Bipolar Explorer - Memories of the Sky
Tre sopravvissuti fanno da ponte radio all’epopea terrena di anime disintegrate, saltate in aria in un cielo che desidera solamente mantenere la memoria di quello che è successo: si contemplano le ragioni del disastro, si sviluppa il seme della fine con suoni (e non canzoni) che, oltre a narrare, metabolizzano con una zoppia che esclude (tranne pochissime eccezioni) la forma canzone. Pare che nella testa dell’unico autore di questo mastodontico progetto (Michael Serafin-Wells) ci sia un computer attaccato a un cratere, con vermi, rapaci, scorie, trucioli, martelli e una valanga di scosse telluriche a illuminare la volta celeste nella celebrazione di una sconfitta prevedibile.
Vengono creati, quindi, percorsi millenari, racconti che escludono il cantato ma prevedono il crooning e lo storytelling di Summer Serafin e di Sylvia Solanas, che non sono niente altro che angeli femminili con le lacrime nelle corde vocali.
Il Big Bang iniziale non è nulla rispetto a questa processione di lava, bave e rantoli, nel cimitero rovente di un sogno in apnea.
Si muovono le parole come comete stanche mentre il Moog Synth, la bowed guitar, le percussioni sono rattoppi di una ferita compressa tra queste lamiere sonore che sprofondano attimo dopo attimo.
Sembra un volo, quello di Birdy (e infatti quel Peter Gabriel che scrisse la colonna sonora potrebbe pensare di aver trovato dei nipoti molto più guerrieri e spavaldi di lui), in cui ciò che si vede si trasforma nella dovuta esagerazione di sonorità come pali della luce in genuflessione. Tutto è accorato ma lento, facendo così lievitare la tensione, l’imbarazzo, il fastidio e la certezza che non sia la gradevolezza ciò che ci colpisce il ventre. Ed è proprio da lì che il suono si trasforma nella transizione e nella traduzione di un percorso che trova lo sbarramento di un’epoca che non ha più visibilità.
Un viaggio psichedelico nella follia del prog rallentato, nei minuscoli approcci ai Velvet Underground e a Pink Floyd, quando, cioè, possiamo ascoltare delle quasi canzoni…
Sono però attimi, delle vampate erronee, un micromondo che non può avanzare. Michael non solo è un visionario, ma procede con le undici composizioni del primo disco, per poi scomodare in quelle del secondo disco gli incubi tipicizzanti della musica industriale degli albori, quella inglese del 1976 per intenderci. Per questo motivo giunge lo stupore: un progetto Newyorkese che vive nella Terra d’Albione sin da prima della comparsa degli esseri umani. Epico, granitico, devastante, questo dodicesimo loro album e quinto doppio approfondisce maggiormente il bisogno di rendere sottile l’armonia e di fronteggiare invece la destrutturazione molecolare del pop, del rock e, come accennato prima, della forma canzone.
La chitarra è la madre che consola i suoi figli, ed è tutta farina del sacco di Michael Serafin-Wells, artigiano del tempo, detentore dello scettro dell’atomo che diventa attimo e, straordinariamente, ripetibile. Qui l’applauso deve scattare, tremante e nervoso: questo talentuoso ricercatore e sviluppatore della distruzione di ogni faciloneria artistica si mette il casco, si benda e gratta la storia, la geografia, entra nello studio del chimico nucleare costruendo la sua bomba, postatomica. Ci si ritrova in una bacinella di sabbia nella quale scendono note nere come bisturi impazziti.
Un resoconto osceno, terribile, pesante, dove l’aria muore nella glacialità espositiva di echi e riverberi, delay e meccaniche ripetizioni robotiche in cui il ritmo non è mai sostenuto dalla batteria bensì dai loop di un iPad vigoroso e determinato a incutere paura e allucinazione continua.
La natura, che siano uccelli, pesci e quant’altro, è l’unica che pare avere dignità, l’unica a essere sopravvissuta e, quando arrivano le campane, non si ha dubbio che sia il vento a suonarle.
La sperimentazione nelle officine del suono tedesco del 1961 e del 1962 inorridirebbe davanti a questa miscela di contrattempi, avamposti sonori e cliché attitudinali che cercano loop umani e ideali da sbattere contro le viscere di un idilliaco tremore. Lo sfacelo del racconto non può prevedere empatia nei confronti di una modalità accomodante.
Infatti.
Ciò che avviene è una valanga di ultimi respiri in volo decadente, alla ricerca del ventre terreste, come una deposizione di intenti liturgica ma agnostica: non c’è Dio in questo disco semplicemente perché l’uomo è scomparso del tutto, e dalle sue ceneri sono nati questi frammenti.
Sono visioni sospese e poi lacerate, orgasmi delle particelle lunari che celebrano il silenzio corroso, creature mostruose che escono dai corpi dei ricordi, in un assemblaggio distorto e fulminante.
Non esistono arpeggi lunghi ma note, ammassi di note, note storte, note senza possibilità di un pentagramma che veneri il loro potere.
È distruzione continua, frammentazione e mai diffusioni sognate: gli incubi veri sono lenti, smorfiosi, diseducati e abrasivi.
In alcuni momenti dell’album capiamo l’importanza dei Television e di una breve parte della carriera dei Virgin Prunes (A New Form Of Beauty) quando l'approssimazione di un parquet musicale trovava spazio nell’istinto omicida di fraseggi spericolati.
Le stelle precipitano, l’ellisse cambia opinione e le strade diventano magazzini della memoria ipnotizzati. Per realizzare tutto questo caos si restringono i parametri della fantasia e ci si abbandona all’ossessione, come pazienti di un TSO che ridono della non comunicazione tra le parti.
Ma, aspetto fondamentale di questo lavoro, è la NON COMUNICABILITA’, non esiste un parlare e un ascoltare, ma tutto è raziocinio in frittura, con dosi di droghe sparse dentro il sibilìo costante di questo rumore basale.
Ci si ritrova a considerare certi gruppi come antichi antenati di questa sbalorditiva messa in atto di oscena crudeltà: si dovrebbe immaginare come la non musica di queste ventidue molecole scomposte non siano altro che un nuovo testamento, una nuova partitura ascensionale, perché, per davvero, tutto quello che cade trova modo di risalire con maggior circospezione.
Non c’è gioia, niente di solare, solo un alto fungo atomico che pare cercare una base per far riposare l’amarezza e la desolazione.
Della musica Neo-Folk questo doppio album ha il senso della sintesi.
Della musica Industriale quello sanguigno di una lacerazione continua nei confronti delle verità.
Della musica classica ha tutto: il pudore, l'ardore, la teatralità in cerca di un applauso paralizzato in un giorno di lavoro.
La festa è un grido indecoroso che non può presenziare.
Dello Shoegaze rimane l’abbondanza di distorsioni controllate.
Del Dream Pop la lastra dopo un sogno morto.
Del Rock l’idea che tutto muoia…
Rimane l’odore di una tragedia, di un canto senza orecchie in ascolto, una sedia elettrica ad alto voltaggio ma prive di reazioni muscolari.
In parole povere: un progetto che entusiasma il Vecchio Scriba perché ci si ritrova nel futuro, con le giuste dosi di terrore e di ambasce affittate composizione dopo composizione.
Stoica è l'intenzione di snaturare il processo di avvicinamento all’ascolto, mentre ciò che vive tra questi solchi è un rifiuto persistente del pubblico, le orme umane non sono desiderate e si preferiscono le onde del mare contaminate dall’amianto e le tracce di petrolio sulle ali dei gabbiani (tra i protagonisti assoluti di questo Lp), per connettersi al dolore che sintetizzi un proscenio e un abbandono.
Ci si ritrova, così bene, nelle sacche amniotiche di Poe, con le sue nevrosi, e nella spettacolare conversione stilistica del leader degli Psyco Tv: un gemellaggio continuo con la demenza giovanile e non senile. Si raccontano le vicende di un tempo raggomitolato nei suoni cadaverici e nelle voci femminili sommerse dai frastuoni, come lapidi in movimento in attesa del ghigno malefico.
Magnetica e crudele, la storia dell’arresto del sogno vibra in piena credibilità dato lo spessore di questo sistema convesso, che permette la fuga da ogni accettazione.
E qui si palesano i moti giapponesi, le vicende del Nepal, la storia triste di Ulisse, gli spettri di Lovecraft, i racconti ipotetici di Sofocle, e così via, in un infinito che rende petroso l’avvenire…
Non è un capolavoro (grazie a Dio) ma un testamento che disegna il futuro come una rigida lapide: se tutto deve finire per davvero abbiamo la giusta NON musica, i vestiti gettati tra i latrati del vento e la luce che si inginocchia innanzi alla morte…
Alex Dematteis