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martedì 10 gennaio 2023

La mia Recensione: UV POP - Sound of Silence

 UV POP - Sound of Silence


La tristezza, madre e figlia di quello che è reale e indiscutibile minimo comun denominatore degli eventi terrestri, alberga come Dea con lo scettro stretto, dentro tutti: le eccezioni sono falsità a prescindere.

In questo panorama che lascia al sorriso una ipotesi suicida, arriva un album bilingue: da una parte la modalità descrittiva, appunto, della tristezza, dall’altro quella di un volo subacqueo in cerca di luce ingannevole, utilizzando musica che non sia troppo precipitosa.

John K. White è un folletto romantico, abita i cassetti dei sogni delle anime silenziose, lo fa da quarant’anni, musicalmente parlando, ed è tornato proprio per celebrare il quarantennale della nascita della sua band con geometriche esposizioni concettuali all’insegna di un umore tendente al malinconico: il dna non mente mai. Il tempo scorre per marcare i passi stantii e i respiri incerti, ma John riesce a rendere ogni cosa visibile con le note musicali, come una magia a cielo aperto, a cui solo lui ha accesso per verificare il tutto. Ed è ironico il fatto che lui sia un essere umano che vive a luci spente nel sistema musicale, ma che sappia illuminare meglio di chiunque altro queste scoscese e impervie sollecitazioni emotive e comportamentali. Un alieno, forse, potrebbe fare lo stesso. Bravissimo però a sistemare qua e là vertigini di colori per non assembrare tutto verso il piombo che mostrerebbe poteri devastanti. Allora si possono constatare matrimoni stilistici eccelsi, per una tavolozza dove i colori si affacciano con carattere. Il Post-punk e l’elettronica diventano conviventi, stabilendo contratti e sogni per un divenire che dura per sessantuno splendidi minuti.

Scatteranno, come sempre gli è capitato, paragoni con la sua voce che sembrerebbe essere figlia di quella di David Bowie. Il vecchio scriba, tuttavia, non perde tempo con queste sciocchezze e, come un sacerdote sordo davanti ai suoi fedeli, prosegue integerrimo verso i birilli, le lastre, le lande, i sensi, i riflessi di canzoni che sono un manto spettacolare, il risultato di alchimie davanti a uno specchio: gran parte di questo lavoro potrebbe appartenere a ognuno di noi, ma alla fine lo specchio si scioglie dentro la sua anima, lasciandoci favorevolmente poveri. 

I ritmi sono quasi sempre lenti, ma molto sembra correre, in questa slavina emotiva, dove le pendenze vengono percorse solo apparentemente in salita. Le atmosfere sono spesso rarefatte attraverso i giochi di prestigio tra le chitarre e un synth a cui basta a volte un solo dito e una sola nota per fare di noi degli schiavi inebetiti, per rendere il tutto una fragorosa risultanza di benefici da intendere: nulla deve negare il mistero, padre e padrone di queste tracce sublimi. La poesia non è appannaggio solo dei poeti: appartiene soprattutto al sole e alla luna, alla volta celeste che John ridipinge con alcune varianti. Si pratica la confidenza ma non è possibile provare amicizia per queste composizioni: rimane impressa, traccia dopo traccia, una sola possibilità di manovra che si definisce in sguardi ammirati e devoti.

Quando si ascolta questo album, scattano in piedi i ricordi di un tempo nel quale la musica era raffinata esposizione del desiderio di ripetere quella esperienza, di essere circondati dall’obliquo desiderio di abbandonarsi al silenzio. A una band che ha avuto a che fare con i mastodontici In The Nursery, con la Sacerdotessa dello sbando comportamentale Nico, con i devastanti Cabaret Voltaire, nulla può impedire di attraversare generi e umori che sono elastici di una fisica estensione verso una follia non caotica ma programmata allo stile più puro. 

Soluzioni tecniche sempre verso nessun compromesso nei confronti di situazioni storiche della scena Post-punk conducono come conseguenza a nasconderlo, per favorire giochi di atmosfere con un grigio Gainsboro che seduce e riduce il desiderio di altre modalità espressive: bastano e avanzano quelle che l’uomo dello Yorkshire del sud ha deciso di rendere indelebili, valide, senza necessitare di niente altro. 

Non perdiamo tempo, passiamo a toccare questi raggi lunari, come segno di un destino che ci regalerà magnificenze ordinate e capaci di fare dell’ascolto una tavola bandita di cibo che presenta gusti e profumi per rendere l’autunno divino e perfetto…




Song by Song


1 - No Songs Tomorrow


Il brano di apertura è un fascio acustico/elettronico con un cantato decadente che supporta un piano sonoro nebuloso, che dà perfettamente spazio alle inclinazioni di John.


2 - Portrait (Extended)


Richiami Gothic Rock ma dalla pelle ricoperta di squame Darkwave, con la voce che si avvicina a schemi di cui un altro John, Fox, fu Maestro. Rimane la chitarra semiacustica a tracciare la melodia, ma le suggestioni entrano prepotentemente nella zona buia, conferendo all’atmosfera un perfetto ponte con le soluzioni Post-punk inglesi dei primi anni ’80.


3 - Some Win This


Ed è notte, artigli piegati che chinano la testa: la voce prende il comando, cori efficaci trascinano, i Death In June appaiono quasi nascosti, ma poi tracce di Adrian Borland risultano visibili e si cade nella trappola della bellezza oscena…


4 - See You


Ecco la Divina, una delle tante, che mostra la sua semplicità nell’essere liquido in espansione, per manifestare la propria nervatura colma di tensione. Si rimane connessi a due chitarre, opposte, una ritmica e una che scava nella pietra. Finendo per stabilire l’intesa con una volontà di sedurre con pochi elementi ma ripetuti, sino all’ossessione. Ed è annessione alla terra degli UV POP.


5 - I.C.


Le cose cambiano, si entra nel lato Post-punk che richiede attenzione perché impuro, assediato da un’anima Neofolk che vuole partecipare alla festa triste in atto. Un ibrido funzionante e capace di crescere con uno scatto magnifico dato dalla chitarra elettrica che lentamente sale sulla cattedra e vomita tensioni assortite.


6 - Psalm


Nulla vale se non ha capacità di attraccare all’emozione: eccoci con una perla che oscilla tra diademi elettronici e cospirazioni religiose a trasportare il tutto verso una intenzione psichedelica senza averne i connotati musicali. Straripante e dotata di seduzione lenta.


7 - Sleep Don’t Talk


Delirio, estasi, liberazione, salto verticale dentro i Cabaret Voltaire con il vestito autunnale, per questa sciabolata isterica che vi avvolgerà senza esitazione. 


8 - Commitment 


Il cerchio del dolore trova schianti elettronici e vampiri assetati di mistero: come prendere i semi malati dell’elettronica inglese della metà degli anni ’70 e renderli fedeli a un basso che tramortisce senza sconti.


9 - Arcade Fun


I Wall of Voodoo che piangono insieme ai Death in June di Heaven Street: ed è incanto trucido e perverso. La chitarra, isterica e ferita, si porta dietro la voce di John, per un insieme di piume bagnate dalla perfezione.


10 - Hafunkkiddies


Una corda si aggira tra la tastiera sanguigna: ed è rapimento, rifugio delle anime stordite, un esempio di come la chitarra che accenna a rovistare tra i sentimenti sia capace di lasciare i propri graffi. Una processione nervosa che cresce, gli strumenti si aggiungono e inondano gli altri, e si è storditi da un impianto sonoro così vicino al cabaret elettronico.


11 - Four Minute Warning


Dai ai Kraftwerk una zona mentale su cui stravolgere gli eventi, fai conoscere loro gli UV POP e sarà un grappolo tossico di incandescenti propulsioni elettroniche, dalla bava colante…


12 - Superstition (Bonus Track)


Lo scriba è contrario alle bonus track, ma qui vale la pena compiere una eccezione. Si inizia con questa bolla magnetica, con intarsi di sax su un crooning dalla grande sensualità, in un incastro che unisce decadi e attitudini di assenza della forma canzone per poter fare della sperimentazione una frustata necessaria. 


13 - Hafunkkiddies (Original Version)


Pare lontana parente della canzone numero dieci dell’album, eppure capace di rivelare le possibilità, gli squarci, le evoluzioni sonore che rendono questa band estremamente importante. E il terremoto del basso unisce la chitarra verso i Bauhaus più magnetici.


14 - Amsterdam (Bonus Track)


Si lascia sempre alla fine la chicca che inchioda l’anima. Tornano gli Ultravox di John Fox nello stile del cantato di John K. White, e questa semi-ballad è la tragedia che scende per rendere muti i pensieri e miti i satelliti evocativi. Chiosa meravigliosa, la perfezione raggiunta ci fa riprendere l’ascolto, come atto di infedeltà alla concretezza unita alla bellezza…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

10 Gennaio 2023

https://uvpop.bandcamp.com/album/sound-of-silence

https://open.spotify.com/album/513qLLdVABTQMmh2S3KdY4?si=hqeULFqBQLC-BtF7l2PCQQ




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