La mia Recensione:
Morrissey - Vauxhall and I
Un uomo è una pietra che accoglie il sole, il muschio, il vento, la pioggia, la neve, l’efferatezza umana, testimone della gioia e della tragedia, il custode del tutto, muto e capace di accogliere.
Poi c’è un uomo poeta, uno sguardo immenso, intenso, che cade nella sua penna come una piuma anche se ha sulla schiena tonnellate di nero, perché questo è il suo compito: arrivare con leggerezza anche se appesantito, questo è il ruolo suo, sino alla fine.
Il suo nome è Morrissey, la lacrima sinuosa che viaggia nei decenni con gli occhi sempre più cinici, nostalgici, obliqui e pesanti, ma ciò che ci dona alla fine ha un qualcosa di magico, prezioso, vero che non si può rifiutare.
Introspettivo, rassegnato, pessimista, riesce con un verso solo a darci forza malgrado questo magma soffocante: è il suo indiscutibile talento, ciò che lo eleva sul palco del vincitore, dove non esistono più gladioli bensì spine velenose.
Il più perso tra le anime perse, incredibilmente diventa l’unico appiglio per chi pensa di essere solo e perduto. Ascoltando lui si difende il diritto alla vita, si smette di morire quando ci si sente vivi nonostante la depressione, ancora prima di resuscitare, perché la sua voce e le sue parole ti incollano al desiderio di voler vivere, anche se con il suo stesso sguardo verso il basso.
Morrissey torna con un nuovo fascio di canzoni, ci fa entrare nelle sue sommosse, nelle sue disperazioni, con le sue rabbie a cui ha messo dei filtri e, abbracciandoci con la sua consueta gentilezza, ci mette tra le mani il suo calvario recente, i suoi respiri agitati, con parole che sanno attraversare ogni ostacolo, per arrivare a vedere pienamente che la sua carriera è il miglior metodo per arrivare a trovare noi stessi.
Un album assolutamente capace di mostrare questo poeta in grado di compattare il suo passato e offrirci nuove visuali, nuove prospettive per un’anima così vasta da risultare impossibile da comprendere e valutare, perché non ci rimane che l’adorazione per la sua abilità nel frullare i suoi eventi pubblici e privati per poi farci bere sorsi di un vino prelibato. Unico.
Canzoni che hanno un movimento riconoscibile ma nuove in certi momenti, che sorprendono per la sua propensione a donare brillantini su ferite aperte: sa pennellare armonia laddove esiterebbero presupposti per raccogliere solo lacrime.
C’è un uomo che appartiene a se stesso, che cattura tutto come se fosse ossigeno, che manifesta solo il desiderio di scrivere e cantare l’universo corrotto da malinconie senza freni a mano, con l’intenzione di lasciare all’eternità il dono della sua testimonianza, come una risorsa alla quale lui per primo sa che pochi faranno affidamento. Forse nemmeno lui, e questo lo rende intenso e credibile.
Le sue canzoni, in questo straordinario Vauxhall and I, ci fanno toccare i respiri, suoi e dei suoi tormenti, e il loro ascolto diventa un nuotare dentro di lui, sino a scomparire.
Il bardo pone domande, sentenzia passando al setaccio sentimenti e comportamenti, produce rumori nello stomaco, gratta la polvere delle abitudini e, con spavalderia, si distanzia da ciò che lo opprime, costruendosi il suo eremo, fatto di delicata tensione emotiva, sino a sbattere la porta andandosene con le sue parole nella tasca.
Con i suoi problemi si riempie e ci riempie il cuore: ciò che il cielo gli ha regalato in queste canzoni è un disegno affinché siamo noi a beneficiarne, per coccolare la sua sofferenza e restituirgli quello che lo stesso cielo gli ha negato, ovvero la possibilità di essere come tutti noi.
Il suo vocabolario, sempre denso di cumuli di saggezza decadente, vira verso l’apoteosi donando immagini fluorescenti, domando i suoi terremoti per non cedere, lui che è sempre a un passo dal dirupo.
Insieme a Viva Hate, questo album rappresenta la capacità di unire le forze con le debolezze, dove la sua vita non è un gioco ma un crocevia esasperato, trafficato da elaborazioni continue, esperienze che spaccano le rocce, fanno piangere le tossine che vorrebbero rovinare i tessuti della sua bellezza, fallendo.
L’abilità, di Smithsiana discendenza, di dare alla voce il ruolo di sospendere il significato di piombo conficcato nelle parole con la sua propensione verso un canto che sappia far galleggiare le tensioni è ancora intatta, magnifica e decisiva, tenuta volutamente viva, ad altissimi livelli.
Alain Whyte e Boz Boorer sono i suoi due angeli, pittori di note e piloti di intrecci e scorribande rock, con quella faccia pop che ben si addice a Moz. Loro due escono vincitori malgrado lo scetticismo, i paragoni ingombranti, distorti e imbarazzanti con l’epopea degli Smiths. Hanno imparato in fretta ad amalgamare indubbie qualità per donare a Morrissey strade sonore nelle quali sentirsi a suo agio, perfettamente. Conclude la formazione il basso di Jonny Bridgwood e la batteria di Woodie Taylor, per un insieme capace di nuove soluzioni armoniche, con un arrangiamento minimo ma esemplare. La produzione di Steve Lillywhite è compatta e, che piaccia o meno, addirittura superiore a quella di Mick Ronson, del precedente Your Arsenal. Nessuna canzone conosce momenti di debolezza, di stanchezza, ma sono sempre tenute vive dalla sapiente abilità di rivestirla di luce per l’album più introspettivo di sempre del fuoriclasse Mancuniano.
La tristezza sembra figlia di una necessità, non la conseguenza di disastri (comunque capitatogli, vista la profondità delle tre dipartite che ha vissuto di persone per lui preziose e importanti), e per questo trova conferma la purezza di un sentimento che gli governa il polso: sono lacrime le sue che nascono da un avamposto a noi sconosciuto. Come le stelle che scomparendo lasciano le persone vedove prive della loro bellezza, ecco che Morrissey fa lo stesso con i suoi brani che, ogni volta che finiscono, lasciano lo smarrimento mentre si brinda a nuove puntate perché il suo genio va celebrato, senza paure.
Trovata la linea conduttrice dei testi, sparsa nei suoi filamenti dorati, la sua voce ubbidisce al progetto di spingerla verso la tenerezza, come se una coccola potesse nascere dal baratro che ci mostra in primissimo piano.
In un periodo in cui le chitarre del mondo erano accordate sul fracasso, sull’estremizzare un’emergenza votata alle urla sonore, la band di Morrissey trova modo di visitare melodie, arpeggi, tuffi di luce che rapiscono il buio senza ucciderlo, lasciando ai testi di Morrissey la capacità di decidere il suo destino. Canzoni che commuovono, ci fanno preoccupare, attraversano del tutto la paura di saperlo ad un passo dalla resa. Più maturo di quando era considerato tra gli autori migliori degli anni 90, in questo lavoro si eleva ad essere migliore di se stesso riuscendoci perché, se gli Smiths rimangono irraggiungibili, con questo album può guardare il suo passato dalla stessa altezza, quella degli occhi.
Un disco che esorcizza alcuni demoni e sembra invitarne altri: non vi è pace nella sua intelligenza che rovista tra i rifiuti, dove lui per primo fatica a tenersi fuori da quel gesto. Canzoni come spie, come lampi di vento per sondare la nostra capacità di accoglienza, nella solitudine di un uomo che ha nel microfono lo strumento per sciogliere la sua croce.
Ciò che risalta di questo quarto lavoro è l’impressione di una maturità raggiunta per iniziare una nuova fase: come se fosse in grado di scrivere il futuro cantando il presente, con chitarre a disegnare la forma di un uomo sempre più distaccato dalle movenze di un sistema a lui estraneo. La luce della sua sincerità è talmente evidente che esplode nella sua scrittura mirata a confondere la bugia e la cattiveria, non negando ma mischiando le carte del suo gioco pericoloso.
Morrissey ama ancora la propensione verso la maledizione di chi osservando e capendo non può che sanguinare, scegliendo pochi amici per trovare una strada solitaria dove mettere a fuoco le sue acute dimostrazioni di classe, un attore del cuore che semina sollievo perché sa riunire le paure di tutti noi, spettatori incantati dalla lacrima pronta. Un disco profondo, determinato, la culla che senza freno a mano prende velocità per sparire dal nostro sguardo. Mentre questo ascolto misura il polso alla sua classe, a noi rimane la pelle costantemente bagnata, in una febbre emotiva che anestetizza il passato e si torna a pensare che il bardo di Stretford sia più in forma che mai, perché senza filtri tutto il suo clamore si appoggia sul nostro cuore per stregarlo sino all’ultima nota.
Non ci resta che nuotare tra le undici corsie e imparare a bersagliare i nostri nemici con le sue canzoni…
Song by song
Now My Heart Is Full
Boz Boorer scrive una musica che si affaccia sull’oceano, Morrissey ci mette le onde con parole toccanti che rivelano la sua acquisita maturità, con la strofa e il ritornello che fanno l’amore, con momenti anche difficili ma con la sua gioia, che emerge ma che non può di certo essere sorridente. Nata per divenire l’atto d’amore perfetto di chi adora quest’uomo, senza reticenze, la canzone è il vero abbraccio di Morrissey a tutti noi.
Spring-Heeled Jim
Testo straordinario, Moz ci fa immergere dentro due storie che sembrano distanti ma riesce ad amalgamarle in modo perfetto. In un racconto dove il sesso non garantisce l’amore, mentre appare più possibile invece che arrivino ostilità, ecco che, sulla musica ancora di Boorer, Morrissey prende la sua voce e ci riporta a Viva Hate come approccio. Il crooning costante tiene accesa la tensione mentre le parole viaggiano sensuali dentro una vicenda che graffia la pelle con questa onda sonora che, come nebbia sudata, ci conduce in un Alternative con chitarre rock accennate ma tenute sempre lontane.
Billy Budd
Alain Whyte scrive un tuono che sembra uscire dalle corsie di Your Arsenal, con un atteggiamento glam ma senza rinunciare a distorsioni malate di grigio sulle quali la voce del Maestro Moz può liberarsi con la sua metrica riconoscibilissima. Diventa l’unico brano che sembra fuori sincrono con tutti gli altri, ma forse proprio per questo degno di tutta la nostra attenzione. Il testo invece si trova perfettamente allineato con il progetto dell’album per renderlo alla fine irresistibile.
Hold On To Your Friends
Alain tratteggia il viale malinconico sul quale le parole di Moz sembrano passeggiare con lo sguardo di chi ha capito cosa ha valore nella vita. Qualcosa di funereo aleggia donando al brano tutta la potenza che serve a noi per abbandonarci dentro questo gioiello pop-rock capace di unire gli anni 70 agli anni 90 con un assolo che scolpisce l’aria.
The More You Ignore The Closer I Get
Morrissey in una canzone? Eccola, senza dubbi: l’ascolti e ti sembra di averlo accanto, mentre sprecando il tuo tempo non hai nemmeno più le lacrime a consolarti. Boz spazia con la sua scrittura raccogliendo le nuvole degli anni 50 per amalgamarle ai venti stanchi di questo decennio. Morrissey scrive, descrive e ci alza lo sguardo per riempirlo di verità incollate, che ci tolgono il fiato.
Why Don’t You Find out for Yourself
Come avere la sensazione che essere inchiodati ad una croce possa essere delizioso: Whyte e Moz creano una cella melodica, una piuma che viaggia sotto il mento della verità incline al pianto degli errori. La melodia cattura, la chitarra semiacustica e quella elettrica danzano insieme e a Moz non resta che scrivere un ballo vocale che brillerà sempre per la sua teatralità infinita, mentre le nostre riflessioni si faranno impegnative perché quest’uomo sa inquadrare la verità perfettamente.
I Am Hated For Loving
Whyte e Moz in splendida forma entrano quasi con gentilezza in una storia amara, aspra, con cenni di violenza tenuti saggiamente quasi nascosti, quasi… Come una ragnatela che sorride crudelmente, così fa l’atmosfera del brano che sembra gentile mentre invece diventa un pugno ben assestato al cuore. Il lungo finale musicale è reso perfetto da un vocalizzo semplice ma armonioso su cui stringersi.
Lifeguard Sleeping, Girl Drowning
Il primo dei due capolavori dell’album arriva: con la melodia stupefacente scritta da Boorer, possiamo ascoltare il cantato di Moz come mai abbiamo sentito per percepire cosa è veramente la dolcezza, una ninnananna sensuale e al contempo violenta con la sua storia che la musica sa rendere perfetta. Depressa, ironica, sensuale, conduce ad un pianto inarrestabile, violento, descrivendo il dolore di un desiderio che trova la sua gabbia per morire.
Used to Be a Sweet Boy
Morrissey e Whyte mettono l’amore per gli anni 70 in una pastiglia, composta da dolcezza e solitudine, una nuvola che si perde nel cielo in una giornata di sole tiepido. Può essere ascoltata solo in una camera, con la finestra chiusa, avvolti da una melodia che sembra un carillon che semina sospensioni emotive, toglie il fiato, mentre la storia alla fine concede un bacio alla tristezza.
The Lazy Sunbathers
Un arpeggio che strega, Whyte ci sa fare sul serio e lo dimostra dando a Moz il via libera con un cantato maestoso, su parole come raggi che si perdono nel parco giochi della vita, senza rumori, tra la pigrizia e l’arrendevolezza che fanno a gara.
Speedway
Eccolo, il secondo capolavoro, scritto ancora da Boorer, concludere l’album con la canzone più bella di sempre di Morrissey.
La sensazione è quella di un testo che sa riunire la storia degli Smiths con l’attualità pubblica e privata di Moz, in un brano struggente, tiepido, un sorso di tè nel quale far scendere la delusione, la realtà, lo smarrimento, le sicurezze, in un turbinio emotivo drammatico. La musica è una dea fasciata da chitarre malate di tensioni rock, con i piedi su una nuvola shoegaze, che avvolge il testo per esaltarlo, per renderlo libero di gravitare nella nostra mente che si ritrova scioccata dalla bellezza, da microbi che mangiano i tessuti delle nostre resistenze. Le parole prendono residenza per divenire un tatuaggio, un fulmine che mostra la potenza di Morrissey che non adopera l’urlo per farci afferrare il suo dolore, bensì aspira le parole nel microfono per portarci dentro di lui in un viaggio dove la sua modalità espressiva diventa il luogo della sua meraviglia, colma di crude verità.
Ogni Grazie non è la fine bensì l’inizio di una profonda forma di contatto e da questo album, forse, il legame con Morrissey diventa eterno…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Giugno 2022
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