giovedì 29 settembre 2022

La mia Recensione: Marlene Kuntz - Karma Clima

 La mia Recensione:


Marlene Kuntz - Karma Clima


Non c’è più tempo per l’approfondimento, per dare spazio alle Opere che necessitano volontà, interesse, passione, coinvolgimento.

Con questi presupposti scrivere del dodicesimo lavoro dei Marlene Kuntz rende la penna pesante per uno scriba indeciso sul da farsi.

Ma è giunto alla conclusione che occorre definire le cose, pur sapendo che la pigrizia e la volontà di giudicare negativamente potrebbero annullare l’intero senso di questo lungo scritto.

Scrivere un concept album su argomenti drammatici, reali, innegabili sarà già motivo di una forte contrapposizione, a prescindere, perché la massa ormai è votata alla velocità, al disinteresse, alla scarsa partecipazione laddove, invece, necessiterebbe una presenza conscia.

Quello che si ascolta tra queste nove tracce sarà contestato, verrà conclamato il definitivo abbandono nei confronti della band da parte di molti, nessun dubbio a proposito, perché l’ignoranza, il mancato rispetto e una profonda metodica verso la conoscenza di ciò che davvero può fare l’arte per resocontare la fallibilità umana sono ormai comportamenti definitivi.

Eppure i Cuneesi hanno scritto un’opera straordinaria, densa di riflessioni, immagini, evocazioni, preghiere laiche e inviti al cambiamento di marcia.

Occorre dimenticare il fanatismo, anche l’amore per la band, e addentrarsi nel senso umano e artistico di un vero Progetto, che annette modalità di approccio e di espressione totalmente diversi rispetto al passato.

Spiazzante, crudele, intenso, votato all’analisi del momento e di futuribili proiezioni, l’album è il capolavoro della band, e aggiungerei purtroppo, viste le tematiche affrontate.

Ma la modalità suscita emozione, commozione, uno smottamento dei pensieri verso la volontà di adoperarsi a rendere l’ascolto l’inizio di un nuovo percorso.

A scanso di equivoci, per non farvi leggere tutto ciò inutilmente: non è un disco di chitarre, di schizzi elettrici dentro lo stomaco, ma lo stesso organo viene preso a calci, viene accarezzato come non si potrebbe fare con alcuna chitarra. La sua presenza fa parte di un’onda sonora che trova il territorio di sviluppo attraverso un senso collettivo dove synth, orchestrazioni, un drumming di ispirazione elettronica, sono i cardini di riferimento e dove le chitarre si adagiano per saldare il tutto, in una compattezza assoluta, gradita, di valore estremo, indiscutibile.

Le canzoni entrano nell’oscurità dei comportamenti, facendoci vibrare, terrorizzandoci, dandoci la consapevolezza che ciò che muoveva l’arte dei Marlene ora ha trovato sviluppo e maturità, uomini Veri, Responsabili, realmente Attivi.

Un concept album che ruota dentro parole gravide di lacrime, lamenti, potenziali scosse da programmare con intelligenza. 

Si viaggia con sguardi dal pianeta verso il cielo, dal cielo, dentro, nella profondità di questa Terra, esaminata e portata a una comprensione precisa, per far sì che ci appartenga una consapevolezza reale, con dinamiche poetiche e totalmente connesse alla introspezione. E allora la propensione elettronica sa stupirci, condurci alle lacrime, scaldando prima il cuore e poi la testa, consapevole che per molti occorrerà molto tempo prima di comprenderlo: la speranza è che almeno si impari ad amarlo in fretta, perché non c’è tempo da perdere, la Signora Marlene vi vuole tutti gentlemen. È un album d’amore per l’amore, dove gli sprechi, i rifiuti attitudinali verso la responsabilità di ognuno di noi debbono essere eliminati e non più prodotti.

Perché le voci e i silenzi di questa esistenza ai bordi del dirupo siano campanella d’allarme, la capacità di determinare azioni salvifiche.

Tutto è un velo, una finestra che concede comprensione e partecipazione, attraverso suoni e melodie che pur descrivendo le brutture lo fanno in modo incantevole, bellissimo, regalando aria pura e disinfettata, che è un’impresa mastodontica, soprattutto ai giorni nostri.

Dimenticare il passato di questa band per conoscerne una nuova: questo occorre fare per non perdere l’occasione di una nostra crescita perché loro, come sempre, ci hanno preceduti compiendola per primi.

Ci sono brividi in arrivo, copiosi, e vi sono anche fiaccole di stupore, l’incredulità del trovarsi dentro un fiume dove vivono sentimenti pieni di rughe, dove i sogni appartengono solo agli sciocchi.

Tutto in Karma Clima comporta la sudorazione della mente, in cui lo sconforto viene a trovarsi nella splendida situazione di essere uno stimolo. Non c’è da danzare, forse nemmeno da cantare, perché queste canzoni hanno una direzione diversa da raggiungere e solo una alleanza con loro ci farà visitare la concreta capacità che hanno avuto di trovare quella bellezza che cercavano ovunque.

Le atmosfere sviluppano la traiettoria celeste, un senso effettivamente in grado di non farci sentire il peso, perché la musica è un raggio di luce notturna su cui sono le parole a fare da contraltare, regalandoci, quasi come una poesia spaesata, chilometri di zavorre.

Il mondo viene visto dall’alto, avendo premura poi di camminarci dentro, per avere una visione globale precisa, dove il dettaglio non solo fa la differenza, ma rivela il senso di disumana indifferenza nei confronti di ciò che accade. 

Tutto è storia, geografia, dove la morale viaggia al loro interno, scuotendo l’anima che, smarrita, cerca una mano, trovandola proprio in questi canzoni disagevoli ma pregne di verità.

Davide Arneodo rivela tutte le abilità tecniche che dovevamo prima o poi veder confluire in un disco: tutti gli altri sono architetti che non prendono ordini da lui, ma sostengono con la loro classe infinita queste creazioni che hanno la modalità del suono attuale per essere più credibili. E allora giunge la compattezza della band, a definire artigli elettronici sposati con melodie barocche, dove tutto è innovativo, facendo indossare alla Signora Marlene un abito mai visto prima: solo dando agli occhi atomi di profonda osservazione li condurranno all’innamoramento, che se accadrà sarà immenso, data la capacità di questo tessuto di avvolgere e sussurrare emozioni e pensieri come un infarto necessario.

Avere bisogno di questi brani deve essere una esigenza che bisogna decidere aprioristicamente, il fiato va congelato, come ghiacciaio necessario, da aggiungere a un mondo surriscaldato che non dà più importanza al freddo.

Le canzoni però scaldano, eccome se lo fanno: sono proiettili sottili, polveri letali per accoppiarsi, in grado di bucare il superfluo che regna sovrano dentro menti assenti e che devono riscoprire il senso del dovere e non solo di quella libertà che sta distruggendo tutto.

Marlene salvifica, saggia, con quella pesantezza che non fa a meno di linee morbide e sensuali, di chiome da guardare e da accarezzare. E, come nucleo di un cuneo pesante, partono da Cuneo per coinvolgerci, per non perdere la leggerezza che si raggiungerà solo quando ogni cosa avrà ritrovato l’equilibrio che rispetta tutti.

Non servono le farfalle nello stomaco ascoltando Karma Clima: quelle devono poter vivere nella natura, come tante emozioni che non debbono essere una questione privata, bensì zone mentali contro la meschinità dell’interesse, e allora quest’opera diventerà un prodigio dentro di voi, anche nella pancia, non dubitatene, però prima deve entrare in circuiti a molti dei quali non siete abituati né interessati.

Cos’è in fondo questo lavoro? Una nuvola dallo sguardo acceso verso la clemenza, verso una necessaria pausa egoistica, una propensione melodica al futuro. Sono proprio i movimenti di accordi e le loro successioni ad essere un mistero che necessita di quel tempo di cui parlavo all’inizio: bisogna formarlo, viverlo, per non arrivare alla disperazione di quel “tutto tace,” che è il simbolo del disastro.

Ora vi porto nei sentieri che non sono sonici, schizzati, pieni di frastuono, perché dentro questo album tutto è maggiorato rispetto a questi tre elementi, tutto è elevato al quadrato con classe immensa, in un delirio che sarà vostro quando sarete voi ad andare verso i Marlene e non il contrario…



Song by song


1 - La fuga

Testo e musica compatti, determinati a fare del messaggio qualcosa di chiaro e ineccepibile, nel tempo della confusione e dello smarrimento. È arte allo stato puro questo perfetto connubio: non ci rende liberi di fuggire da un eventuale tentativo di nascondere lo sguardo e diventa un vento dalle sbarre pesanti capaci di raggiungerci dall’alto, precipitando sulla nostra meschinità. Il pianoforte rende drammatico il tutto, come lo fa il drumming, tra beat e pelli vere a rimbombare dentro le parole. Le chitarre sono nascoste, la melodia rivolge il pensiero verso il cielo e gli chiede il proprio silenzio… Imponente.


2 - Tutto tace

Il cantato sorprendente di Cristiano, sull’accoppiata piano-tastiera, è uno shock rigenerante, sino al grigio maestoso di un ritornello che conduce al pianto, intenso, e il tutto accade su una linea melodica stretta ma che accoglie potenti suggestioni. Perfetto esempio di ciò che dicevo prima: non conta se non arrivano le farfalle qui, in quanto questo brano vale di più di ogni pregiudizio, perché è un volo che appartiene alla saggezza, quella più clamorosamente dotata di classe. Quando la Luna ti entra nel cuore.  Clamorosa.


3 - Lacrima

Incalzante, vibrazioni elettroniche a rapire l’orecchio, con un ritornello che scioglie ogni resistenza, per dare la sensazione di come certe parole possano essere sostenute solo da una musica precisa, ed è un miracolo questo combo, che conduce a una lacrima “così tenera”. LACRIMA è la fotografia di un impeto desideroso di mantenere il contatto con il passato, ma con i passi dentro un presente che cerca di garantirsi un futuro.  Straziante.


4 - Bastasse

L’Olimpo Marlenico mostra il dolore e si trasforma in una ballata moderna, di ispirazione folk, con gli accessori di una perfetta miscela World ed Elettronica, il tutto con una  leggerezza che scatena commozione. Le chitarre lavorano in cantina, ma salgono le scale avendo un pianoforte come migliore amico. Come se il disco solista di Cristiano avesse trovato una proiezione umorale tra le pieghe del vestito della Signora Marlene. Intensa.


5 - Laica preghiera

Struggente, lenta, ampia come una vallata di alta montagna, dove poter sentire meglio gli Dei, questo brano contiene tutta la cura dell’intimità che viene portata agli altri. Per farlo sceglie tre fasi distinte, perfettamente collegate, con la partecipazione di Elisa, che stupisce per il perfetto mood attitudinale, per il fatto di dare alla sua voce la grandezza della musica.  Poi il finale vede lei e Cristiano fisicizzare il testo con un cantato commovente, mentre Davide Arneodo dipinge le traiettorie melodiche. Necessaria. 


6 - Acqua e fuoco

Dopo un attacco che evoca i Bad Seeds, si entra in una sezione di richiami elettronici in continuo movimento con uno splendido lavoro di archi; il basso di Luca quasi dub seduce e spiazza, con piacevolezza e incanto. E se esiste una musica che entra in un testo è proprio questa, per trasformare una melodia in una montagna russa. Intrigante.


7 - Scusami

Forse il momento più alto dell’album, dove l’emozione dell’ascolto fa tornare la canzone dentro di noi per appropriarsene, con la miscelanza di chitarre e tastiera che sono i motori di un groove che potrebbero farci danzare a testa bassa. Ed è un volo che contiene parole mature, che creano feritoie e ferite, sino al recitato finale, nello stile personale di un crooning che abbiamo imparato a conoscere in questi anni. Corrosiva.


8 - Vita su Marte

Una radura di dimensione apocalittica entra nella progressione stilistica musicale che offre il peso specifico di una band completamente dentro processi creativi studiati, e in modo perfetto. Nessuna concessione: anche il ritornello, che potrebbe subire attacchi da parte dei critichini, in realtà è la legittima conseguenza dell’impianto che lo precede. Maliziosa e sensuale.


9 - L’aria e l’anima

Ed è un racconto dalle piume piene di ricordi quello che conclude l’album, il teatro che entra nelle immagini create dalla penna accalorata di Cristiano, su una base musicale struggente, che sospende ogni pensiero obbligando all’ascolto approfondito. La tristezza diventa il giudizio conclusivo sulla crudeltà umana. La chitarra finale è il bacio di addio, dove se esiste una speranza è in quelle note… E il sorprendente coro di chiusura, oltre a intenerirci, sa anche essere uno schiaffo al mondo adulto. Uno zigzagare nel caos sensoriale.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

30 Settembre 2022


Karma Clima
https://open.spotify.com/album/23RMGstKGwXFnA5SOygDho





mercoledì 28 settembre 2022

La mia Recensione: THE SMITHS - Strangeways here we come

 THE SMITHS - Strangeways here we come 


Recensione di tre anni fa che ripropongo


Dopo aver seguito tutta la loro carriera, album dopo album, un giorno, poco dopo l’uscita di questo, mi sono ritrovato con la consapevolezza che non ce ne sarebbero stati altri: un dolore, un tormento, una dannazione che mi ha attanagliato per molto tempo.

Questo è un album che lascia un gusto amaro nel cuore, taglia le gambe, spezza il respiro: questa band è la band della mia Vita, della mia adolescenza, persone che sono state il mio sguardo, il mio pensiero, gli attimi minuscoli che giorno dopo giorno hanno fatto di me una persona.

Un album che davvero è una prigione, dove arrivano un po’ tutti: ragazze in coma, persone che devono essere fermate, ballerini, gente infelice, e tanto altro.

Questo album è un luogo che mostra come sia possibile mostrare una grandezza assoluta anche nel momento dello sfacelo, del conflitto, della disperazione.

Un album sofferto e sofferente che come una vanga stacca la terra dal suo luogo originale per essere spostata da un’altra parte: quella parte è l’immortalità, il rispetto, il ricordo.

Canzoni che decretano ancora una volta un sicuro talento ma senza la speranza che abbiano dei fratelli e delle sorelle in avvenire.

È uno sparo secco che dura 36 minuti quanti bastano per decretarne un posto sicuro nel mio Olimpo degli ascolti, la mia venerazione ed il mio Grazie eterno.

Strangeways è una bandiera che non si ammaina, è un gesto di addio che non conosce fine e al quale io volgo il mio sorriso e la mia lacrima perché nessuno come The Smiths è riuscito a fare questo in me, e ascoltare ancora oggi questo album fa di me un essere in privilegio costante.

Non fatico a pensarla come Morrissey e Marr che l’hanno definito il loro Migliore: in quella affermazione c’è tutto il rispetto per un album che ha avuto un travaglio tormentato, una guerra ed una distanza interna ma che non ha tolto la classe cristallina di quei due che, anche senza più la serenità di un tempo e l’amore di una amicizia immensa, hanno lasciato al Tempo, un gioiello, l’ennesimo, irripetibile, eterno.

Lunga vita Strangeways: sei nel podio da 32 anni e non scenderai mai perché ciò che vale non conosce la scomparsa.


Song by song


A rush and a push and the land is ours


Per il loro ultimo album i Mancunians aprono le danze portando a se, con la solita magistrale scrittura di Morrissey, un fantasma che si aggira e che fa dell’amore un luogo strano, gesti strambi, una storia accattivante sostenuto dal menestrello Johnny in splendida forma che attira a se Andy e Mike in una canzone che inizia con profumi francesi degli anni 30 per diventare nel giro di breve una canzone con il chiaro marchio The Smiths.


I started something I couldn’t finish


Una canzone zeppa di giochi di chitarra, la voce di Morrissey che lancia singhiozzi gutturali come era abituato fare con i Live, una canzone che spiega ancora una volta quanto nella musica pop sia importante l’arrangiamento, che completa, e snellisce, abbellisce la struttura.


Death of a Disco Dancer


Tenebre, momenti di tensione, paure, sensazioni sinistre: sono l’avvio di questa candela che illumina la mente, questa è una canzone spettacolare che mostra come per quanto Moz e Johnny possano non più guardarsi in faccia i loro talenti erano come calamita ed un pezzo di ferro, destinati ad essere uniti. 

Una canzone che cresce con un Pathos enorme sino ad approdare ad un finale che è burrasca, siamo fradici, spettinati, lacrimanti: un testo ed una musica che sono un tutt’uno, Johnny e Mike piloti della melodia e del ritmo alla fine di questa che senza dubbio è una delle canzoni più belle mai scritte.


Girlfriend in a coma


La band con la maggior capacità di produrre Singoli è qui ad affermarlo ancora una volta con questa canzone, una apertura alare per far entrare ossigeno nei nostri polmoni.

Musicalmente vede la connessione con quei anni 60 anni tanto amati ed un arrangiamento più moderno per una canzone che può anche farci danzare mentre Morrissey scrive in poche parole quelli che altri non riuscirebbero a fare con migliaia.


Stop me if you think you’ve heard this one before 


Nuovo capitolo di Morrissey della serie: come non aver paura di un titolo lunghissimo.

E questo è un brano che rivela come in fondo gli Smiths non siamo mai cambiati così tanto ma di aver saputo aggiunger dal loro potenziale solo quelle che davvero era necessario.

Capace di stare in Meat is Murder come in The Queen is Dead, quì si respira tutto il loro essere inglesi, l’ironia, l’amarezza, la diffidenza, un nuovo proiettile che ci trascina a danzare con spensieratezza mentre sono le parole stesse dei proiettili senza che nemmeno ce ne accorgiamo, li facciamo entrare in noi sorridendo: ecco, anche solo per questo motivo la penna di Morrissey è unica.


Last night I dreamt that somebody loved me


Cosa posso dire di questa canzone? Può una mano essere ferma mentre trema dinamite con tutto il suo carico di disperazione? Posso io tradurre una marea che sposta tutto ciò che ha al suo Interno?

No, qui non parliamo di canzone, di arte, o di quanto altro.

Qui è un dolore allucinante che trova una voce malinconica ed una musica maestosa, che per sempre regnerà Sovrana nei nostri cuori.

Con una introduzione che poteva anche bastare come canzone ecco che poi arriva il Fragore, che ci butta nel mare con violenza e amarezza, una musica perfetta per morire, non in pace, ma con l’illusione di braccia che possano salvarci come atto d’amore ma...era tutto un sogno e ora con tutti gli organi sconnessi e migliaia di lacrime io brindo a quella che forse è la canzone Manifesto del talento di Johnny e Morrissey.


Unhappy birthday 


Ironia: questa amica fraterna di Morrissey.

Talento musicale: questo supporto eterno di Johnny.

Andy e Mike sono bravissimi ma tutto proviene dai due ormai ex amici che confezionano una canzonetta irresistibile e moderna con aperture alla danza e alla sospensione, una frenata ed una accelerata essenziale.


Paint a vulgar picture 


L’introduzione vale già una carriera per molti chitarristi: deliziosa, sensuale, potente, dolce che poi fa entrare a bordo un basso semplice ma a sua volta irresistibile.

Una invettiva che deve per forza , per sua natura, essere feroce e spietata e su questo chi meglio di Morrissey può sciorinare l’infinita collezione di contraddizioni, la precarietà, il cattivo gusto, la tristezza del fare denaro sulle spalle degli artisti incuranti dei loro bisogni e ideali? 

Tenetela stretta a portata di riflessione: questa canzone è stata una bomba che è esplosa addosso a migliaia di idioti che, corrompendo sopratutto i giornalisti musicali, hanno cercato di restituire a Morrissey ma lui ancora oggi continua a fare quello che fece con questo testo, perfetto e purtroppo meraviglioso.


Death at One’s Elbow 


The Smiths di Meat is Murder tornano con un vestito nuovo, un titolo nuovo, nuovi trucchi ma lo stile, compatto e perfetto, è quello, uno stile che sappiamo bene essere riconoscibile.

Forse un testo non riuscitissimo per una volta, e glielo concediamo, ma rimane una bella canzone.


I won’t share you 


L’album finisce, il sogno finisce, la realtà cambia e prima di fare tutto questo gli Smiths si congedano con una canzone che profuma di esordio: Johnny e Moz di fronte, chitarra acustica, voce e sguardi, parole che arrivano come petali.

Poi, il nuovo Johnny, il ragazzino diventato nel tempo maestro di confezionatore di abiti cuce addosso un arrangiamento che è delizia pura e intoccabile.

E sfuma alla maniera sua salutandoci e donandoci lacrime che non perderemo mai...


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

29 Settembre 2019


https://open.spotify.com/album/7jfexk2w5aDI25njkN0UGg?si=tZd7u66qSuWsPt9JK5GePA




domenica 25 settembre 2022

La mia Recensione: SixTurnsNine - Borders

 SixTurnsNine - Borders


Prendiamo un aereo e voliamo a Düsseldorf, nella Germania Occidentale, per respirare tutto il profumo artistico che quella città emana da sempre.

Molto attiva, capace, importante, ha tra le sue braccia anche una spiccata propensione a proporre continuamente band in grado di affascinare, attirare, dando al suo porto la possibilità di smerciare musica veramente interessante.

L’orecchio dello scriba cade nell’ascolto dell’album di esordio del combo tedesco che ritiene il più strutturato nel generare clamore, intensità, ricchezza per la volontà di non rimanere legato solo alla storia del luogo di appartenenza, bensì di avere in dote la capacità di un respiro internazionale che gioca totalmente a suo favore.

Dopo cinque anni spesi a conoscersi, sperimentare e creare proprie canzoni, i tre cavalieri della fascinazione pura hanno deciso di fare il grande passo pubblicando Borders, che, senza perdere tempo, è un gioiello che si attacca ai tessuti della mente, arriva al pericardio e invade le vene, tutte, per coccolarle attraverso melodie e soluzioni tramite un uso sapiente dell’elettronica.

Il tutto potrebbe essere banalizzato da un “È Trip hop”: nulla di più incompleto, parziale e lontano dalla verità.

Innegabili sono l’attitudine e l’abito, ma immergendosi in un vero ascolto si colgono non solo sfumature, bensì anche costruzioni non necessariamente legate a quel genere.

Riusciamo invece a scorgere fiammate Post-Punk, dentro flussi di detriti di musica Industrial tenuta sapientemente come contorno, per  dare spazio a nuvole di Proto-Goth, creando un insieme suggestivo e originale.

Lutz Bauer è il genio, il pilota dei suoni, l’uomo che scolpisce le composizioni fornendo suggestioni spettacolari, fresche, moderne, senza dimenticare decadi che sembrano lontane.

Il bassista si chiama Philip Akoto, il poeta della ricchezza, dal talento sopraffino e con la capacità di avvolgere le architetture di Lutz in modo perfetto.

Poi lei, Anja Valpiani, la voce straordinaria dal canto vellutato, romantico, sensuale, una rugiada dai cristalli nell’ugola. Lei ha il merito di non vedere la sua lingua di origine come un ostacolo: canta perfettamente in inglese e la sua tecnica non è per nulla penalizzata, come pure i testi che paiono scritti da una madrelingua.

Le luci, la penombra, il buio sono territori emotivi che vengono vivisezionati e portati dentro una contemplazione che non lascia nulla al caso. 

Musica come parole che incantano, parole come musica che nutrono l’ascolto e lo gettano verso la leggerezza, malgrado la luce buia della notte, perché i tre ci portano in ogni caso raggi di sole.

Occorre metodo nell’ascolto, per poter individuare la miriade di elementi (non solo influenze) che rendono compatto e intenso questo debutto, occorre cercare, solamente in questo modo si potrà essere travolti dolcemente da una cascata sensoriale che creerà beneficio senza limiti. L’ascolto allora diventa un imbuto che ci condurrà nel canale intuitivo, programmato, sviluppato dai tre alberi tedeschi, sì, proprio così, perché loro sono individualmente capaci di donare forza e una bella visione. Ma la loro unione fa schizzare alle stelle le loro singole qualità: Borders è una tavolozza di odori resi corporei, un miracolo in grado di sortire slanci di intimità con destinazione l’estasi e la catarsi.

C’è una tensione blues che permea tutta l’opera, soprattutto per via di alcuni passaggi vocali di Anja che riesce a variare le sue incredibili interpretazioni  seguendo il flusso della musica, come se fosse ipnotizzata e sedotta da stimoli che arrivano dal corredo delle note, per poter volare liberamente con la sua tensione interiore. 

È fluorescenza articolata che giunge inavvertitamente, come ulteriore conferma di una potenza che da tutte le parti confluisce nel centro dei nostri sensi percettivi.

Si è circondati dalla dolcezza, dalla sensibilità, dalla leggerezza che dalle nuvole scende dentro il nostro sistema nervoso centrale, che è desideroso di sconvolgimenti delicati.

Doveroso è anche rendere merito a testi che spaziano moltissimo, dall’amore che si sente, che cerca protezione, che vuole condivisione, a una romantica e positiva attitudine anche nello scrivere del dolore, della fatica dell’esistenza, il tutto con pennellate di fantasia perfettamente cucita sulla realtà.

Con annessa la descrizione di volontà che mettano nei nostri ascolti e successive interpretazioni emisferi perfettamente ramificati.

L’impatto delle connessioni tra l’esterno e l’interno vengono specificate attraverso liriche potenti e convincenti.

È consolante, carezzevole constatare come le atmosfere e le modalità scelte per esprimere flussi magnetici di magia intensa abbiano nel suo DNA anche un fare che consuma l’esperienza Trip hop per cogliere un succo in un frutto che sembrava ormai spolpato del tutto. Questi impareggiabili tedeschi invece lo ripresentano, ma con la volontà di mostrarne il valore con la purezza di mescolanze che ne aumentano il prestigio.


Moments, Fatigue, Ginger: canzoni nelle quali viviamo tutti una scossa elettrica elegante dentro atmosfere cupe ma piene di grazia.

Flames è la perfetta miscela tra una sensazione che i Cure potevano indirizzarsi verso questo pianeta musicale e il Trip hop.

Love Map offre una voce che si arrotola dentro i battiti, ed è vapore che si scioglie nel crooning e pennellate di incanto.

Ma tutte le composizioni hanno un’immensità da sfiorare con la magia di trucchi che sapranno lasciarvi a bocca aperta…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Settembre 2022

Data di pubblicazione album: 30 Settembre 2022










My Review: SixTurnsNine - Borders

 SixTurnsNine - Borders


We take a plane and fly to Düsseldorf, West Germany, to breathe in all the artistic perfume that city has always emanated.

Very active, capable, important, it also has in its arms a marked propensity to continually come up with bands that are able to fascinate, attract, giving its harbor a chance to put on the market really interesting music.

The scribe's ear listens to the debut album of the German combo that he feels is the most structured in generating hype, intensity, richness because of its willingness not to remain tied only to the history of its place of belonging, but rather to have in its possession the capacity for an international scope that plays totally in its favor.

After five years spent getting to know each other, experimenting and creating their own songs, the three knights of pure fascination decided to take the plunge by releasing Borders, which, without wasting any time, is a jewel that sticks to the tissues of the mind, reaches the pericardium and invades the veins, all of them, to cuddle them through melodies and solutions with a skillful use of electronic music.

The whole thing could be trivialized by "It's Trip hop": nothing could be more incomplete, partial and far from the truth.

The attitude and the dress are undeniable, but immersing oneself in a careful listening one catches not only nuances, but also constructions not necessarily related to that genre.

Instead, we manage to notice glimpses of Post-Punk flames, within streams of debris from Industrial music held expertly as a contour, to give space to clouds of Proto-Goth, creating an evocative and original whole.

Lutz Bauer is the genius, the driver of sounds, the man who sculpts the compositions providing spectacular, fresh, modern suggestions, without forgetting decades that seem distant.

The bassist is called Philip Akoto, the poet of richness, with an overpowering talent and the ability to wrap Lutz's architectures perfectly.

Then she, Anja Valpiani, the extraordinary voice with velvety, romantic, sensual vocals, a dew with crystals in her uvula. She has the merit of not seeing her native language as a hindrance: she sings perfectly in English and her technique is not at all penalized, as are the lyrics that seem to be written by a native speaker.

Lights, dimness and darkness are emotional territories that are vivisected and brought inside a contemplation that leaves nothing to chance. 

Music as words that enchant, words as music that nourish our listening and throw it toward lightness, despite the dark light of night, for the three bring us rays of sunshine anyway.

One needs method in listening, to be able to identify the myriad elements (not just influences) that make this debut compact and intense, one needs to search, only in this way we can be gently swept away by a sensory cascade that will create limitless benefit. Listening then becomes a funnel that will lead us into the intuitive, programmed channel developed by the three German trees, yes, that's right, because they are individually capable of giving strength and a beautiful vision. But their union makes their personal qualities skyrocket: Borders is a palette of smells which have been given a physical form, a miracle capable of producing spurts of intimacy made to reach ecstasy and catharsis.

There is a blues tension that permeates the entire work, especially because of some vocal passages by Anja, who manages to vary her incredible interpretations by following the flow of the music, as if hypnotized and seduced by incentives coming from the set of notes, in order to fly freely with her inner tension. 

It is articulated fluorescence that arrives inadvertently, as further confirmation of a power that from all sides flows into the centre of our perceptive senses.

One is surrounded by the gentleness, the sensitivity, the lightness that descends from the clouds into our central nervous system, which is eager for a delicate upheaval.

It is also necessary to give credit to lyrics that range widely, from love that is felt, that seeks protection, that wants sharing, to a romantic and positive attitude even in writing about the pain, the toil of existence, all with strokes of imagination perfectly stitched to reality.

With attached description of wills that put perfectly branched hemispheres in our listening and subsequent interpretations.

The impact of the connections between the outside and the inside are specified through powerful and compelling lyrics.

It is comforting and caressing to see how the atmospheres and modes chosen to express magnetic streams of intense magic also have in its DNA a way of doing that consumes the Trip hop experience to extract the juice from a fruit that seemed to have been squeezed entirely. Instead, these peerless Germans re-present it, but with a willingness to show its value with the purity of mixtures that enhance its prestige.


Moments, Fatigue, Ginger: songs in which we all experience an elegant electric shock inside dark but grace-filled atmospheres.

Flames is the perfect blend of a feeling that The Cure could move towards this musical planet and Trip hop.

Love Map offers vocals that roll up inside the beats, and it's steam that melts into crooning and brushstrokes of enchantment.

But all the compositions have an immensity to be touched with the magic of tricks that will leave you speechless....


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26th September 2022

Date release: 30th September 2022








giovedì 22 settembre 2022

La mia Recensione: Edda - Illusion

 La mia Recensione:


Edda - Illusion


Una pellicola intensa, che circonda e compatta la nostra esistenza, si appiccica alla pelle, alla mente, condizionando i comportamenti, partendo dai sogni per arrivare alla pazzia più pulita, con inevitabile propensione a toccare anche quella sporca. 

Si chiama Illusione.

Diabolica strega dall’abito elegante, pesante come gocce di piombo, precipita su tutti noi e si trasforma in undici canzoni per il sesto album di Edda (Stefano Rampoldi), capaci di definire meglio la sua esistenza, in una tavolozza magica effervescente e cupa, come doveva essere. 

Questo insieme di voci, suoni, racconti strambi e sensuali, regala anche malinconici dettagli, una intossicazione che conduce l’ascolto a ripetersi, senza correre il rischio di assuefazione.

Estremo come sempre, Stefano educa se stesso in una collaborazione verso strategie che permettano alle canzoni di rivelare ancora meglio il suo talento e per fare questo arriva Gianni Maroccolo con una produzione che esalta la purezza delle composizioni, mettendo lui stesso un’altra pellicola intorno a questo circo senza catene che è Illusion. Le uniche che troviamo sono quelle di una disciplina che arriva a strutturare perfettamente le canzoni e in questo il toscano dal sigaro perennemente sulle labbra riesce in modo perfetto.

I brani circondano la struttura italiana con un tocco internazionale e corrodono le resistenze: inevitabile è l’innamoramento viscerale nei confronti di queste perle che sanno spaziare, atterrare nei sensi, creando voluminose piacevoli illusioni.

Si cavalca la melodia, la delicatezza, si cade senza attrito nei testi che più che mai rendono lucido il campionario infinito di una sensibilità estrema coniugata alla deflagrazione che fa di Stefano un esempio unico nel saper navigare tra la profondità e l’inafferrabile, perché anche la sua scrittura è libera e distante da quella di tutti gli altri.

I territori sonori sono dune agitate, propense ad allucinate miscelanze di ballate con attitudini folk rese perfette da strati psichedelici. Il tutto rivestito da una chiara tensione con la cravatta per stringerci verso l’attenzione obbligatoria perché nulla è da disperdere. Il pathos che ne consegue ci butta dentro riflessioni continue ed emozioni dagli occhi lucidi perché Stefano ci mostra il campionario di visioni con la bava, trasportandoci in quell’altro emisfero che da soli non sapremmo raggiungere. 

Il lavoro di Gianni Maroccolo è lo spettacolo dentro lo spettacolo, arrivando a creare simbiosi e tuffi nella precisione con dettagli che sottolineano la vastità di impianti allucinati dei brani di Stefano, che lui struttura per liberare il maremoto di vibrazioni che sono queste coperte che ci riparano dal freddo, dal vuoto. Tutto è un tintinnio, un richiamo algebrico e viscerale, una raccolta di spasmi e orgasmi che si baciano.

Il campionario tematico è il solito: l’insieme di grattugianti sguardi verso il reale e la fantasia, che Stefano nella sua carriera solista ha saputo riempire sempre con capacità vivida e focalizzata, per dare sempre l’impressione di riuscire a conferire ai sogni la capacità di saltare a piedi dispari nella realtà.

La sua aura comprende i deliri e le necessità umane di scombinare le teorie con schizzi di natura alcolica per intontire le convinzioni, come film che passano dal sentiero di un nervosismo controllato, fatto di immagini liquide, a visitare il palco di un teatro dove l’esistenza è messa in dubbio.

L’arte Eddiana è sempre un concentrato di poesia che si scrolla di dosso ogni vincolo con la sua prevedibilità, come per certi schemi, divenendo un incantevole maleducato che alla fine seduce per le sue corse dentro le narrazioni strazianti, con ritmi e generi musicali che vengono saldati ad alto voltaggio alchemico con ciò che vorremmo sentirgli dire.

Illusion è senza dubbio sia il canto del cigno verso un passato che solo in parte gli ha reso giustizia, sia la bandiera della sua identità finalmente capace di circondare ogni atomo con la sua ironia dirompente. Album che è un cittadino del mondo in grado di vestirsi di colori sgargianti, che utilizza i suoni, le strutture come il basamento di un futuro dalla faccia sporca, senza vergogna da temere.

Il suo cantato (libellula arancione con un limone in mano pronta a schizzarci addosso i suoi liquidi aspri) è più che mai efficiente e in grado di rendere le sue parole come diavolo in perfetta forma, sempre petardi senza sosta, che rendono i nostri stomaci farfalle bagnate e sirene, questa volta tramortite.

Il suo falsetto è una ninnananna psicotropa, in volo sulle nostre attese, come poesie nel profondo di un’ugola che pettina le nostre stanze. 

La chitarra, la sua donna dalle gambe aperte, ci avviluppa mentre a sua volta si fa avviluppare da strumenti ed espedienti che la colorano di una tonalità non ancora esistente: in questo, tutto sembra prodotto da una band di profughi dall’umore giusto, con buona propensione a dare alla sei corde di Stefano nuova linfa.

I suoi soliti scherzetti vocali sono questa volta non solo divertenti ma spesso inquietanti: come una veggente che sfida la fortuna, Edda con le sue interpretazioni, dalle diamantate inclinazioni, sovente ci spaventa e ci irrigidisce, ci fa vedere il sole come una luna senza luce, rendendo fredda la pelle dalla paura.

La sua sincerità è il presupposto su cui gli ascolti trovano disagi e stimoli, un fare le valigie tremando, con le cartine di viaggi immaginari che vengono fumate nella stanza, dove gli ascolti delle sue canzoni diventano lo stretto necessario. Sa essere ruvido, una colata di fango che spettina e ci inumidisce con emozioni che intimoriscono per profondità e durata, dentro la cura di suoni che sono la sua spada, il vento necessario per portarlo, velocemente, dentro i labirinti dei suoi pensieri, sempre devastanti e ipnotici. Sembra che viva una perenne esigenza di metamorfosi, di distanziarsi da se stesso mentre forse, e deve essere così, è solamente il fatto che è infinito il suo serbatoio, dove più che pescare lui  si tuffa, inebriandosi della sua stessa benzina.

Questo album non concede dubbi: non vi è strategia che infastidisce per copiosa capacità ma un panorama che, ascoltando le sue disarmonie, può essere visto nella sua interezza, avendo la percezione netta che ogni sua creatura musicale sia il progetto di un accordo tra il diavolo e il suo genio, in un duello che regala minuti che ci portano nel loro transito non terrestre.

In aggiunta: la sua dolcezza disarma, intenerisce e conquista, e per davvero vorremmo tutti circondarlo di affetto mentre ci suona tutte le canzoni di questo album, il più maturo, riuscito, che non solo lo svela e rivela ma al quale ci si abbandona per dichiarare tutto il bisogno in un ascolto che è la nostra penna che scrive il nostro ringraziamento…


Altamente consigliato a tutte le anime che vogliono intossicarsi di bellezza generosa in quantità, che alberga in ogni nota…




Song by Song 



Mio Capitano


È subito gloria pura: un Capitano descritto in modo scanzonato, con ilarità, su una chitarra che balbetta mentre le parole volano su note leggere per accogliere un falsetto quasi urlato, tutta la schizofrenia dentro parole di sale che si sciolgono all’interno di “un episodio inevitabile”. 



Alibaba 


Il milanese Edda gioca a fare i cuneesi Marlene Kuntz con un brano che dà modo alla voce di essere brivido, su chitarre carezzevoli, e una valanga di morale che sconfigge la retorica sulla famiglia, per un’atmosfera che annette anche la sensazione che gran parte della canzone italiana sia qui a rendere merito a Stefano Rampoldi per il fatto di rappresentarla perfettamente. 




La croce viva


Chitarre e basso disegnano il cielo su cui le doppie voci raccontano e ci si siede ammutoliti: l’Edda minimalista è pura vibrazione con la sua leggerezza a svegliarci tutti, con ogni atto di fede che finisce dentro i sogni. Una chicca in punta di piedi che ci paralizza.




L’ignoranza


Sempre serio e spietato, la sua intelligenza ci regala un brano dove si può ridere ma lo si fa sudando, sapendo che nulla è falso per davvero in queste parole. La musica viaggia tra ipotesi di climax francese e un alternative dalle lacrime spugnose, con cambi di suono e approcci stilistici che esaltano le distorsioni della chitarra chirurgica. Il lavoro del basso finale regala l’illusione di un dub dalla faccia nuova.



Signorina Buonasera


Siamo in un involucro sixties, varianti quasi progressive e l’arrivo della valanga ironica che frusta l’incoscienza, il falsetto sembra provenire dai Jackson Five, mentre tutto è pregno della sensazione che la musica leggera sia nel DNA del cantante milanese come scusa: sono martellate sulle ginocchia le allusioni del testo e la musica circostante.



Trema


Il mai dimenticato Claudio Rocchi potrebbe abbracciare Edda, in un girone di affetto sincero: si piange che è una gioia maestosa, tra la chitarra con la gobba che sorride tra accenni di Radiohead e gocce di Flamenco e la voce che richiama la notte per mostrare tutta la sua spiritualità. 



Carlo Magno


Il rock’n’roll di Edda è una fiaba, che entra dentro la Storia, per raggirare tutti smantellando la verità con ritmo, e l’eleganza con cui sbeffeggia fa sì che tutto diventi trascinante, incluso un assolo di chitarra lisergica.



Gurudeva


Rallenta il ritmo ma non la tensione ad alto voltaggio, perché siamo dentro il viaggio di una identità che, scombussolata, mostra il suo volto con grande autoironia. La linea melodica del canto sembra uscito dal Paradiso, le pennate della chitarra fanno di questo brano un’altra lacrima appesa al muro, mentre rimaniamo ad aspettare…



Lia


Il singolo che ha preceduto l’uscita del disco sembra un gemellaggio con Moltheni, dove vince l’atmosfera, che è torbida e romantica al contempo: sarà per la voce che si attacca alla dimensione onirica o per le trovate musicali che sembrano frutto di un arrangiatore in strepitoso stato di forma. Delicata, sognante, è una frusta che lascia lividi sul cuore.



Mirai


Saliamo sull’ascensore per vivere in modo perfetto la claustrofobia di questo assurdo viaggio sensoriale, tra l’azione di un cielo che arriva a turno per farci chiudere gli occhi. Parole come spine, musica che crea un alone misterioso per il suo approccio verso i mai dimenticati anni sessanta, una quasi ballad che in realtà è una strega fatata.



Brown


Perfetta conclusione dell’album, con il brano dal respiro funky, tra la nebbia che sembra nascondere la sua propensione. Ed è un delirio sottile, con il cantato che mostra la potenza e l’unicità della lingua italiana, i giochi melodici nei saliscendi morbidi, come una montagna russa al rallentatore che trova modo di accelerare all’occorrenza. 


Produzione: Gianni Maroccolo


Alex Dematteis

Misocshockworld

Salford

22 Settembre 2022


L'album esce il 23 Settembre 2022


https://open.spotify.com/album/15JTXaZFeti9JS6EKK3OXa?si=WDrz5A_RQLqJWKDmuyE2XA






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