testo scritto di suo pugno e dipinto sulle basi di questa clessidra temporale che conduce il suo registro ad alzarsi in volo, per disperdersi tra le nuvole…
In tutto l’album convivono inclinazioni morali, diamanti tenuti nascosti da chilometrici giochi di chitarre in grado di semplificare il rapporto con le idee: un cammino breve che però conduce lontano, negando la forma canzone per usare, invece, una modalità che pratica la retorica, la perlustrazione e l’abbandono di quello che seduce l’artista inglese. Il risultato è il fumo caldo di una fascina di legno che non brucia ma scalda con rispetto, distinguendosi, rifugiandosi in un microcosmo di folletti e spiriti che trovano l’amaca perfetta su cui riprendersi dalle proprie fatiche, per un insieme adulto, altamente professionale e sicuramente terapeutico…
Disco del mese di Marzo 2025.
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Marzo 2025
https://peteryates.bandcamp.com/album/you-never-know-what-you-might-find