giovedì 25 aprile 2024

La mia Recensione: Sinéad O’Connor - The Lion and the Cobra

 




Sinéad O'Connor - The Lion and the Cobra



In un mondo che cerca la perfezione, i capolavori, lo stupore garantito senza dover fare fatica, preferirei affermare che almeno nella musica bisognerebbe porsi con un approccio umile, finendo per provare anche imbarazzo nel non saper maneggiare la bellezza e la profondità, la diversità e il clima interiore creato.

Poi ci sono i momenti in cui diventa sconvolgimento, tormento, valanghe di domande a ruota libera, smottamenti dei sensi con la sicurezza di creare e vivere un legame terreno, pronto a diventare eterno. E quando le note, le parole, le voci, gli strumenti ci fanno sperimentare tutto questo si diventa intimi, complici, riconoscenti, effervescenti, gabbiani in volo senza perimetro nel cielo.

Nel 1987 usciva un disco capace di fare questo, una porta sbattuta in faccia, con splendidi dolori a colorare di amianto le pareti del cuore, con una energia che non ha conosciuto esaurimento in quanto la perfezione esiste solo nella maniera in cui cavalca il tempo senza smarrirsi: Lion and the Cobra lo fa benissimo, come un bacio eterno di Apollo, Dio della musica e dell’arte che diede il suo beneplacito consenso per fare di questo disco la colonna sonora delle giornate di un paradiso parallelo, che si specifica nella possibilità di dare spazio a tormenti, follie, esagerazioni, molteplici flussi di coscienza propulsiva.

Queste canzoni sono frecce rabdomanti che cercano di entrare nel cuore dell’ascoltatore, senza l’esigenza di trovare concordia, bensì un luogo nuovo dove sperimentare gli effetti causati da queste nove nuove droghe diverse, in un pomeriggio che si dimentica di se stesso e sperimenta effetti: nel cuore del Vecchio Scriba durano ancora oggi, trentanove anni dopo. 

Come una barca che affitta la storia di un intero Paese e la porta in viaggio verso facce che parlano lingue diverse, così fa questa opera, un debutto fragoroso e micidiale, un assurdo che crea congegni per una masticazione che non darà mai totale gioia, perché questo non è necessario: Sinéad non cura le ferite, le causa in modo delizioso, ci mostra i nostri moti ingenui, incoscienti mentre dormono e lei si premura di svegliarci, con tattiche e pianificazioni che riescono nell’obiettivo. Battaglia con se stessa, con demoni, angeli, personaggi veri, finti, in un crescendo straordinario per la fattura della scrittura e dell’interpretazione, all’interno di un apparato davvero molto vasto, che scavalca i geni dei generi musicali e si accorda con la sperimentazione, con il riprendere concetti attitudinali del passato, shakerando ogni cosa nel centro del suo ventre, luogo di partenza e di distribuzione della sua enorme sensibilità. Nulla è affidato all’ipotesi, al calcolo, tutto viene invece registrato per essere messo nel vento, l’unico modo per assicurarsi la possibilità di un viaggio che possa toccare le coscienze. La giovane età, al momento della scrittura dei brani, non le ha impedito di mostrare forza, idee compatte, qualità plurime, di riuscire a definire il mancante, quello che nel 1987, inconsapevolmente, si stava aspettando ed è proprio questa la capacità più grande: dare ciò che non si sa ancora di desiderare…

Una fata travestita da strega, favole come l’incubo per la cronaca nera, analisi psicologiche che si affrettano a essere inserite nella memoria, stravaganze multiple in grado di assestarsi nel conscio, l’inconscio che viene stimolato a prendere una strada: è solo l’inizio, una infinitesima parte di ciò che accade mentre ciò che pulsa, nell’ascolto, diventa radice, capace di scendere in profondità, ribellandosi alle convenzioni, usando il linguaggio diretto della sincerità, sempre più sconveniente per chi ama nascondersi. Lei trova questa massa e la ribalta, con delle canzoni: ma che potere meraviglioso è questo?

Troviamo il romanticismo pelvico di un'Irlanda che sa come sfuggire al logorio del tempo, per rimanere indenni e poter raccontare le storie che si tramandano in una splendida abitudine, per accompagnare le giornate dentro un labirinto verde, sempre fresco, roboante, rotante, in perlustrazione perenne, e lo fa attraverso una sensibilità folk che bacia il rock, con  spruzzi di elettronica, contemplando petali di world music disseminati sotto pelle, non rinunciando a far danzare, con la testa che è un alveare sorridente, in cerca di spazio, creandolo e definendolo. L’adolescenza, nel disco, è una vibrazione verace, propositiva, che si ambienta benissimo nelle direzioni che spostano continuamente i sogni e la realtà, sempre un metro più avanti. 

Grida, sussurra, abbaia al pentagramma, si contorce nei suoi moti, non indugia mai, non zoppica, cammina sulle note come se nel suo dna questo non fosse un appuntamento ma la sua casa, da sempre. Muovendosi con agio, distribuisce pillole di saggezza, contempla una ribellione dei sensi, travolge la noia con la sua freschezza e colora la mente con artigli dalle molte piume: graffia e fa cadere dalla nostra pelle le nostre consolidate abitudini.

Un disco profetico, poetico, malinconico, mai attendista, mai volenteroso di sprecare il tempo e, con molta umiltà, capace di mostrare piani culturali in cerca di un approdo, di nuove partenze che con questi brani diventano obbligatori. Lei non permette l’indifferenza con questo album, ci trascina nel baratro ingannando la falsità con la sua totale sincerità. Disarma, mettendoci nelle braccia della mente fiori, idee, strisce di ribellioni da contemplare, come un compito a casa a cui non negarsi mai.

Leonessa, cobra, ma anche camaleonte, renna, gatta, gazzella, aquila reale, delfina, orso bruno, furetto, in un elenco infinito che mostra le molte anime in cammino tra i versi, i caratteri sempre ben visibili che riempiono il terreno mentale pieni di appigli, in un quadro che con il passare degli ascolti definisce la giungla umana, rendendo possibile lo scambio con il mondo animale. E poi ci sono spiriti mobili, che premono, coinvolgendo in modo autoritario, un bacino di pensieri pronti a scattare in piedi. 

E poi lei, la voce, un miracolo continuo, una cascata vibrante di gocce tra il dolce e l’amaro, che, iniettando indiscutibili capacità tecniche, si plasmano in modo straordinario nel suo sentire, nel suo tratteggiare le parole con spinte continue, in saliscendi affascinanti, toccanti, finendo per abbellire la nostra mediocrità. Una passeggiata, un corteo di qualità che non conosce debolezze, vivido, fulminante, sensuale, un terremoto che scuote i timpani e li rende utili nel comprendere che oltre la forma c’è una sostanza indiscutibile.

Quando urla, geme, sembra mostrarci il suo parto nel momento in cui non può più trattenere il corpo che per una vita ha avuto dentro di sé: una nascita continua, con il sudore che si appoggia alle corde vocali allenate per spazzare via l’indifferenza e nutrire gli stupori.

La sua natura è strabordante, avanza, sequestra, benedice, chiede aiuto, volge le spalle alla stupidità, affronta la crudeltà, immerge la sua devozione nell’amore che l’ha ferita e lei, come un angelo sapiente, sa insegnare a trasformarlo, a erigere il tutto su un piano meritocratico. 

Semina, incendia, polverizza, attende, mostra disincanto e sfiducia, nutre dubbi, e sale sulla carrozza dell’impegno affrontando tematiche urgenti, paralizza l'inutile e diventa Dea senza paura, battezzando sperimentazioni alari per insegnarci nuovi voli. 

Suona, questo incredibile debutto, come un classico che si attacca alla modernità, spesso annunciando un futuro che non tarderà ad arrivare, per colloquiare (doverosamente non sempre in modo positivo), con una realtà che non si accorge che è compito anche dell’arte fare da metronomo, indicatore, consigliare, sbrigare pratiche, per non sprecare il tempo. L’insoddisfazione personale delle prime registrazioni le hanno permesso di prendere il controllo in modo totale, come un flusso antidemocratico necessario: astuzia, capacità, un’indole furibonda, l’accortezza di un calibro per misurare tensioni, spasmi e dolcezze sempre in agguato, alla ricerca di un timbro che facesse crollare ogni opposizione. È stata una battaglia per lei quel periodo ma l’ha vinta, ha preso le canzoni e le ha inchiodate, insieme a chi non le aveva capite, nella parte dove la vittoria ha sempre un ghigno ferocemente soddisfatto. 

E quando la voce fa visualizzare le immagini, con il supporto di musiche che scavalcano ogni ritrosia, ci si ritrova infagottati in un manto ricco di muschio scivoloso, come il risultato di un giorno di pioggia a presa rapida sui nostri battiti. Quando canta le caverne provano sgomento: le ha scoperte e vi ha immerso fili elettrici che sconquassano le pareti. Rifiutando spesse volte le tradizioni che ritiene superflue, mette granite nei pensieri come soffici batuffoli di lana, ma si ha come l’impressione che in lei siano sempre presenti le esplosioni di Nagasaki e Hiroshima. La tranquillità non vive assolutamente nella sua testa, che germoglia e sparpaglia nevrosi senza temere contraddittori.

La sua passione per la musica diventa una sedia elettrica. Ammazza quello che il pop usa per abbellire uno spazio ridicolo e superfluo, e lo trascina nell’esercizio di brani costruiti con arrangiamenti che da soli spiazzerebbero il più narcisista degli artisti, facendo splendere la metodologia di una scrittura polivalente, attaccata alla espressione che deve contenere disciplina e regole. Una punk che non usa il punk per opporsi bensì la fantasia, la ricerca: il dito medio si insinua nelle onde amare di traversie continue, con una rabbia che non diventa sfogo ma una zolla di terra nel cielo.

Fa da madrina a Lisa Germano, Fiona Apple, Pj Harvey, Tracy Chapman, Liz Phair, Dolores O’Riordan: a tutte loro insegna qualcosa, perché è innegabile che la libertà di Sinéad ha pagato un prezzo personale altissimo, ed è confluito negli scenari di queste cantanti, al di là degli stili musicali, una impronta in grado di allargarsi nelle coscienze. L’artista irlandese ha portato in dono qualità che si sono compattate nel macroscopio della considerazione altrui, divenendo una contadina che ha sparso i suoi semi nei territori di altri.

Se partiamo dal titolo, dalla copertina, veniamo subito catapultati nella storia, nella religione, nella modernità dai colori sfavillanti, trovando per strada guerre, odio, favole contorte, miscele esplosive di consapevolezze stratificate, con allegorie, immagini fosforescenti, ambientazioni che fanno scricchiolare le convinzioni, attacchi alla politica in mano ai politici e non ai cittadini, relazioni sentimentali dove il terrore e le bugie non smettono di far versare lacrime, con l’incredibile sorpresa di vederla maneggiare il tutto con grazia e rispetto. Altro che capolavoro: qui lei è andata oltre, dove non esistono parole giuste per specificare e asserire. Si può solo dire Grazie e chinare continuamente la testa per imparare, senza distrarsi… 

E ora piangiamo per questo disco, non per la sua dipartita: in questo album risiede la sua immortalità, che potrebbe, di conseguenza, essere anche la nostra…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Aprile 2024



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