God in a Black Suit - Thresholds
Esiste una prospettiva antica, radicata tra i sentieri autunnali, che sorregge e spinge la memoria a essere un fertilizzante del tempo. E ci sono luoghi che hanno la pelle esatta, intensa, pura e precisa per sostenere questo. Matera è uno scoglio che vive in alto, non nei pressi del mare bensì delle nuvole, capace di nutrire, generazione dopo generazione, persone e artisti votati all’uscita da quei luoghi. Una band perfetta per rendere il tutto chiaro è la protagonista del suo secondo episodio, dopo l’omonimo album di esordio, qui in uno stato di grazia totale e imbarazzante: essere in grado di far sembrare le loro composizioni dei voli angelici di stratagemmi lontani è davvero un miracolo, che rende la musica italiana davvero fortunata. La formazione, così apparentemente distante dalla Basilicata, con queste tracce attutisce invece il dolore del desiderio di appropriarsi di sogni che la spostino e spicca il volo, addentrandosi, nello specifico, in una mutazione sensoriale nel modo di concepire, strutturare e finalizzare le canzoni. Una crescita evidente, che materializza i loro impeti, in una sorta di educazione forzata per poter raggiungere uno status quo dove il suono possa regnare, principiare e strutturare queste malinconiche pieghe umorali in cerca di luce. Una corsa nelle zone antiche di una Germania che nella metà degli anni Settanta già creava crossover, per fare della purezza solo un vestito, ma non il nucleo della inclinazione artistica. La band Materana fa compiere sobbalzi, induce la memoria a divenire fertilizzante e cura, una dance floor dell’anima con il bisogno di sementi notturne. Rimane di questa formazione la volontà di non essere inglobata nel ghetto gotico, specialmente quello italiano, in quanto (chiaramente) tutte le composizioni sono sguardi, ascolti, dinamiche di sogni che mirano a fissare il benessere e il senso non in un genere preciso, bensì in una zona in cui tutto sia fluttuante e non rigido.
Indubbiamente flussi di magnetico post-punk spuntano e stordiscono, ma non è mai definitivo e tantomeno sovrastante. Si trovano, così, metalli preziosi nelle pietre del gruppo, cinque pittori di favole con l’intenzione di far vibrare i corpi ma, soprattutto, di seminare tensione, dolcezza, per fare dell’insieme un perimetro maggiormente complesso rispetto a quanto potrebbe sembrare a un ascolto veloce.
No, calma: con i God in a Black Suit si deve essere lenti, votati alla pazienza, sentire il loro nomadismo entrare nel desert rock, così come nel post-rock, sino a sfiorare la psichedelia americana poco conosciuta degli anni Settanta.
Se lo si pratica si noterà come la band dia sempre l’impressione di isolare ogni singolo strumento al fine di poterlo indirizzare verso l’esaltazione personale.
Il basso di Annalisa Laterza è carta vetrata, una ghigliottina pesante dai fianchi conturbanti, in grado di far arrivare le note al ventre.
Bruno Pantone, chitarra e testi, è un fachiro, un elegante trapezista che disegna tracce nel cielo tenendo nei suoi polpastrelli una lunga scia di maestri ai quali non si inchina, offrendo, invece, trame complesse e al contempo semplici come un respiro.
Gianluca Natrella pare arrivare da Boston, in un giorno nel quale la noia va circondata con metrica gentilezza, ma anche con quella forza che struttura il piacere di sostenere il tempo attraverso le sue bacchette micidiali.
Matteo Demma, voce e testi, è un folletto anacronistico, con la voce che passa dal registro terrorifico a quello prudente, tra sussurri e lapidi gutturali.
Pietro De Ruggieri, infine, con i suoi tappeti sintetici riesce a compattare la fiumana di impulsi nevrotici con maestosa eleganza: potresti crederlo spesso assente e invece è lì a fare da cerniera al tutto.
Una ipnosi continua fatta di ombre antiche e luci moderne, con i nervi che sfiorano la lealtà, la abbattono e fuggono, come angeli senza paure. Quando accelerano il ritmo, puoi quasi sentire il prurito esistenziale, la solitudine e l’ansia cercare ossigeno, immagini e luoghi sui quali poter respirare una ricercata sonorità. I testi, scritti a quattro mani, sono una mappatura fuoriuscita da questo mattone e cilindro sonoro che sa correggere anche la tattica: la scaletta è perfetta in quanto non c’è l’annoso problema del far avvicendare canzoni più lente con quelle più veloci, ma la volontà di fare della tensione un via, un traguardo, una ostinazione che rende questa formazione davvero unica nel panorama italiano. Il gioco delle voci, il controcanto con quella femminile, gli assoli piazzati in punti strategici dell’album ci fanno intendere l’ampiezza del loro immaginario. Un arazzo volumetrico, eclettico, con audacia innovativa che conserva, pienamente, la memoria di lunghi ascolti che qui vengono tradotti, esplorati e infine evoluti.
La ricchezza principale giunge dall’estetica apparentemente grezza, però, lo si deve ammettere, la produzione diviene una colla saggia per offrire raffinatezza e gioco di alchemici fili temporali.
Un lavoro che si presta allo studio: le singole tracce sono sentieri, ma alla fine dell’ascolto uno spazio impensabile si materializza nell’anima. Il dolore, la frustrazione, la fatica qui non sono un elenco, un grido, bensì il principio di una rivolta, di un passaporto morale da inventare e i cinque dimostrano compattezza e lealtà reciproca. Si scivola nelle lancette, tra brividi e stupori, per silenziare la noia, perché, innegabilmente, in questo minutaggio artistico troviamo maiuscole e minuscole intersezioni spirituali.
Ora non ci resta che andare a prendere ognuna di queste composizioni e ringraziare il loro contenuto…
Song by Song
1 - Thresholds
“There are Thresholds beyond, where time does not matter”
Una chitarra con la polvere e una lacrima costante costruiscono un arpeggio per principiare un lungo discorso che si espanderà con le altre tracce. Il crooning, inizialmente in inglese, si conclude in lingua italiana, mentre l’arpeggio continua a ricordarci l’ambient post-rock della seconda metà degli anni Novanta. È attesa, è mistero, è un tuono lento, meraviglioso…
2 - A New Life
“The weight of these days is bearable, I don’t need a normal life”
Petali acidosi escono da una gabbia e corrono con trepidazione, nella cattura rapace di una nuova esistenza, mentre una miscela di Killing Joke e Au Pairs ci fa sentire in una cantina di un tempo remoto. Ma nel ritornello ci rendiamo conto di una freschezza che l’assolo che viene subito dopo esalta. È metamorfosi che cerca un clima. E lo troverà…
3 - To Forget
“I’ve forgotten all the affection from you”
Il cantato governa la prestigiazione di dita in grado di visitare il suono di New York caro agli amanti della No Wave per poi spiazzare mediante cespugli sonori che ci portano ai giorni nostri, con il talento che forma un incontro di forze centripete verso le rocce della città di Matera: è corsa con la bava alla bocca, in un’allucinazione fuorviante, perfettamente lubrificata dal tono semi-pop del ritornello…
4 - I Remember You
“I stay here completely alone, licking my wounds and counting my scars”
Manchester chiama, Matera risponde e Londra applaude. Con i Sound di Borland che piangono e abbracciano la band materana per questa esplorazione che, iniziando attraverso un basso sexy ma allo stesso tempo vibrante, porta a sé la chitarra dalle piume dream pop. Ed è estasi rapida, da vivere mentre il drumming, come memoria belga della migliore coldwave, sintetizza gli animi e li connette alla perfezione. Se The Edge fosse stato più interessato a variare il suo stile, qui avrebbe abbracciato Bruno Pantone…
5 - Dirt
“All you touch turns to dirt”
C’era la nuova psichedelia gallese, agli albori degli anni Novanta, che cercava di sposarsi con le trame nefaste, lente e aguzzine dei Dirty Boys, in una miscela pericolosa e sapiente. La successione armonica conduce a una distorsione limitata, con la batteria che è una frusta che punisce e governa l’ondata balsamica di un cantato che, come uno spirito sotto l’effetto di un acido mentale, sfida la chimica, domandola. La vetta dell’intero lavoro si posiziona qui, con la seducente successione di note che partono dai Southern Death Cult per planare fino ai Gorky’s Zycotic Mynci.
6 - One More Time
“Silence like a bomb, I can not think, just one breath and another”
Non mancano primitivi movimenti industriali che si incrociano con lo shoegaze americano, il tutto oliato da una trama sinistra, che si sospetta possa uccidere la tranquillità di un pensiero innocente. Velenosa, acuta, la canzone mostra come le latitudini di percorrenza del loro stile sia un semaforo del cielo senza sosta…
7 - Sunshine
“All on fire everywhere”
Kitchens of Distinctions e i Church degli esordi sono rapiti dal fatto che la pillola terremotata che si innesta nei nervi sia italiana: il suono, opaco, snervante e vibrante, traduce trame spirituali e lascia al basso il compito di bombardare la melodia per spegnere la notte…
8 - Whisper
“Air and sun, which I’ve never looked for”
L’acqua del pensiero sale le scale: una chitarra sporca brama le tracce di un basso che semplifica il testo, mentre le voci, qui spesso raddoppiate, generano una serie di finestre sensoriali che, iniziando da Peter Murphy, giungono a casa dei Catherine Wheel, in un giorno in cui il sole sciopera…
9 - Invisible
“I lag behind, I’m not in step”
Quando la canzone si fa covo, i respiri diventano precisi: come se fosse stata partorita dagli Adorable di Vendetta, tenta di fare un dispetto e va a nascondersi e a creare una propria identità. Il contrasto della voce maschile con quella femminile regala compattezza e sogno, mentre si evidenziano installazioni cognitive di un pezzo che cerca di scrivere una nuova storia per il gruppo. Da qui la sua freschezza e unicità, un allargare i cordoni delle possibilità quasi bussando a un indie pop che attende voluttuosamente che il combo materano non se ne vada…
10 - Together
“Our love is a big cage, from which I don’t want to escape”
Da dove eravamo partiti? Dalla band che con Nag Nag Nag aveva sconquassato il mondo. La formazione di Matera fa lo stesso: inizia da qualcosa di noto per volare sull’ignoto, in un processo nomade davvero ben strutturato, chiamando a sé una pletora di farfalle truccate con eyeliner e smalto rosa, per lucidare paragoni che si possono evitare. Qui a vincere è il nerbo, la materia crassa di una spada che ferisce la pelle e ci ricorda come i Bauhaus non abbiano mai terminato la loro presenza terrena. Ecco allora la continuazione di quella vicenda ormai mitologica appaiarsi ai recenti Bambara, unendo perfettamente Regno Unito e America . Un delirio come un mantra da ossidare, totalmente…
11 - Goodbye
“You don’t know, you are paralyzed, you don’t know why, will you survive?”
L’arte può creare pruriti, far arrossare la pelle e spossare, che è cosa buona e giusta. Il ritmo rimane alto pure qui, ma si ha la certezza che il quintetto non abbia saputo fare a meno del talento della decomposizione, in un puzzle frenetico e morboso, per finalizzare il tutto in una deriva magneticamente fissata per sempre…
12 - Breath
“We will love each other, without limits or constraints, I want to dream”
Una chitarra sorniona, un basso umido, una batteria secca e umorale e la voce amniotica e crudele sul suo altare sono i protagonisti di una composizione che circonda lo Shoegaze inglese degli esordi e cerca un braccio psichedelico per rinunciare agli eccessi. Raccolta, sottile, la canzone pressa la memoria e unisce tre decadi in un ponte dove gli occhi notano, tra le corsie di un arrangiamento brevissimo, il futuro della band…
13 - End
“We had nothing, and nothing had that sound”
Il dolore arriva, come una sentenza: l’album deve finire e i ragazzi esplorano il suono, il gioco dei rintocchi, del ritmo sincopato e la puntura di un’attesa che paralizza. Suona larga, la composizione, come un cannocchiale notturno dopo una pioggia infinita. Basso, batteria e voce si ritrovano tra i rintocchi delicati ma strazianti di una chitarra che ci fa lacrimare. In questa rarefazione esplorativa la lentezza diventa un brivido che sentenzia: questa band ha toccato la sua perfezione, come un regalo definitivo per la nostra esistenza…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15 Maggio 2025
https://godinablacksuit.bandcamp.com/album/thresholds
https://open.spotify.com/album/47iKT2U28JPKhuewrlM3Pk?si=Y3DHwOHvQDm90J8fSOyvxw
https://music.apple.com/gb/album/thresholds/1810903637
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