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giovedì 25 aprile 2024

La mia Recensione: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

 




Sinéad O'Connor - The Lion and the Cobra



In un mondo che cerca la perfezione, i capolavori, lo stupore garantito senza dover fare fatica, preferirei affermare che almeno nella musica bisognerebbe porsi con un approccio umile, finendo per provare anche imbarazzo nel non saper maneggiare la bellezza e la profondità, la diversità e il clima interiore creato.

Poi ci sono i momenti in cui diventa sconvolgimento, tormento, valanghe di domande a ruota libera, smottamenti dei sensi con la sicurezza di creare e vivere un legame terreno, pronto a diventare eterno. E quando le note, le parole, le voci, gli strumenti ci fanno sperimentare tutto questo si diventa intimi, complici, riconoscenti, effervescenti, gabbiani in volo senza perimetro nel cielo.

Nel 1987 usciva un disco capace di fare questo, una porta sbattuta in faccia, con splendidi dolori a colorare di amianto le pareti del cuore, con una energia che non ha conosciuto esaurimento in quanto la perfezione esiste solo nella maniera in cui cavalca il tempo senza smarrirsi: Lion and the Cobra lo fa benissimo, come un bacio eterno di Apollo, Dio della musica e dell’arte che diede il suo beneplacito consenso per fare di questo disco la colonna sonora delle giornate di un paradiso parallelo, che si specifica nella possibilità di dare spazio a tormenti, follie, esagerazioni, molteplici flussi di coscienza propulsiva.

Queste canzoni sono frecce rabdomanti che cercano di entrare nel cuore dell’ascoltatore, senza l’esigenza di trovare concordia, bensì un luogo nuovo dove sperimentare gli effetti causati da queste nove nuove droghe diverse, in un pomeriggio che si dimentica di se stesso e sperimenta effetti: nel cuore del Vecchio Scriba durano ancora oggi, trentanove anni dopo. 

Come una barca che affitta la storia di un intero Paese e la porta in viaggio verso facce che parlano lingue diverse, così fa questa opera, un debutto fragoroso e micidiale, un assurdo che crea congegni per una masticazione che non darà mai totale gioia, perché questo non è necessario: Sinéad non cura le ferite, le causa in modo delizioso, ci mostra i nostri moti ingenui, incoscienti mentre dormono e lei si premura di svegliarci, con tattiche e pianificazioni che riescono nell’obiettivo. Battaglia con se stessa, con demoni, angeli, personaggi veri, finti, in un crescendo straordinario per la fattura della scrittura e dell’interpretazione, all’interno di un apparato davvero molto vasto, che scavalca i geni dei generi musicali e si accorda con la sperimentazione, con il riprendere concetti attitudinali del passato, shakerando ogni cosa nel centro del suo ventre, luogo di partenza e di distribuzione della sua enorme sensibilità. Nulla è affidato all’ipotesi, al calcolo, tutto viene invece registrato per essere messo nel vento, l’unico modo per assicurarsi la possibilità di un viaggio che possa toccare le coscienze. La giovane età, al momento della scrittura dei brani, non le ha impedito di mostrare forza, idee compatte, qualità plurime, di riuscire a definire il mancante, quello che nel 1987, inconsapevolmente, si stava aspettando ed è proprio questa la capacità più grande: dare ciò che non si sa ancora di desiderare…

Una fata travestita da strega, favole come l’incubo per la cronaca nera, analisi psicologiche che si affrettano a essere inserite nella memoria, stravaganze multiple in grado di assestarsi nel conscio, l’inconscio che viene stimolato a prendere una strada: è solo l’inizio, una infinitesima parte di ciò che accade mentre ciò che pulsa, nell’ascolto, diventa radice, capace di scendere in profondità, ribellandosi alle convenzioni, usando il linguaggio diretto della sincerità, sempre più sconveniente per chi ama nascondersi. Lei trova questa massa e la ribalta, con delle canzoni: ma che potere meraviglioso è questo?

Troviamo il romanticismo pelvico di un'Irlanda che sa come sfuggire al logorio del tempo, per rimanere indenni e poter raccontare le storie che si tramandano in una splendida abitudine, per accompagnare le giornate dentro un labirinto verde, sempre fresco, roboante, rotante, in perlustrazione perenne, e lo fa attraverso una sensibilità folk che bacia il rock, con  spruzzi di elettronica, contemplando petali di world music disseminati sotto pelle, non rinunciando a far danzare, con la testa che è un alveare sorridente, in cerca di spazio, creandolo e definendolo. L’adolescenza, nel disco, è una vibrazione verace, propositiva, che si ambienta benissimo nelle direzioni che spostano continuamente i sogni e la realtà, sempre un metro più avanti. 

Grida, sussurra, abbaia al pentagramma, si contorce nei suoi moti, non indugia mai, non zoppica, cammina sulle note come se nel suo dna questo non fosse un appuntamento ma la sua casa, da sempre. Muovendosi con agio, distribuisce pillole di saggezza, contempla una ribellione dei sensi, travolge la noia con la sua freschezza e colora la mente con artigli dalle molte piume: graffia e fa cadere dalla nostra pelle le nostre consolidate abitudini.

Un disco profetico, poetico, malinconico, mai attendista, mai volenteroso di sprecare il tempo e, con molta umiltà, capace di mostrare piani culturali in cerca di un approdo, di nuove partenze che con questi brani diventano obbligatori. Lei non permette l’indifferenza con questo album, ci trascina nel baratro ingannando la falsità con la sua totale sincerità. Disarma, mettendoci nelle braccia della mente fiori, idee, strisce di ribellioni da contemplare, come un compito a casa a cui non negarsi mai.

Leonessa, cobra, ma anche camaleonte, renna, gatta, gazzella, aquila reale, delfina, orso bruno, furetto, in un elenco infinito che mostra le molte anime in cammino tra i versi, i caratteri sempre ben visibili che riempiono il terreno mentale pieni di appigli, in un quadro che con il passare degli ascolti definisce la giungla umana, rendendo possibile lo scambio con il mondo animale. E poi ci sono spiriti mobili, che premono, coinvolgendo in modo autoritario, un bacino di pensieri pronti a scattare in piedi. 

E poi lei, la voce, un miracolo continuo, una cascata vibrante di gocce tra il dolce e l’amaro, che, iniettando indiscutibili capacità tecniche, si plasmano in modo straordinario nel suo sentire, nel suo tratteggiare le parole con spinte continue, in saliscendi affascinanti, toccanti, finendo per abbellire la nostra mediocrità. Una passeggiata, un corteo di qualità che non conosce debolezze, vivido, fulminante, sensuale, un terremoto che scuote i timpani e li rende utili nel comprendere che oltre la forma c’è una sostanza indiscutibile.

Quando urla, geme, sembra mostrarci il suo parto nel momento in cui non può più trattenere il corpo che per una vita ha avuto dentro di sé: una nascita continua, con il sudore che si appoggia alle corde vocali allenate per spazzare via l’indifferenza e nutrire gli stupori.

La sua natura è strabordante, avanza, sequestra, benedice, chiede aiuto, volge le spalle alla stupidità, affronta la crudeltà, immerge la sua devozione nell’amore che l’ha ferita e lei, come un angelo sapiente, sa insegnare a trasformarlo, a erigere il tutto su un piano meritocratico. 

Semina, incendia, polverizza, attende, mostra disincanto e sfiducia, nutre dubbi, e sale sulla carrozza dell’impegno affrontando tematiche urgenti, paralizza l'inutile e diventa Dea senza paura, battezzando sperimentazioni alari per insegnarci nuovi voli. 

Suona, questo incredibile debutto, come un classico che si attacca alla modernità, spesso annunciando un futuro che non tarderà ad arrivare, per colloquiare (doverosamente non sempre in modo positivo), con una realtà che non si accorge che è compito anche dell’arte fare da metronomo, indicatore, consigliare, sbrigare pratiche, per non sprecare il tempo. L’insoddisfazione personale delle prime registrazioni le hanno permesso di prendere il controllo in modo totale, come un flusso antidemocratico necessario: astuzia, capacità, un’indole furibonda, l’accortezza di un calibro per misurare tensioni, spasmi e dolcezze sempre in agguato, alla ricerca di un timbro che facesse crollare ogni opposizione. È stata una battaglia per lei quel periodo ma l’ha vinta, ha preso le canzoni e le ha inchiodate, insieme a chi non le aveva capite, nella parte dove la vittoria ha sempre un ghigno ferocemente soddisfatto. 

E quando la voce fa visualizzare le immagini, con il supporto di musiche che scavalcano ogni ritrosia, ci si ritrova infagottati in un manto ricco di muschio scivoloso, come il risultato di un giorno di pioggia a presa rapida sui nostri battiti. Quando canta le caverne provano sgomento: le ha scoperte e vi ha immerso fili elettrici che sconquassano le pareti. Rifiutando spesse volte le tradizioni che ritiene superflue, mette granite nei pensieri come soffici batuffoli di lana, ma si ha come l’impressione che in lei siano sempre presenti le esplosioni di Nagasaki e Hiroshima. La tranquillità non vive assolutamente nella sua testa, che germoglia e sparpaglia nevrosi senza temere contraddittori.

La sua passione per la musica diventa una sedia elettrica. Ammazza quello che il pop usa per abbellire uno spazio ridicolo e superfluo, e lo trascina nell’esercizio di brani costruiti con arrangiamenti che da soli spiazzerebbero il più narcisista degli artisti, facendo splendere la metodologia di una scrittura polivalente, attaccata alla espressione che deve contenere disciplina e regole. Una punk che non usa il punk per opporsi bensì la fantasia, la ricerca: il dito medio si insinua nelle onde amare di traversie continue, con una rabbia che non diventa sfogo ma una zolla di terra nel cielo.

Fa da madrina a Lisa Germano, Fiona Apple, Pj Harvey, Tracy Chapman, Liz Phair, Dolores O’Riordan: a tutte loro insegna qualcosa, perché è innegabile che la libertà di Sinéad ha pagato un prezzo personale altissimo, ed è confluito negli scenari di queste cantanti, al di là degli stili musicali, una impronta in grado di allargarsi nelle coscienze. L’artista irlandese ha portato in dono qualità che si sono compattate nel macroscopio della considerazione altrui, divenendo una contadina che ha sparso i suoi semi nei territori di altri.

Se partiamo dal titolo, dalla copertina, veniamo subito catapultati nella storia, nella religione, nella modernità dai colori sfavillanti, trovando per strada guerre, odio, favole contorte, miscele esplosive di consapevolezze stratificate, con allegorie, immagini fosforescenti, ambientazioni che fanno scricchiolare le convinzioni, attacchi alla politica in mano ai politici e non ai cittadini, relazioni sentimentali dove il terrore e le bugie non smettono di far versare lacrime, con l’incredibile sorpresa di vederla maneggiare il tutto con grazia e rispetto. Altro che capolavoro: qui lei è andata oltre, dove non esistono parole giuste per specificare e asserire. Si può solo dire Grazie e chinare continuamente la testa per imparare, senza distrarsi… 

E ora piangiamo per questo disco, non per la sua dipartita: in questo album risiede la sua immortalità, che potrebbe, di conseguenza, essere anche la nostra…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Aprile 2024



lunedì 31 luglio 2023

La mia Recensione: Sinéad O’Connor - Troy

Sinéad O’Connor - Troy



Storie che entrano nella vita,  spesso non verificate, compiono un salto verso la volontà umana di creder loro, senza tentennamenti. La mitologia aiuta, amplifica, genera un campo in cui tutto rotola. Dobbiamo andare all’interno del più grande inganno delle esistenze terrene, entrare nella prima vera Matrioska, un cavallo dentro il quale la strategia aveva il suo nido, per vincere una guerra, sconcertante il fatto che la si debba definire d’amore. Ma una donna fu rapita, strappata dalla sua realtà e portata via.

Nell’album di esordio di Sinèad O’Connor, abbiamo la praticità dell’arte che connette i fili, li disintegra, camuffa, per gettarli nel sacro tempio del dolore, del più grando affronto che si possa subire: la menzogna.

Un impianto emotivo che corre indietro nel tempo, probabilmente attingendo anche al dolore della stessa autrice irlandese che in questa composizione libera i cavalli della sua natura, selvaggia come loro, per puntare la sua ugola nei cuori come un graffio doveroso, utilizzando una vicenda come un passaporto che lega l’identità della verità a un destino conciato male. L’amore viene mostrato, affrontato, sfidato, perso, non lasciando nell’ascolto la possibilità di rifugiarsi in un sogno con un destino diverso. Emerge la dote più sconcertante, toccante, dal volume pari all’ampiezza dell’universo: l’abilità di interpretare le parole come se fossero nate in quell’istante e gettate dentro la storia, per sfiorare il respiro della città di Troia, pretesto e metafora della dannazione che ancora pulsa in noi, suoi legittimi eredi. Un taglio, un pianto, urla come edera infuocata dal nero morente che sbeffeggia le vicende umane. Le luci lei le accende sul suo talento risolutore, permeato di una bava che appiccica la vergogna e la salda nel pulsare di metodi spesso apparentemente innocui. Giornalista della miseria e della viltà, Sinéad fa iniziare il brano rievocando, musicalmente, l’Iliade e l’Odissea, portandoci nell’emisfero cronologico con cui non abbiamo molta dimestichezza. L’orchestrazione è una tomba che si apre in attesa del suo canto, che non è solo potente bensì, più di tutto, un pianto cosciente che penetra e costruisce il cavallo di legno pieno di segreti pronti a uccidere l’apatia di chi vive male l’assoluta capacità della musica di essere ponte, autostrada e tergicristallo per spostare i detriti. Sussurra, accelera, urla, geme, pianta ossigeno come gramigna mentre gli occhi visitano per noi ogni peccato da espiare. Un tumulto orchestrale come un tuono che cerca un’educazione momentanea per trovare una pace che invece, con il passare dei minuti, precipita, cercando tentacoli nello spazio vuoto del tempo e del cielo. Faide antiche subiscono il lavaggio, tutto si compie con una partitura che si fa elettrica, con la melodia sequestrata dagli archi e poi da un drumming secco, metallico, che sembra punire ancora di più, consegnando al cambiamento del ritmo uno dei sette scettri di cui la canzone pare avere bisogno per mantenere un equilibrio.

Nella storia della musica, le cantanti hanno sempre premuto il tasto verso l’ostracismo tra il vero e il falso, creando mute resistenti alla diffamazione e alle bugie. La cantante dal capo lucido, fa scivolare al suo interno (in un cappotto intimo che non riuscirà mai del tutto a nascondere) una lunga serie di riflessioni per poter legare il passato (la vicenda di Troia) e farlo combaciare, senza baci, con la maldestra e problematica situazione del mondo in quella fine degli anni Ottanta che facevano della approssimazione l’avamposto di quello che sta accadendo ora. Il brano consente alla cantante irlandese di cucire la visionaria attitudine al progressive (non è un caso che la trama melodica del canto ci ricordi Peter Gabriel, con il quale poi farà un tour), sia nel testo che nel tappeto musicale, vera catapulta temporanea, lanciando proiettili, ferendo, senza nessuna anestesia. Tutto conosce la sacralità e l’imbarazzo: nei suoi sospiri, nel fiato che cade greve nelle parole non possiamo che appassire. Pratica che può accadere solo se siamo provvisti di sensibilità e se davvero conosciamo la storia raccontata. Glicini i sospiri, edera gli acuti, per un portale di sconvolgimenti che oltre a far sbandare ci tolgono l’equilibrio. Quando la sua voce sprofonda nel registro basso la morte sembra sotto i nostri piedi e le orecchie tremano, come un terremoto inevitabile. Ci pensano gli archi a riportarci verso il cielo e a farci provare meno paura.

“You should’ve left the light one”: una invocazione che spacca il cielo e come un vento senza timone ci porta via la gioia e ci lancia dentro il temporale di una orchestra ottimamente diretta da Gavyn Wright. Una corsa dovuta, necessaria, verso l’appuntamento della menzogna, rende improbabile il perdono: Sinéad ha le idee chiare e come una torcia accende la verità e la inchioda, per sempre, con questa canzone, che distribuisce il fare peccaminoso, di derivazione cattolica, per dare al senso di colpa scusanti improbabili. Se si riflette sulla sistematica riproduzione circolare delle parti musicali, si capisce come il cantato sia un rastrello, una alabarda per grattare e ferire l’ingenuità di chi invece trova sempre modo di far finta di niente: lunga, per i canoni pop del tempo, il brano è un atto teatrale che abbisogna di una luce sola e di molte finestre per espandere il racconto e appiccicarlo al tremore, inevitabile, di cui le ultime parole si nutrono. 

“But you’re still spitting fire”: ecco la presa di posizione che rende visibili i personaggi, i ruoli, le misfatte. Attenzione: nella storia abbiamo solo un punto di vista, l’altra persona non ha voce, nessuna replica. Mentre ci si domanda il perché, ecco che Sinéad ci regala una verità assoluta, un gomitolo di saggezza incontrastabile: anche se ci avesse raccontato un sacco di bugie avrebbe la nostra empatia, in quanto di sicuro il dolore non ha bisogno di allargarsi per legittimare se stesso… Colpo di scena, la tempesta sul cielo di Dublino (all’inizio del brano) è un esaltante esercizio per portarci sin da subito ben lontano dall’epicentro dei fatti e delle intenzioni. Architettura antica, non più conosciuta ai giorni nostri, consente al testo di fare un po’ come il canguro, un po' come il gambero, riuscendo a esercitare pressione nella capacità di individuare dove sia il nesso. Ci pensa la voce, un impasto bellico di poesia assoluta, a sciorinare versi e a lanciare pietre, a sconfiggere Troia, l’amore, riuscendo a mascherare il tutto…

Le oscillazioni microtonali sono sentieri di rose selvagge sino all’eccesso: niente ha perimetro, sia nel testo che nella musica, per poter ottenere l’effetto di una cavalcata, malata e perdente.

Cosa aggiungere se non che il senso polifonico, la trave sinfonica, la sbarra della musica classica non sono altro che ennesimi miracoli dentro questo pulcino che oggi bacia Troia con le stesse e pesanti lacrime…

Non resta che l’amore per tenerti in vita, Sinéad…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1 Agosto 2023


https://www.youtube.com/watch?v=0c4v7fp5GC8&t=90s


Traduzione testo


Lo ricorderò

A Dublino durante un temporale

E seduto sull'erba lunga in estate

Al caldo

Lo ricorderò

Ogni notte inquieta

Eravamo così giovani allora

Pensavamo che tutto ciò che potevamo fare fosse giusto

Poi ci è stato rubato dai nostri occhi

E mi sono chiesto dove sei andato

Dimmi, quando è morta la luce?

Risorgerai

Tornerai

La fenice dalle fiamme

Imparerai

Risorgerai

Ritornerai

Essendo ciò che sei

Non c'è altra Troia

Per te da bruciare

E non ho mai voluto ferirti

Giuro che non intendevo dire quelle cose che ho detto.

Non ho mai voluto farti questo

La prossima volta terrò le mani a posto, invece.

Oh, lei ti ama?

Cosa vuole fare?

Ha bisogno di te come me?

La ami?

È buona per te?

Ti abbraccia come faccio io?

Mi vuoi?

Dovrei andarmene?

So che mi dici sempre che mi ami...

Ma a volte mi chiedo se dovrei crederci

Oh, ti amo

Dio, ti amo

Ucciderei un drago per te, morirei

Ma risorgerò

E ritornerò

La Fenice dalle fiamme

Ho imparato

Risorgerò

E mi vedrete tornare

Essendo ciò che sono

Non c'è altra Troia

Per me da bruciare

E avresti dovuto lasciare la luce accesa

Avresti dovuto lasciare la luce accesa

Così non avrei provato e tu non l'avresti mai saputo

E non ti avrei tirato più forte

No, non ti avrei tirato più vicino

Non avrei gridato: "No, non posso lasciarti andare".

Se la porta non fosse stata chiusa

No, non ti avrei tirato a me
No, non ti avrei baciato il viso
Non mi avresti implorato di abbracciarti
Se non fossimo stati lì fin dall'inizio
Oh, ma so che volevi che fossi lì, oh, oh, oh
Ogni sguardo che mi hai lanciato me lo diceva
Ma avresti dovuto lasciare la luce accesa
Avresti dovuto lasciare la luce accesa
Quando le fiamme si spengono
Ma tu continui a sputare fuoco
Non fa differenza quello che dici
Sei sempre un bugiardo
Sei sempre un bugiardo
Sei sempre un bugiardo



domenica 30 aprile 2023

La mia Recensione: Gilla Band - Sports Day

 Gilla Band - Sports Day


C’è un’Irlanda straordinariamente dotata nel saper far attendere l’ascoltatore, per poi poterlo trafiggere con una canzone che altro non è se non una grotta di metallo che ci cade addosso. 

Allucinata, ermetica, generosamente anche spavalda e costruita su un loop che puzza di elettronica rovinata da follie non trattenibili, la traccia in questione è un lento muro noise su una ispirazione Industrial, che ubriaca e sfianca, donando la sensazione di un ammassamento di api nel cervello. La base, l’intuizione, è un anfiteatro Post-Punk svuotato di manierismo, che concede la scena al rumore lento e acido, dando come risultato un disturbo ai timpani meraviglioso!


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

30 Aprile 2023


https://gillaband.bandcamp.com/track/sports-day?from=search&search_item_id=1641004812&search_item_type=t&search_match_part=%3F&search_page_id=2573151978&search_page_no=0&search_rank=1&logged_in_menubar=true









giovedì 13 ottobre 2022

La mia Recensione: Submotile - One Final Summit Before The Fall

 Submotile - One Final Summit Before The Fall


“Tensione è chi pensi che dovresti essere. Pace è chi sei.”

Proverbio cinese


La bellezza di poter arrivare alla pace interiore attraverso l’ascolto della musica è un qualcosa di raro, di privilegiata propensione, un evento che spiana gli accumuli di tossine che ogni esperienza di questa vita normalmente offre.

Nel mondo della produzione musicale continua ed esagerata la realtà che emerge, in tutta la sua gravità, è quella della mancanza di volontà nel prendersi del tempo per studiare, per riconoscere, per valutare e soppesare quello che abbiamo ascoltato.

Ma nel farlo dovremmo sempre tener conto del fatto che si tratta di una conoscenza che abbisogna di metodo e rispetto.

Il rischio è quello di ammassare canzoni e album nel luogo dove la  consapevolezza si ingolfa e non permette la fluidità degli impulsi ricevuti al fine di storicizzarli per il loro reale valore.

In questo ottobre dell’anno 2022 arriva un roseto che brilla di freschezza e dove i colori dell’emozione e della curiosità sono integri e capaci di gonfiarci gli occhi in una gioia che stupisce e non conosce assuefazione.

Gli autori di questo miracolo laico sono i Submotile, combo di due anime votate alla poesia ritmica, angeli sviluppatori di melodie che entrano nelle vene liberando l’ossigeno che fortifica il respiro dell’incanto.

Il terzo album è una piramide morbida che sconquassa il cuore avviluppandolo in braccia ritmate, votate all’impatto melodico che sconfigge ogni reazione: un lavoro che profuma di intoccabilità, rendendoci esseri in inchini devoti.

L’ascolto di queste nuove canzoni è un cammino nello stupore che si materializza nel luogo dell’abbraccio senza tentennamenti, tra bordate educate e pennellate di crateri sonori che svelano la luce dei nostri battiti propensi al sogno. Una storia di nove capitoli che non è né favola né romanzo, bensì un fiato continuo di episodi come fogli di carta che assorbono le loro doti naturali di essere incantatori e sovrani morbidi del regno di una Atlantide moderna, dove l’impossibile viaggia tra le note e non sul mare.

Come moderni Poseidone e Platone, hanno il potere di vita e di morte delle loro anime nascondendoci la latitudine della loro creatura, mostrandoci nel contempo il mito della profondità.

Un notevole passo in avanti rispetto ai due lavori precedenti: un senso di compattezza e di ricerca per sviluppare trame che non siano legate a un genere specifico. Per poter comunicare linguaggi nuovi che diano modo ai due di trovarsi con maggior frecce nel loro arco, teso e capace di far coprire alla musica distanze lunghe e precise.

Ciò che regna è la certezza che i due artisti abbiano trovato un equilibrio, la maturità necessaria per sconfiggere la sensazione che sia solo uno stato di grazia a premiare i nostri fortunati ascolti: ripetendoli confermano questo ragionamento, rivelando quanta parte del futuro sia già evidente in questo album che è il primo respiro della loro nuova vitalità, dando a Daniela Angione e a Michael Farren il vestito che li proteggerà in seguito. Questo album mostra la loro condizione artistica in perfetta salute, confermando la loro propensione a vivere davvero la musica come un progetto di crescita. Ecco che le canzoni sono mattoni, calcestruzzo e tutto ciò che serve per rendere la loro casa solida.

Sembrano essere passati molto più di tre anni dal loro brillante esordio con Ghosts Fade On Skylines, che aveva connesso lo scriba al duo italo/irlandese. Un lavoro in cui vinceva una piumata irruenza, mentre nel secondo Sonic Day Codas la melodia del cantato e una propensione più dreamy ci faceva essere ascoltatori beneficiati da canzoni che ribadivano anche come lo shoegaze stesse mutando pelle. In questo terzo album tutto viene confermato, ma aggiungendo una maggior libertà alla creazione. In tutto questo la seconda consecutiva produzione di Simon Scott, il batterista di Cambridge degli Slowdive, svela che la loro unione è capace di alzare l’asticella delle loro volontà, di fare delle loro composizioni uno sguardo pieno di fiducia verso un cielo sempre più stupito e meravigliato.

I watt a disposizione sono molti, inseriti nella tiara di Daniela e nel diadema di Michael: questi simboli del potere sono giustamente sopra le teste della coppia artistica che fa nascere in noi umili ascoltatori la gioia di sapere che siamo governati da canzoni che ci rendono sovrani del piacere e di una fortuna senza vincoli. Musica e parole, la bellissima copertina che ci fa sorvolare le vette del mondo: tutto, in questo terzo passo della loro splendida carriera, trova modo di essere bellezza senza data di scadenza.

I testi di Daniela si sono premurati di avere la capacità di oltrepassare la convinzione che in questi generi musicali non siano importanti l’amore, la solitudine, la memoria, la fiducia, la redita, la consapevolezza del potere della mente e l’esperienza della vita: tutti vengono visitati dall’anima gentile di questa italiana che coniuga la sua maturità descrittiva alla bellezza del suo cantato, sempre convincente, privo di esitazione.

Dal canto suo, Michael non lascia niente al caso: i suoi polpastrelli, le sue pedaliere sono un patto per l’eternità dove tutto esiste con forza, il senso del ritmo che si appoggia su note inchiodate dalla loro stessa bellezza per vivere e morire con il nostro ascolto. Il suono è arcigno, risoluto, dinamico, intriso di momenti dove tutto raggiunge le vette rappresentate dalla copertina di questo disco. E la stratosferica Blood Loss conferma la sua abilità di non essere dimentico di avvolgimenti dal sapore semi-acustico per poi tuffarsi, con leggerezza, verso un suono leggermente più potente, ma tutto questo lo vedremo meglio nell’analisi Canzone per Canzone.

Tramortisce il senso di assoluta capacità di portare il loro percorso musicale verso la montagna interiore della loro sensibilità, vistosa e contagiosa, per fare di noi particelle vaganti, come una tappa obbligatoria verso un destino amico: la musica raramente può fare questo, riconoscergliene il merito è doveroso. Lo stile, il senso di appartenenza nei confronti delle loro radici evitano paragoni, non esiste la necessità di dare loro una valutazione positiva perché esistono dei richiami, dei riferimenti in cui sentirsi comodi: ciò che soffoca ogni genere musicale è proprio questa condizione e il loro talento sta anche in questo aspetto, perché capaci di viaggiare dentro il Noise, lo Shoegaze, il Dreampop e un Alternative spesso camuffato, con grande eleganza, oltre che con notevoli capacità, per trovare la propria unicità.

Sono canzoni che danno la certezza che la solitudine e la condivisione sociale possano coesistere, senza sbandamenti o impossibilità: l’intimità personale e la voglia di danzare con altre persone vivono insieme in una storia d’amore dalla pelle che muta come queste stelle, liscia e morbida ma anche ruvida, dentro un anello dove la tiara e il diadema si incastrano perfettamente, regalandoci magia e sogni ad occhi aperti.

One Final Summit Before The Fall è l’universo in transito di due anime che, in perfetta salute e unione di intenti, mostra la propria curiosità e capacità di osservazione di dinamiche che possono ancora essere esplorate e analizzate, in un continuo fascio luminoso che ci permette di vedere le loro traiettorie in modo limpido, anche quando il loro wall of sound sembrerebbe in teoria offuscare la chiarezza che è invece insita nelle loro composizioni: basta ascoltare tutto con profondità e tutto viene svelato in una pergamena dorata e piena di valore…


Song by Song


From First Light Until Our Final Sleep



Con i primi secondi, caratterizzati da chitarre in orbita Cure, l’impressione che il suono e l’attitudine della band sia cambiato viene confermato quando proseguendo il brano ci porta alla chiara evoluzione dell’aspetto ritmico, con un drumming 90’s, chitarre gioiose ma piene di rughe, sino allo stop and go del minuto tre e cinquantotto secondi: tutto diventa roccia magmatica per un brillio di schegge rivelatrici di una maestosa presenza. Fragore e rumore uniti nella poesia di uno Shoegaze rivitalizzato.


Resonica


Il ritmo si alza, le chitarre grattugiano la polvere, la psichedelia entra spavalda per un brano che trascina con la sua capacità di esplodere subito, per poi consentire alla voce di Daniela di accarezzarci il cuore. Chitarre come mulini a vento sino al ritornello dove tutto si fa definitivo, irruente e catartico. Si può dare ritmo alla sensazione eterea? Certamente: Resonica è un sogno con i muscoli di un cavallo purosangue.



Hit This Summer


Profumi di Dreampop fine anni ’80 conquistano i primi secondi e poi tutto continua nella frenesia delicata di chitarre pulsanti perfettamente abbracciate al drumming che dipinge traiettorie impeccabili per far impazzire le gambe. Una lunga piacevole contorsione sonora ci porta a capire che non è un viaggio ciò che stiamo compiendo con questa canzone e con l’album, ma il vivere nella nostra casa dove abbiamo già tutto, senza dover preparare le valigie. Hit This Summer è la brezza del duo che innaffia le nostre vene piene di assenzio.


Foreshadowing

Il primo singolo di questo album è un petalo in volo sui ricordi, molti richiami che vengono anestetizzati da una perfetta produzione, precisa e attenta e capace di esaltare il binomio musica/cantato, mettendo in condizione la coppia italo-irlandese di scrivere un gioiello che, con chitarre incendiarie, toglie la coperta ai sogni per restituire la bellezza del vivere, spegnendo le ombre.



Blood Loss


Se esiste una cellula primordiale di questo album è proprio Blood Loss, la Divina, colei che indica la continuazione del percorso artistico della band: il passato è tenuto sotto braccio, il presente, stabilito da cambi di ritmo e da chitarre che sanno giocare nell’alternanza del loro abito intrecciato alle melodie, è una realtà che trasforma la volontà di diversificarlo in un clamoroso dato di fatto. È poesia sincopata che incontra il sollievo, attraverso il bacio accademico di una prestazione miracolosa.



Hope In Sound


Un arpeggio celestiale ci consegna immediatamente una complessa struttura nella quale il basso coinvolge il drumming e lo spinge ad attorcigliarsi alla chitarra. Dal canto suo Daniela canta sinuosamente e tutto diventa delirio controllato in un ritornello dalla matrice pop, che conquista e ci stimola a notare come la band abbia la capacità di arrivare in diversi terreni espressivi. Anche senza distorsioni si è travolti e attratti da questa piccola sirena che annaffia la nostra pelle di ipnotica estasi estiva, dove le fragranze si liberano completamente.



Drop To Eternity


La canzone più sorprendente arriva con i suoi primissimi secondi: come se entrassimo nella stanza della loro intimità, la band sfodera un gioiello vivace, tenero e votato alla eternità perché con loro la bellezza non invecchia. Si può rimanere giovani senza essere Dorian Grey e con questa nuova perla il diavolo si arrende: ciò che vediamo è un oceano pulito e libero di avanzare nel cuore. Tutto è corale, compatto, incisivo, in una chiara dimostrazione che con loro si può anche ascoltare una parte acustica che, se disegnata dalle loro dita, può entrare comodamente in noi.



Ataraxia


Lampi, tuoni, fulmini, una storia che diventa una cascata con colpi di scena, cambi di ritmo, chitarre abbondanti ma disciplinate, un cantato in retrovia ma suggestivo, in grado di ammutolirci per chilometri e chilometri di pura gioia sonica. Seppure privi di abbondanti dosi di feedback e distorsioni, la penultima traccia risulta essere potente e magnetica.



Farewell Aquarius (And We Thank You)


La canzone più lunga della loro intera carriera è un romanzo dalle tinte malinconiche, un setaccio doveroso dell’esistenza nella prossimità di un epilogo avvolto dal mistero. Una nube solitaria si getta nella nebbia dandoci la possibilità di scorgere un notevole lavoro del basso, che cavalca in modo armonioso le scie di chitarre nostalgiche, vicine ai Catherine Wheel, mentre le siderali atmosfere consentono a Daniela di rendere le sue corde vocali magiche, come uno zucchero filato, e di farsi circondare, nella parte centrale del brano, da valanghe di suoni ebbri di luce. Poi è un lungo congedo che ci ascia attoniti e fedeli al loro approccio chiaramente shoegaze, con fili sottili di noise a rendere perfetta la conclusione di un lavoro che, senza dubbi, è l’album Shoegaze del 2022 per lo scriba.

Siamo noi a ringraziare la band per questa visita dentro i loro maestosi battiti…


Data di realizzazione: 21 Ottobre 2022


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
14 Ottobre 2022




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