The Sound - Jeopardy
“È sufficiente l'impatto di un verso per far esplodere i detriti che seppelliscono l'anima.“
Nicolas Gomez Davila
L’amore non conosce la sconfitta, anche se vive in un granello di lucide ferite, perché il suo senso è in ogni caso una vittoria, spesso portentosa, a volte meno, ma non in grado di perdere.
Nel 1979 nacque la casa discografica Korova, lo fece a Londra e la prima band a firmare fu quella degli Echo & The Bunnymen, provenienti da Liverpool. Poi una di Wimbledon, attiva sin da prima del gruppo di The Killing Moon, che recitava il suo tentativo di ammissione al mondo musicale con un altro nome.
The Sound.
Il sentire comune viveva alla fine degli anni Settanta una fase purtroppo convinta di un approccio stolido, che non consentiva di affermare la dinamica dello sfacelo. Pochi canali di ingresso e la sensazione dell’inizio del disinteresse nei confronti del circostante che agli inizi del decennio successivo dichiarò lo smarrimento nei confronti dell’impegno. La musica non ne è stata immune. Ma il gruppo di Borland aveva altre priorità e si distanziò. Emersero qualità pressoché uniche e ben amalgamate con in più le stigmate di un fuoriclasse dalla mente lucida, seppur già sanguinante.
L’anima strappata che si fa urlante e al contempo moderata plana su ogni solco dell’album. Vengono messi a disposizione e in esposizione fiumi di correnti come edera volante nei cuori, dove le unghie trattengono il respiro e il contenuto scosceso di pensieri in stato di assedio. La bellezza è sita anche nell’eruzione complessa di un vulcano che conosce il metodo per presenziare con lentezza e velocità, in una danza avvolgente di fumo e calore.
La grazia della scrittura avvolge la disgrazia dello stato dell’essere umano, qui non negoziabile ma messo in condizione di divenire un peso da bilanciare con dosi necessarie di istinto ed equilibrio.
Jeopardy è una graticola di chiaroscuri girovaghi, in apnea e in fase di slancio, come una metamorfosi continua per abbellire la fatica e la condensa di pensieri che diventano operosi attraverso i canali musicali assestati per tritare il tutto. C’è uno spirito che non si pente, seppur sofferente, e che staziona nelle canzoni come uno specchio obliquo e timoroso, per vascelli di note che aspettano la cortesia di un approccio attento: ogni sequestro ha un luogo blindato e chiuso, ma l’ascolto del lavoro di esordio dei quattro regala la possibilità di comprendere una precisa traiettoria, senza divagazioni. Quello che si trova è una magia grigiastra che istruisce e contempla zone fumogene, come pergamene sonore brillantemente appiccicate alla realtà di questi ragazzi, terremotati nell’affetto e che inducono le nostre curiosità a un abbraccio definitivo.
Arrovellato sulle rocce apparenti di un Post-Punk sanguigno, il puzzle rivela invece altre maestrali locazioni stilistiche, un solido che riempie i liquidi delle nostre giornate assetate di mistero e della bellezza con l’abito notturno.
L’energia profusa non profuma di freschezza, nulla di davvero adolescenziale viene inciso, in quanto solo agli adulti è concesso di fuggire da se stessi e di perdersi, per sprecare dignitosamente il proprio tempo. Ma i Sound anche qui prendono le distanze: confezionano canzoni come spine con la bava alla bocca, incapaci di seccare perché la cupa poesia esistenziale, una volta che si trasforma in composizione sonora, incontra l’infinito e l’eternità è un amaro destino da consumare.
Drammatico, intenso, nebuloso, denso di incidenti morali (dati da una scrittura acerba ma consapevole, aspetto che sia il Punk che il Post-Punk non sapevano creare), questo esordio stabilisce il punto di inizio della confusione degli addetti ai lavori, del pubblico e dell’industria musicale. Privi di immagini, proprio all’inizio della svolta totale fatta di bassi contenuti culturali a favore del disimpegno e del nascente motore distruttivo del look, i paladini della diversità dimostrano non solo una volontà anacronistica, ma anche quella dose di menefreghismo che li ha resi invisi ai più.
C’era l’amore da vivere, il mondo da scoprire, il pitturare note come una scossa adrenalinica con un robusto freno a mano e l’incoscienza non ribelle a guidare i ragazzi nell’Olimpo, quello oscuro, perché quello visibile era preso d’assalto da gruppi che mordevano le caviglie pur di stazionare in quel luogo.
Ma Adrian, Michael, Graham e Bi erano sordi, muti, non inclini a piegare la schiena morale del loro bisogno: cercavano l’altrui sincerità e verità, ricevendo in cambio l’esclusione “dai quartieri alti” di un carrozzone che ha dimostrato come nemmeno nella Musica esista la giustizia. La disperazione, la tensione della responsabilità di un combo non voglioso di definizioni ma di mani libere, condusse a una scrittura altamente acerba, diritta, dove il suono veniva prima dell’idea di una qualsiasi successione di accordi e melodie: bisognava posizionare il senso in un qualcosa di riconoscibile e cosa c’era di meglio se non quello contenuto nel nome stesso della band?
La frenesia spezzata e spossata da un cambio ritmo, nell’economia di una scaletta che è composta da undici canzoni, fa sì che non sia l’equilibrio a bilanciare il peso specifico del lavoro, bensì una determinante voluta con capriccio e capacità di imposizione. Tutto scorre nello schianto di un sentire unico: a nulla valgono i paragoni e i riferimenti con cui i quattro hanno spesso dovuto convivere. L’unicità è dentro i nostri apparati uditivi, se quelli sensoriali ed emotivi sono stati sgomberati dall’imbecillità del confronto.
Le tensioni politiche, i luoghi svuotati di pennelli atti a esporre la volontà del vivere, le ambasce di un tempo (quello della capitale inglese) che erano divenute casse di ridondanza ma prive di qualità e contenuto, conferiscono a questo album il ruolo di uno specchio spesso coperto. Ad altri toccava esibire finzioni, ai Sound interessava indagare, far emergere e sottolineare le astruse incapacità umane.
Jeopardy è, così e senza dubbi, un unicum feroce, nel quale lo stordimento rapisce il cuore e lo congeda, per far mancare il fiato pure ai sogni. I testi, ancora legati a soggetti di cui molti volevano parlare, dimostrano ferocia e una grande ironia, uno spirito battagliero ma già contaminato dalla sensazione che valesse poco manifestare idee diverse e opposte. I fighetti, i bambinoni irresponsabili, gli arrivisti, le aquile assetate di potere avevano altre mire. Si salvavano solo i Joy Division in quell’anno, non il cantante, caduto nella disperazione.
Tutte le altre band (Police, The Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees) avevano altri lidi da raggiungere.
Adrian voleva amore. Darlo.
Punto.
Non sono arrivati in anticipo con questo stratosferico grappolo di canzoni, né in ritardo: semplicemente non esisteva il tempo favorevole per la loro supremazia. Nell’ascolto il cuore e le gambe si piegano in uno sconforto definitivo.
Le undici scintille sono luoghi abitati da una frenesia che non conosce la moviola, tantomeno le persone che camminano e corrono in quegli spazi vorticosi, in quanto tutto il limite del pensiero viene verniciato da composizioni crude, veritiere, insopportabili, anche quando sono trascinanti. Tutto ferisce, la voglia di credere perisce, lasciando a questa quasi ora di musica l’impressione che si potrebbe benissimo confinare in un ascolto ripetuto, senza desiderare altro. È tutto qui. Tutto.
L’estro creativo esplode senza sosta, come se il computer del futuro prevedesse che l’unicità passasse solo nella sconfinata sensibilità di Adrian e compagnia.
La fantasia supporta una grave difficoltà: non avere a disposizione un budget dignitoso (poche sterline e la fretta urlata in faccia ai quattro), e poi il talento, inarrivabile, che gela e pietrifica un mondo che non si aspettava questo risultato. Il contenuto non è un urlo o una morte che cammina, bensì la classe di una maturità vissuta in modo potente, mai prepotente. Non c’era spazio per questi missili, questi fiori di luce che hanno reso Jeopardy il momento più spiazzante dopo Closer.
Ora ci si tuffa nella bellezza reale del turbinio dei quattro Londinesi: dove non è concesso sprecare nemmeno un’oncia della sua strepitosa epicità…
Song by Song
Side A
1 - I Can’t Escape Myself
“All my problems
Loom larger than life
I can't swallow
Another slice”
Il fade-in della chitarra è già una esplosione di stupore, un timido presenziare che espone gli strumenti in gentile coabitazione, dove il synth di Bi necessita di una sola nota per condensare lo scheletro di un brano che non desidera spruzzate adrenaliniche per ottundere, ferire, coinvolgere e sconvolgere. Il basso è ossessivo, la chitarra un bisturi, il drumming un malinconico e cupo estendersi nel percuotere la slavina razionale del protagonista del testo…
2 - Heartland
“A chemistry of commotion and style
You're thrown in
You've got to lose yourself before you find yourself
Back in exile”
Il big bang arriva nel secondo episodio: radiazioni Post-Punk flirtano con una melodia ben più storicizzata. L’armonia sconvolge la prassi del genere musicale e si passa, attraverso la tastiera, a esaltare il basso che pare una fuga posticipata dei Joy Division, ma con maggior impatto seduttivo. La voce di Adrian è una lepre che cerca cibo, trovando nelle sue corde vocali la giusta dose di petrolio. Esiziale, manifesta il potere della chitarra che sa incrociare le malinconie del cielo nel suo assolo potente ma con una venatura romantica impressionante…
3 - Hour of Need
“I hate the quiet times
I need some company
I miss the noise of life
The silence deafens me”
Una feroce dimostrazione contemplativa assesta il colpo: intima, sfuggente, con cambi ritmo che ne accentuano la possenza, la canzone mantiene lontano ogni tipo di comparazione. Tutto palesa una intensità che sembra chiudere le brevi note della chitarra lasciando spazio al basso e alla batteria, adottando il sistema di due voci a cantare la strofa. Ridondante, cupa, gioca con l’umore e con un testo dove l’odio viene messo sui banchi di scuola di un comportamento da sviluppare col tempo…
4 - Words Fail Me
“My need gnaws at me
My need claws at me
My need lurks inside
It won't be pacified”
Dove i Police avevano fallito, i Sound invece vincono a piene mani: il cantato che ricorda gli Ultravox di John Foxx è il lampione che illumina la corsa veloce di una struttura che si sgancia dal Post-Punk e si affaccia verso un Pop ben strutturato, per conquistare il fragoroso applauso con pochi soffi di sax, ripetuti poi dalla chitarra sanguigna di Adrian…
5 - Missiles
“Missiles cause damage
And make an eerie sound
Missiles leave carnage
Where there once was a town”
Si può gridare la pace di fronte al potere dell’egoismo, di una classe sociale che sequestra il benessere e l’armonia? Sì, se sei Adrian Borland con il lutto e la rabbia nell’anima e nell’ugola. Missiles è un affronto sincero, che si lancia con un synth dalla bellezza scandalosa (il suono, capito, il suono!), per accodarsi alla paura e allo sconforto: raggiunto il ritornello tutto si fa incendio, un fuoco che piega gli occhi dentro lacrime generose, mentre si balla la danza della concessione alla lotta. La guerra fredda, che viveva in quegli anni il secondo tempo, dimostra come la giovane età di Adrian non significasse disinteresse. Tutto il brano è una enorme sirena che invoca a prendere posizione e ad abbracciare un desiderio sotto forma di domanda.
Irraggiungibile…
Side B
1 - Heyday
“Find yourself all at sea
Never thought they'd let you drown”
Il secondo lato è uno spazio pieno di strazio e appelli, di rifugi illuminati dall’intelligenza di quattro anime battagliere.
Inizia il lotto Heyday, diamante sotto pressione, in cui Adrian riesce a duellare con il basso, e dove la batteria e la tastiera si stringono nella velocità trascinante di una pietra che non rotola, bensì si frantuma e, quando arriva l’assolo, il glam rock strizza l'occhio…
2 - Jeopardy
“We are young
But are we strong?
We've held out
For so long”
Sorniona, come una donna che con furbizia ruba nei negozi colmi di bottiglie di vetro, il brano è un gioiello di semi-luce, che protegge, con il suo incedere nei pressi della paura. Come se l’apnea vivesse dentro un raggio di luce notturno, mette in evidenza una teatralità musicale che non avrà più modo di ripresentarsi, stabilendo la sua unicità…
3 - Night Versus Day
“A switch is snapped, and the borderline
Between night and day is gone”
L’etichetta musicale prese il nome da Arancia Meccanica di Kubrick. Ed ecco che proprio in questi minuti si avvertono gli spigoli di una violenza accennata, misurata, custodita, non ancora bisognosa di schiantarsi nel fragore. Ma se ne avvertono i sintomi, in un delicato scintillio sonoro…
4 - Resistance
“Half-dead, but I hope it's not too late
To take some action and change my fate”
Ecco la rincorsa, il bisogno di difendere attaccando, con versi e note camaleontiche, spigliate: la melodia, vivace e quasi allegra, è invece un pugno nello stomaco sferrato dalla band per sbarazzare la concorrenza con una violenza addolcita ma capace di ferire. I Mancuniani Magazine e gli stessi Joy Division non avrebbero potuto fare di meglio rispetto a questo missile terra-aria…
5 - Unwritten Law
“We could go anywhere
It would still be the same
A change of climate, a change of air
All the pressure would remain”
Il testo è uno squarcio impressionante, una bomba atomica che adotta il poco rumore per meglio ingannare e sorprendere. Malinconica, audace, struggente, parsimoniosa, la canzone è pure elegante nella sua volontà di rispettare l’ignorante che faticherà a comprendere la genialità di Adrian, qui sullo scettro ma senza potere, perché la sua anima in questa circostanza si fa acida e prudente…
6 - Desire
“Keep in touch, keep in track
Of this thing called desire
There'll be times when we'll do
Anything for desire”
Sia data la luce alla No-Wave, si conceda spazio alla freddezza. No, non siamo dentro il canale Irwell dei Joy Division, bensì dentro il Tamigi, pronto a vedere congelata la vita, a veder repressa ogni fuga dalla crudeltà del vivere. Lugubre e assassina, porta in grembo materiale nucleare da depositare, attraverso liriche amare e stordenti, nel minutaggio di una composizione che pare uscita dal circolo polare artico. Si congedano i quattro con una soluzione inaspettata, per togliere definitivamente ogni dubbio: abbiamo ascoltato un album non degno di essere vissuto senza commozione e riflessione continua.
Si aggiunga al tutto una considerazione doverosa: senza Jeopardy il mondo avrebbe avuto del tutto via libera per esprimere il vuoto…
Adrian Borland - vocals, guitar, production
Bi Marshall - keyboard, production
Graham Green - bass guitar, production
Michael Dudley - drums, production
Nick Robbins – production
Label - Korova
Year - 1980
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
18 Settembre 2023
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