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mercoledì 23 novembre 2022

La mia Recensione: Ultravox! - Ha! Ha! Ha!

Ultravox! - Ha! Ha! Ha!

“Avremo bisogno di conservare per più tempo possibile la traccia, l'identità congelata della nostra decadenza.”

Giorgio Falco


Non siamo immuni dalla decadenza, avendo scelto di maritare il progresso e quindi seppellire valori, abitudini, possibili appigli. Ci si è velocemente connessi al cambiamento e ai suoi deliri, che abbisognano di tempo per essere smentiti e che raramente capita di vedere.

Ecco allora la musica, spugna epocale dei passaggi, di stratificazioni che tendono a esaltare, spingendo l’ascoltatore al convincimento.

Si era quasi alla fine del 1977, al termine del periodo nel quale il Punk stava facendo scivolare la sua breve storia nel cestino, nella zona “oggetti inutili”, e molti ragazzi, più saggi di parecchi adulti, colsero l’occasione per fare di quel movimento artistico qualcosa da cui prendere solo la parte migliore. Il Post-Punk fu innanzitutto una vicenda di costruzione di nuovi valori e il basamento per connettere arte e cultura su un piano decisamente migliore. 

Tra i primi sicuramente ci furono gli Ultravox, band culto e esseri umani dalle molteplici capacità, in grado di disegnare, all’interno di una immensa creatività, la mappa di attitudini con l’intenzione di scaldare l’ingegno e raffreddare l’impeto del Punk. La loro musica era solo la parte che emergeva maggiormente, ma all'interno dei loro percorsi intellettivi vi erano processi evolutivi di grande spessore. Molteplici e fuori moda. Imponenti e coraggiosi. Spavaldi e saggi, con il misuratore di una intelligenza naturale coniugata a quella artificiale. Una navicella spaziale in orbita dentro il pianeta terra per portare le informazioni al mistero dell’inconscio. Questo e tanto altro sono le particelle visibili a occhio nudo del loro indiscutibile peregrinare tra mistero e pazzia senza redini.

Dopo l’album di esordio, uno dei migliori di sempre e tenuto magistralmente a bada dall’ignoranza discografica e collettiva, il secondo fu un gioiello dadaista, il figlio dei fiori di una ribellione composita e ingovernabile, con il suo mutare costante, senza il mantello soffocante di definizioni qualunquiste. 

Capace di tenere una luce finta sul punk, lo affossa e lo spurga da ogni tediosa tendenza nichilista, trasformando l’impeto in una selvaggia parata tra nonsense e follia ripulita dall’esagerazione, per far invece venire a tutti l’idea che dopo un tramonto brutto esista un mattino in cui il sole deve arrivare solo attraverso una musica che, oltre a non dimenticare il passato, illumini il bisogno di un futuro dai nuovi raggi. Un album capace di usare il fuoco non come distruttore del tutto, bensì come metodo per disinfettare le ferite e rifare il letto del mondo occidentale. 

Con una valanga di accenni musicali capaci non di spaziare tra i generi musicali ma di collegarli alla geniale convivenza, questo è il culmine del loro fragore interiore ed estetico, un epitaffio precoce, dove tutto ciò che doveva morire trova la sua lapide, piena di oscillazioni sonore, riferimenti acculturati e la diabolica impressione che a essere defunto è un certo concetto dell’arte: anestetizzata la semplicità, i cinque crearono mulini a vento tra le note, con caleidoscopici affreschi, di incontenibile bellezza. 

Destinazione? L’Olimpo che non riproduce ciò che va lasciato all’originalità.

Perché senz’altro questo lavoro presenta un collage visivo senza precedenti, sapendo perlustrare le fruibili esigenze e proposte di cui l’arte musicale necessitava, concludendo la prima parte della fulgida esistenza della band con il figlio legittimo dell’esordio, ma impedendo al terzo di avere le stesse caratteristiche e capacità così rilevanti.

Ha! Ha! Ha! è l’ingresso anticipato di quei anni '80 che volevano la separazione a tutti costi dai ’70. Ed eccolo il primo ruggito del nuovo che desiderava emergere, ma senza averne consapevolezza.

Dalla periferia del mondo arriva la vita superficiale ad attivare nuove emergenze e gli Ultravox saranno tra i pochi a determinarne il senso e il valore con canzoni pilota.

Su otto composizioni solo 2 vedono, tra gli autori, tutti e cinque i membri della band: segno rivelatore di una centralità compositiva determinata soprattutto da John Foxx, Currie e Cross, senza però togliere agli altri due membri, Cann e Shears, la possibilità di contribuire a un disco che come segno primario rivela il suono collettivo di una nuvola pesante, in grado di spargere raggi pieni di invenzioni molteplici e ben legate a una spaventosa duttilità di strumenti, che perdono il senso convenzionale per essere indirizzati verso una egemonia sorprendente e scambi di identità.

Un album che genera influenze continue, con l’occhio vigile nel guardare al recente passato, il genitore meno famoso di un’onda, di un impeto che vide quei primi dieci mesi del 1977 come, forse, i più generosi e fluidi degli interi anni ’70. Il giovane produttore Steve Lillywhite inizierà proprio con gli Ultravox a esplorare soluzioni di impatto collettivo, a dare libertà alle sue innovazioni per consentire alla band di abbattere i confini dei limiti. Il suono si fa riflessivo, aggressivo, lancinante, voluminoso, esplorativo e molto sensuale. Non mancano le zone folli e cupe per un perfetto crocevia sensoriale che è in grado di essere devastante e premonitore di lì a breve di una fioritura artistica incontrollabile: il futuro inizia in queste otto tracce, dove il rock e l’elettronica si prendono l’onere di ruoli marginali ma fissano un gemellaggio che si rivelerà di indiscutibile valore.

Scrittori di un romanticismo moderno e di una chimica elettronica che sfiora la freddezza più acuta, i ragazzi avvolgono le ipotesi di un senso pratico indiscutibile, rinnovando il guardaroba musicale attraverso l'invenzione di una nuova stagione: quella della zona lunare della paura che trova il coraggio dell’autoanalisi. Sono capaci di responsabilizzare il ruolo sociale di informazioni che, tra sconvolgimenti e razionalità, abbisognano di un luogo dove possano essere riconosciuti. 

Il rock viene decomposto, fatto avvicinare alla ricchezza del glam (sicuramente in qualità minore rispetto al successivo Systems of Romance), alla pulsione arrogante di suggestioni progressive minimaliste e alla integrazione di stile punk per lo spazio necessario per non escludere quel genere musicale che così tanto aveva fatto sperare chi non capiva che era nato già morto. Gli Ultravox gli diedero una splendida sepoltura ricordandolo per il tempo necessario.

Pionieristico, intraprendente, sganciato da schemi soffocanti, questo lavoro diventa l’alba del futuro, senza affossare il passato e già per questo motivo da considerarsi un capolavoro, essenziale per capire, studiare quel periodo e per tracciare nuove direzioni, dove su tutto si eleva il matrimonio artistico tra John Foxx, il londinese con cittadinanza nell’universo di una incontenibile saggezza, e Billie Currie, il mago della esplorazione e al contempo della sintesi sonora, capace di scovare il segreto della perfetta miscelanza tra scoperte e confermate attitudini stilistiche.

Non sarebbe corretto non riconoscere agli altre tre il loro contribuito ad una progettazione stilistica di avanguardia, donando un senso di insieme quasi unico. Londra capitale del fermento, di un sentire che prevedeva e precedeva, innaffiando la scelta di nuovi entusiasmi. Gli Ultravox di Ha! Ha! Ha! proiettarono la forma canzone nel bisogno di una nuova energia, di smentire chi la voleva ancorata a dei limiti e a delle regole. Il loro stato connettivo riempì le canzoni di un furore diverso, mise le abrasioni della scomodità a disposizione della genialità, dandole ringhiosi approcci, che, con tastiere e sintetizzatori malinconici e lugubri, aveva gettato le basi per  nuovi accessi a melodie e per ritmi in attesa di esposizione.

Non perdiamo tempo: una buona osservazione di queste canzoni forse aiuterà  a capire meglio di quale immensità vi sto parlando.


Song by Song


1 Rockwrok


Si incomincia con una danza eletto-punk, il corpo che sprinta su chitarre lancinanti e graffianti e un piano ossessivo, con l’ombra ribelle dei Roxy Music a tenere vivace la tensione.


2 The Frozen Ones


I Simple Minds ruberanno clamorosamente l’attacco iniziale di questa canzone divisa in due parti: di atmosfera, suggestiva, melodica, per poi divenire un TGV, con un assolo stridulo su una base synth semplice ma efficace, mentre il basso devasta lo spazio rimanente per un risultato davvero in grado di riassumere i primi sette anni di rock alternativo.


3 Fear In The Western World


Precursore dello stile degli imminenti The Police nei primi secondi del brano, tutto si compatta nel cantato allucinato di John Foxx, una scarica di parole che aprono il cielo. Nel ritornello la chitarra si fa sbilenca, sino ad esaltare il basso che farà scuola.


4 Distant Smile


I Cure di Robert Smith prenderanno parecchio dalla parte iniziale di questa canzone per i loro Seventeen Seconds e The Top: quando l’horror music si avvicina al cabaret per suggerire inquietudine e mistero. Tutto si fa nebuloso e tetro sino a raggiungere la drammaticità con suoni dissonanti e contemplativi di una dolcezza dal sorriso amaro. John Foxx poi raggela e la chitarra di Stevie Shears raggiunge l’Everest con la sua schizoide propensione a stiracchiare le corde.


5 The Man Who Dies Everyday


In un ipotetico incontro tra Kraftwerk e Television, la canzone è una marcia vocale ipnotica con la parte musicale a suggerire ipotesi di catastrofi industriali tenute con eleganza su un piano catartico, dove tutto fuoriesce compatto. Strabiliante esibizione di come gli strumenti sappiano coinvolgere gli altri, in un gioco di comparse e scomparse che definiscono il tutto su un piano di perfezione assoluta.


6 Articial Life


Su un piano di coinvolgimento spiazzante, le tastiere impazzano crude con la chitarra ritmica a cementare, solidificare questa galassia di pulsioni, dove il cantato di Foxx prepara il terreno alla teatralità di Peter Murphy di lì a poco. La chitarra infiamma l’aria, il basso tira colpi nello stomaco e la batteria consolida il tutto per una dimostrazione di potenza dove esiste un clamoroso passaggio di consegne: la musica diventa luogo di coinvolgimento totale. Sino all’accelerazione finale a gettarci in un burrone di detriti metallici.


7 While I’m Still Alive


Forse la meno nota dell’album, ma indubbiamente quella che presenta la più grande commistione di stili e approcci musicali. Una elegante processione melodica, non priva di tensione e mistica propensione a consolidare il rock capace di intossicarsi di bellezza e insicurezza. Stacchi Glam, quasi al limite dell’hard rock sapientemente camuffato, donano ampi spazi immaginifici, per pilotare la mente verso una doverosa domanda.


8 Hiroshima Mon Amour 


Si conclude questo straordinario percorso di incredibile valore e di disumana bellezza con la calata nelle tenebre portando il merito di aver inventato il synthpop con un indirizzo teatrale imponente e l’uso della drum-machine, per conferire all’insieme un senso algido, un brivido che il sax di C.C. cerca di scaldare, sciogliere, per dare un senso umano a questa pioggia di lapilli tecnologici, riuscendo a creare un insieme cacofonico e subliminale per un’atmosfera unica e perfetta. Se il delirio ha modo di essere calmo e sottile allora si chiama Hiroshima Mon Amour…


Produttori: Ultravox!, Steve Lillywhite


Alex Dematteis

Musicshockworld

24 Novembre 2022


https://open.spotify.com/album/2qglzVkWCBALdZ8JHMgJhT?si=lFErK3TnSCm6EAE6cIyugA







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