martedì 3 gennaio 2023

La mia Recensione: The Slow Readers Club - Modernise

 The Slow Readers Club - Modernise


Il mondo conserva una sola bellezza: quella di non cedere.

Ci vuole una forza incredibile per vivere dentro questo impeto, spesso non credibile, vista la massa infinita di violenze che lo rendono pressoché bruttissimo e insostenibile. E la residenza di questa bellezza rivela contraddizioni che diventano respiri torbidi e annacquati, senza una parvenza di credibilità…

Manchester la grigia, l’intossicata di fragili tendenze tecnologiche, di pulsioni verso l’assoluta distruzione di un glorioso passato, la nuova città liberale connessa a una americanizzazione pesante, ha tra i suoi cittadini quattro ragazzi che sanno mediare perfettamente e riducono il disastro con un atteggiamento tra il progressista e il conservatore. E, nella loro costante crescita artistica, sono in grado di connettere quella umana con sguardi, tecniche,  sogni e abilità che traducono il talento in una casa piena di ogni tesoro necessario, sapendo custodire quello che fuori potrebbe smarrirsi. Ma il loro potere più grande è proprio quello di mettere a disposizione del mondo i beni del loro alveare senza veder consumata nemmeno una goccia del loro miele.

La loro avanzata verso traiettorie che possano includere evoluzioni, varianti, ritorni e slanci futuristi è inarrestabile: nuovo esempio è il loro nuovo singolo Modernise, ultimo momento disponibile prima del loro imminente sesto album in studio Knowledge Freedom Power, in uscita il 24 di Febbraio.


Spingono totalmente verso il dark electro mediante il quale, con Cavalcade, avevano incominciato a rendere i cuori di molti pieni di colori e gravidi di ammirazione, con in aggiunta una accortezza maggiore nella fase di produzione, stabilendo il contatto irresistibile di una presa melodica rivisitata e nutrita di moderne espansioni. Ed ecco che tutta l’elettronica rivela il lato composto, ordinato, scheletrico e flessibile al contempo di Aaron Starkie, che prende le redini della band Mancuniana, per trascinare gli altri compagni in una ristrutturazione che fa guadagnare freschezza e nuovi riferimenti stilistici.


Modernise è una danza ipnotica, aggressiva, piena di tagli elettronici, in elevata percentuale di rapimento possibile, per sbalordire e stordire, come un mantra che toglie l’attenzione da tutto il resto. Con un inizio con prodomi ebm, il brano è una corteccia velenosa che stabilisce ciò che il singolo precedente (che dà il titolo all’album) aveva anticipato: vi è una linfa nuova che sembra uscita dai vicoli bizzarri di Manchester, da uffici in cerca di un rimedio alla noia.

Aaron si fa messaggero di quella positività che contagia, nel tempo in cui quella parola ha seminato sconvolgimenti, portando tutto fuori dai blocchi di partenza verso un deciso scatto nel futuro.


Adorabile è la molteplicità dei compromessi tra i membri della band, le alternanze individuali che spalmano la canzone nel territorio dell’evidente controllo delle parti. Il tutto risulta vitaminico, risorsa per nuove riflessioni e per voltare alle spalle al grigio e ai chiaroscuri delle nostre esistenze. Carico di sfumature, di una volontà cosciente che spinge al rifiuto di essere la conseguenza dal proprio passato, il brano offre beats, trucchi e linee irriverenti nei confronti di chi invece si è adagiato su cliché privi di fertilità e modernità. 


Chiarissimo il messaggio per quella che sarà la prima canzone del nuovo album (il coraggio non è mai mancato ai quattro, ammettiamolo), con una apertura verso il tema del lavoro, una rinnovata identità che ci dà la possibilità di vivere, per una modernizzazione più che mai necessaria e inevitabile, un chip mentale che deve costantemente aggiornarsi.


Concludendo: quello che sarà un album tra i più luccicanti del 2023 ha appena donato al mondo un singolo con cui fare l’amore, sorridendo…

Alex Dematteis

Musicschockworld

Salford

4 Gennaio 2023


https://open.spotify.com/track/2q1ckY10MNAl8GvALWWELK?si=r4wF0XopTjC-86Fmq0Wp0g

https://www.youtube.com/watch?v=ah7AXp6FMK4&t=52s









My Review: The Slow Readers Club - Modernise

 The Slow Readers Club - Modernise


The world retains only one beauty: that of not giving in.

It takes incredible strength to live within this enthusiasm, which is often not credible, given the infinite mass of violence that makes it almost ugly and unsustainable. And the residence of this beauty reveals contradictions that become turbid and weaken breaths, without even the appearance of credibility...

Manchester the grey, the city intoxicated by fragile technological tendencies, by impulses towards the absolute destruction of a glorious past, the new liberal town connected to a heavy Americanisation, has among its citizens four guys who know how to mediate perfectly and reduce the disaster with an attitude between the progressive and the conservative. And, in their constant artistic growth, they are able to connect the human one with looks, techniques, dreams and skills that translate talent into a house full of every necessary treasure, managing to guard what could be lost outside. But their greatest power is precisely that of making the goods of their hive available to the world without seeing a single drop of their honey consumed.

Their advance towards trajectories that may include evolutions, variations, comebacks and futuristic leaps is unstoppable: a new example is their new single Modernise, the last available moment before their forthcoming sixth studio album Knowledge Freedom Power, to be released on 24 February.


They push totally towards the dark electro by means of which, with Cavalcade, they had begun to make the hearts of many full of colour and pregnant with admiration, with in addition a greater shrewdness in the production phase, establishing the irresistible contact of a revisited melodic grip and nourished with modern expansions. And here all the electronic music reveal the composed, ordered, skeletal and flexible side of Aaron Starkie, who takes the reins of the Mancunian band, to drag the other comrades in a renovation that gains freshness and new stylistic references.



Modernise is a hypnotic and aggressive dance, full of electronic cuts, as paralyzing as possible, to amaze and stun, like a mantra that takes your attention away from everything else. Beginning with ebm prodomes, the track is a poisonous bark that establishes what the previous single (which gives the album its title) had anticipated: there is a new lifeblood that seems to have come out of the bizarre alleys of Manchester, from offices in search of a remedy to boredom.

Aaron becomes the messenger of that infectious positivity, at a time when that word has sown upheaval, taking everything out of the starting blocks towards a decisive dash into the future.


The multiplicity of compromises among the band members is adorable, as are the individual alternations that spread the song in the territory of evident control of the parts. The whole is vitaminic, a resource for new reflections and for turning our backs on the grey and chiaroscuro of our existences. Loaded with nuances, with a conscious will that pushes the refusal to be the consequence of one's past, the song offers beats, tricks and lines that are irreverent in respect of those who have settled on clichés devoid of fertility and modernity. 


The message for what will be the first song of the new album is very clear (the four guys have never lacked courage, let's admit it), with an opening towards the theme of work, a renewed identity that gives us the possibility of living, for a modernisation that is more necessary and inevitable than ever, a mental chip that must constantly be updated.


In conclusion: what will be one of the most brilliant albums of 2023 has just given the world a single to make love to, smiling...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

4th January 2023

https://open.spotify.com/track/2q1ckY10MNAl8GvALWWELK?si=r4wF0XopTjC-86Fmq0Wp0g

https://www.youtube.com/watch?v=ah7AXp6FMK4&t=52s













lunedì 2 gennaio 2023

La mia Recensione: Motuvius Rex - Black Locust Grove

 Motuvius Rex - Black Locust Grove


Immagini gravide di tensioni e lampi magnetici si alzano, con un volo ferreo, da Louisville, nel Kentucky, per recare danni magnifici, corposi e acidi, nella gramigna incolta della nostra incoscienza. Come un serpente pieno di sabbia, pronto per il suo pasto, Mr. Christopher Shahn Rigsby fa di noi prede assolute. Le sue armi sono due canzoni che arrivano e anestetizzano la nostra convinzione che davanti alla potenza delle cavità oscure ci si possa difendere. In attesa dell’imminente Lp The Vigilant Sower, l’uomo dalla barba epilettica ci infesta e rende giustificato il suo misterioso regno. Visitando luoghi a noi negati, ci insegna la desolazione e la tempesta, le disgrazie e la tossicità mentale, con precisione chirurgica e unghie che si spezzano dentro la sua voce fumogena ma pesante come una lastra di marmo.


Il Maestro dell’inquietudine arriva attraverso la combustione di un folk noir rovistato e rivisitato, sulla strada di un’apocalisse funerea, immediata, con tracce minime del mai rinnegato Gothic Rock. Ma lui ha costruito una macchina del tempo ed è giunto, per noi (ovviamente), dentro la piazza di un paese medioevale, ingrigito e polveroso. Gli odori pesanti sono stati essiccati e messi in un’ampolla. Tornato ai giorni nostri, Christopher li ha utilizzati gettandoli in queste sue lacrime graffiate.


Si passeggia tra i Death in June assediati da torsioni crudeli, i Red Lorry Yellow Lorry come sacerdoti in attesa di punirci, i Fields of the Nephilim massacrati dai dubbi che vorrebbero ammazzare Cthulhu e da una catena di angeli neri in trasferta dentro i nostri rosari arresi e schiacciati da pietre levigate, smussate, abbandonate nel nostro respiro.


Due canzoni che ora entrano nella penna descrittiva del vostro scriba impaurito.


Song by Song 


1 - Black Locust Grove


Fotografie sconsacrate avanzano nei lapilli di chitarre ridondanti, la voce di Christopher invoca quella di Chris Reed, per un sodalizio virtuale immenso, mentre la musica si muove come una clessidra in un giorno di vento: pronta a morire, felicemente, mentre le tenebre allungano le loro mani dentro le creature terrestri. Uccelli e serpenti si inchinano e si avvicinano ai nostri cuori. Si danza su una batteria sincopata e nevrotica, con il basso sovrano: martellate le sue, colpi di ascia che però affascinano, come nella scena maestra del film Shining.



2 - Shattered (Full Gospel)


Pensare possibile un’unione tra i Death In June e i Fields of The Nephilim pare un azzardo figlio di allucinazioni con la bava alla bocca. Ma è cosa vera e giusta e soprattutto possibile e quindi reale: Christopher inscena una recita dove il ritardo dei sensi viene ritmato da un sacro hand clapping, e le chitarre sono secche sentenze come i colpi sui tasti di un piano in decadenza permanente. La malinconia precipita in un catino composto da desideri fustigati e le voci fuori campo rendono il brano la scena di un film pieno di controfigure: quanto sia pericoloso avvicinarsi a disumani desideri lo sappiamo tutti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 Gennaio 20223

https://motuvius.bandcamp.com/album/black-locust-grove

https://open.spotify.com/album/0qiYMUUruih0NqsQXptdlY?si=RmbBaQ8-Q1CRcWLOVWPOAw



 

My Review: Motuvius Rex - Black Locust Grove

 Motuvius Rex - Black Locust Grove


Images pregnant with tension and magnetic flashes rise up, with an iron flight, from Louisville, Kentucky, to do magnificent damages, full-bodied and acidic, in the uncultivated crabgrass of our unconsciousness. Like a snake full of sand, ready for its meal, Mr Christopher Shahn Rigsby makes absolute prey of us. His weapons are two songs that come and anaesthetise our belief that before the power of dark hollows we can defend ourselves. In anticipation of the forthcoming LP The Vigilant Sower, the man with the epileptic beard haunts us and makes his mysterious realm justified. Visiting places denied to us, he teaches us about desolation and storm, misfortune and mental toxicity, with surgical precision and nail that break in his voice which is smoky but heavy as a slab of marble.


The Master of Disquiet arrives through the combustion of a rummaged and revisited folk noir, on the road to a funereal, immediate apocalypse, with minimal traces of the never-renounced Gothic Rock. But he has built a time machine and arrived, for us (of course), inside the square of a medieval town, greying and dusty. The heavy smells were dried out and put into an ampoule. Back in the present day, Christopher used them by throwing them into these scratched tears of his.


We stroll among Death in June besieged by cruel twists, Red Lorry Yellow Lorry as priests waiting to punish us, Fields of the Nephilim slaughtered by doubts that would like to kill Cthulhu and a chain of black angels moving inside our surrendered rosaries and crushed by polished, blunted stones, abandoned in our breath.


Two songs that now enter the descriptive pen of your frightened scribe.


Song by Song 


1 - Black Locust Grove


Deconsecrated photographs advance in the lapilli of redundant guitars, Christopher's voice invokes that of Chris Reed, for an immense virtual partnership, while the music moves like an hourglass on a windy day: ready to die, happily, as darkness stretches its hands inside the earthly creatures. Birds and snakes bow and approach our hearts. We dance to a syncopated, neurotic drumming, with the bass which is sovereign: it produces hammer blows, axe strokes that nonetheless are able to captivate, as in the master scene of the movie The Shining.



2 - Shattered (Full Gospel)


To think of a possible union between Death In June and Fields of The Nephilim seems like a gamble, the result of hallucinations frothing at the mouth. But it is true and right, and above all possible and therefore real: Christopher stages a recital where the delay of the senses is punctuated by sacred hand clapping, and the guitars are as dry as the blows on the keys of a piano in permanent decay. The melancholy precipitates into a bowl composed of flogged desires and the voiceovers make the track the scene of a movie full of stand-ins: we all know how dangerous it is to approach inhuman desires...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 January 2023

https://motuvius.bandcamp.com/album/black-locust-grove


https://open.spotify.com/album/0qiYMUUruih0NqsQXptdlY?si=RmbBaQ8-Q1CRcWLOVWPOAw



La mia Recensione: This Way To The Egress - This Delicious Cabaret

 This Way To The Egrees - This Delicious Cabaret



“La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza."

Totò


Può mancare lo stato della Pennsylvania nel radar del vecchio scriba?

Certamente no: da quelle parti la musica è acciaio rovente e i trucioli di poesia visitano lande clamorosamente piene di ogni ben di Dio.

Torna a parlare della band di Bethlehem, dello stesso disco che nel 2011 venne posizionato da chi scrive al numero tre degli album più gustosi.

E così ci torna per nostalgia e perché molto partì da lì con una serie di band che si dedicarono a un rispettoso ragionamento e altre che invece preferirono un più comodo copia e incolla, ha sicuramente allargato il campionario delle possibilità di certi generi musicali nella capacità di mescolanze miracolose.

La matrice però riguarda il punto di partenza: cabaret libero di spaziare, tra il folk, il country, l’art-punk e profumi mediterranei atti a soddisfare gli ascoltatori. Si plana nello stato di una colonizzazione devastante, dove le industrie fagocitarono le antiche modalità che rispettavano la Natura e gli esseri umani viaggiavano nell’esistenza senza squilli di tromba.

E i Balcani paiono vivere una nuova stagione trasferendo baracca e burattini nella cittadina americana.

Lì vive una tribù folle, capace di scrivere pagine di musica per portarla nei viali di ogni incertezza cerebrale. Si chiamano This Way To The Egress e hanno in dotazione tutta la passione che si affaccia su metodiche in grado di fare di un album uno spettacolo di strada.

E This Delicious Cabaret è un lavoro che distribuisce allegria, storie senza tempo, e spolvera le nubi della Contee di Northampton e Lehigh per connettere l’umore verso l’incanto, rendendoci bambini affamati di fiabe, strettamente per adulti.

Tutto pare infestato da coriandoli che portano in giro atomi e nubi di incandescenti diavoli, come anche da vittime cerebralmente lese e topi, per un sistema nervoso centrale che dalle crisi emerge sbuffando petrolio. 

Il folk e il blues si mettono il trucco, cappelli di seta pronti a svolazzare dentro questa piovana di un cabaret che semplifica la musica da una parte ma la rende dall’altra il laboratorio perfetto per scorribande che pare renderlo inaccessibile alla comprensione, che è il loro merito più grande.

Violini e mandolini rendono l’atmosfera un viaggio splendido nelle strade della città e la danza che ne consegue porta sorrisi e zucchero filato negli angoli più bisognosi della nostra curiosità. 

Due le voci che ondeggiano, saltano, recitano e santificano, per un risultato che ammalia, supportato da ritmi pieni di sole e vento. 

Le canzoni vengono abitate dal pianoforte più melodico e furibondo al contempo di cui godere, da tromboni sbuffanti carbone, e le storie sembrano centri sociali pieni di girovaghi e anime in pena pronte al trapasso, senza rughe malinconiche nelle loro esistenze.


Il ritmo delle composizioni vive di un’area possente, in libera uscita, con le chitarre e il basso che trovano la poesia non di un sostegno da parte degli altri strumenti, bensì le indicazioni per poter divenire una folla di arti che abbracciano i corpi dei nostri ascolti: la magia di assiomi che circolano col volto lucido e fiero. A volte sembra di trovarsi dentro il tendone di un circo, altre tra le strade di una Parigi vogliosa di un sano caos. Vengono fuori profumi primaverili quando il ritmo incalza, ed è danza, ed è gioia che avanza e seduce, scolpisce pensieri. Il mistero si infittisce quando le voci si inoltrano con dolcezza e tutto incomincia a sembrare un sogno, anche se questo cabaret stabilisce sempre un contatto con vulcani in esplosione.

La vena Jazz, che vive quasi muta, ci riporta a zone periferiche, a giornate stanche, al riassunto di dispersioni in cerca di una mano. Ma il lato drammatico non manca mai di respirare sulle nostre già sconvolte anime in circolo.

E ora via: tuffiamoci, tremanti e bisognosi, in questo mare caldo, undici onde che ci porteranno ai confini del mondo…


Song by Song 


1 - Last Kiss


L’apertura, solenne, magmatica, rovista tra il suono sino ad arrivare a una fisarmonica zingara con la voce di Tyrant Taylor che sembra quella di Tom Waits con meno petrolio ma con più sfumature. Fino alla comparsa di Sarah Egress, perfetta sirena che tra canti, controcanti, sbuffi e risate, si connette in questa musica che rapina i sensi e accelera come un vecchio treno a vapore.


2 - Turpentine


Si prosegue con una marcia tra nuvole e polvere: questa volta tocca a Sarah incantare, con un violino principesco che conduce il brano a farsi progressivamente una giostra di colori e andamenti tzigani di chiara matrice America Dark Folk nel ritornello.


3 - Chapel Hill


Gli Stati Uniti melanconici prendono l’aereo e volano a Parigi: ci troviamo davanti al cabaret come perfetto altare dove presenziare al ciclo della natura in lutto. Ci si sposta poi su una collina per vedere il tutto divenire danza scomposta, allucinata e isterica.  


4 - On a 45


Sia il violino con il vestito da viandante sornione a rendere il brano l’ennesimo gioiello che rivela l’ampiezza culturale/musicale della Pennsylvania: strumenti in stato di continua grazia lo raggiungono e si ascolta una melodia semplice ma assassina attraversare il tempo, con rullate assassine e gonfie di tensione.


5 - Flirtin’ With Death


Quando una marcia funebre si prende la responsabilità di divenire motivo di gioia: il calore del sangue scalda le mani gelide della morte e si indossa un abito musicale apparentemente scarno, ma poi i fiati (strumenti adatti per questa occasione) gonfiano la melodia e il ritmo si fa deciso.


6 - Gypsy Shoe


Impossibile resistere alla strategia di questa canzone: tutto trita la storia di abitanti della confusione che qui vengono allineati verso un ordine che conquista per forza e intelligenza. I cori minimalisti gonfiano il vento e il pianoforte diventa il mago che fa da contrasto al violino e alla fisarmonica, in un duello Gypsy di incantevole fattura.


7 - So What So What


Il Blues veste il dubbio e si getta in cilindri pieni di olio tra il dramma e la poesia per ripristinare il rock ‘n’ roll degli anni 50 con il senso di una transizione che abbisogna di rumori sensoriali, sottocutanei. È un viaggio tra il Jazz-Blues che sembra uscito da una bettola stanca di non avere risposte. Monocorde e magnificente, con la voce grattugiante ma melodica,  che riporta in auge il sud di quegli Stati Uniti pieni di anime in lotta, qui descritte con profonda maestria.

Tutto pare alleggerirsi, farsi più giovane e snello, con soluzione dinamiche mai presenti negli altri brani, almeno all’inizio. L’accessibilità all’ascolto è garantita dall’euforia mostrata, per un teatro di avanguardia che rasenta vestiti pop.


8 - We’ll All Soon Be Dead


Lo stile, di quella parte meno interessante della carriera di Elton John, nei primi secondi, sembra stravolgere l’idea che ci siamo fatti di questo album ma poi, come un miracolo da benedire, un brano che rasenta la perfezione si affaccia in una veloce giornata primaverile. Incursione di stile, di strumenti accordati per dare agli arrangiamenti minimi fiamme orizzontali, per offrire ironia e magnificenza in un pulsare che stimola l’abbraccio. Ironico e spavaldo, sia nella musica che nel testo, il brano è una marcia trionfante.


9 - Swashbuckler 


Il teatro entra nelle nostre case, con aggeggi malefici travestiti da cori con attitudini pop, poi il cambio di ritmo, di atmosfera, un Paolo Conte ringiovanito che sembra uscire dalle ombre di stratagemmi che rendono il brano un putiferio dalle tinte quasi rock. Non si finisce di avere la bocca spalancata…


10 - Delicious Cabaret


Penultimo delirio temporale: avanti e indietro nel tempo e nei luoghi per un brano che riassume l'aspetto tragicomico del cabaret e di una pulsione che viaggia tra il Jazz e lo Swing, senza dimenticare, nel cantato, la radice Folk-Noir Americana. Si canta un taratatà credendo di poter essere spensierati: illusi! E Sarah è una Marlene Dietrich priva di candore, ma perfetta per conferire alla sua parte cantata un podio solo per lei perché nella sua semplicità, che fa da contraltare alla complessità degli elementi musicali esposti, vi è parte del  segreto di questo straordinario album… 


11 - Saint


La frustrazione, l'assoluta necessità di dare alla morte un congedo grazie all'importanza di una figura estrema come quella di un Santo porta Tyrant a scrivere una canzone come trampolino di lancio per un mutamento attitudinale: da gnostico a uomo di fede. Il cantato, che sembra spesso il verso di un cane che rincorre un nemico, diventa l'elemento di spicco che accompagna il testo allucinato, sfibrante ma che descrive la storia in modo sublime. Dalla zona Balcanica alla sponda sud della Spagna, alla zona Provenzale, la musica compie un viaggio sublime, convincente, disegnando tratti di culture in contatto, elemento presente in tutto l'album. Splendida conclusione per queste undici onde che ci hanno resi consapevoli che la magia si muove senza territori né confini...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

2 Gennaio 2022


https://thiswaytotheegress1.bandcamp.com/album/this-delicious-cabaret


https://open.spotify.com/album/1k2v7Ab1BP0fNJ9KHVnZBq?si=XD2MiEHiRCaC0c3HU93Fhg







sabato 31 dicembre 2022

La mia Recensione: Basement Revolver - Embody

 La mia Recensione:


Basement Revolver - Embody


Se esistono sentimenti che definiscono la nostra esistenza basta farsi un giro a Hamilton, nell’Ontario (Canada) e ascoltare questo album assaggiando la poesia del suo lago, che riesce a essere impraticabile d’inverno ma che consolida la potenza dello sguardo dentro la sua potenza oscura. E a decidere il destino dei nostri ascolti è una fata triste che è in grado di disperdere parte di questa realtà nella dolcezza, riuscendo a estirpare sentimenti di solitudine e impossibilità scrivendo canzoni come passi amari sopra i sogni, in un crocevia delizioso, quasi spavaldo.

Si fa coadiuvare da tre compagni dalle braccia delicate ma robuste, come magazzinieri attenti a non rompere, prima ancora che a spostare le loro creazioni dentro i nostri cuori.

Suoni aperti, talvolta cupi, sempre nei pressi di uno Shoegaze minimalista che adopera la calma per anestetizzare l’emarginazione nei testi precisi di Chrisy Hurn-Morrison (la voce più ricca di nuvole al momento), una donna che ha nell’isola la stessa materia ricercatrice che ha nelle mani, in una danza dagli occhi color stupore.

In trentotto minuti non si troverà mai un momento per separarsi da queste onde emotive, da questi ritmi e dalle melodie che celebrano un talento davvero denso di piume che navigano tra la pioggia e il vento dei nostri cuori…

Chrisy mette i pensieri su una barca ed entra nel lago, decidendo di scrivere testi con lo sguardo profondo: in assenza di onde, lei decide di far sprofondare temi dolorosi su un fondale che li attende con tremante dolore. Gli argomenti descritti sono spesso circostanziati a fatti reali e alla propensione di miscelarli con una fantasia che matura riflessioni che non attraccano mai alla depressione. E alla musica viene conferito il ruolo di un coma con onde celebrali che si muovono attente, senza bisogno di foga, per mantenere un’atmosfera generale, abbracciata a dinamiche oniriche, sensuali e prudenti: una saggia modalità da cui imparare. Dilatazioni, tutto sparpagliato con armoniosa capacità, le canzoni sono un concept album razionale e sonoro, un’esplorazione viscerale che alza lo sguardo saltuariamente verso un piccolo cambiamento per dimostrare che anch'esse hanno muscoli nelle braccia. Ma non tirano mai i pugni: tutto in loro è rispettoso anche quando si danza, perché sembrano capaci di dare volutamente alle atmosfere il potere di una leggendaria brina che rende i nostri ascolti nuovi brividi da vivere, gioiosamente.

Le traiettorie presenti fanno di queste canzoni una galleria dove gli affreschi che troviamo solo in parte ricordano i loro primi lavori, tre Ep e cinque singoli, più il precedente Lp Heavy Eyes. È chiaramente vistosa la loro crescita, il complesso di variabilità a loro disposizione, i disegni melodici in estensione, con sfumature evidenti che fanno di questo album una stella marittima dei nostri pensieri.

Capaci di fissare bene nella nostra memoria la svolta dell’indie americano degli anni ’90, hanno saputo andare oltre oceano e venire a guardare qui, nella terra d’Albione, dove hanno trovato arcobaleni Shoegaze con il freno a mano, dove poesia e immaginazione fanno l’amore con grande gentilezza.


Le corsie della loro bellezza si riempiono costantemente di un incrocio alquanto difficile e pericoloso che si specifica nell’unire perfettamente molto spesso Dreampop e Shoegaze, riuscendoci come Dei illuminati da un talento inarrestabile e fluente, con melodie tra il cupo e i raggi di sole, in un impeccabile bacio accademico.


Dimostrando come la pandemia potesse e dovesse essere utilizzata non come noioso passatempo ma come preziosa analisi, in questi solchi troviamo l’amalgama tra il ragionamento e l’incanto di una evidente evoluzione spirituale, dove riescono a materializzare la realtà complessa con il bisogno della semplicità, con l’utilizzo di una misteriosa bacchetta magica. Lo si intende quando, ascoltando queste undici vibranti farfalle, si vola in sali e scendi sensoriali ed emotivi, perdendo la paura, acquisendo consapevolezze che mutano la nostra identità. Sono le chitarre a pilotare ardori, è la batteria che disciplina il buon gusto con l’intelligenza, è il basso a fare del nostro stomaco un teatro sperimentale eccelso.


I quattro fanno continuamente spazio a intuizioni, convergono come unico combo verso la necessità di versare chilometri di vernice dentro una tristezza primitiva, qui sciolta nel mare calmo dei loro scettri. Capaci di fertilizzare le note con sublime maestria, si riesce a vedere tutto il loro corso di manipolazione e l’intenzione di dare ai pensieri una finestra su montagne innevate. Ed è proprio da quest’ultime che scendono ogni tanto delle slavine di suono che eccitano e fanno provare il brivido di una necessaria paura.


Specchi sparsi in ogni testo, in tutte le note, fanno di questo lavoro un atto di disciplina, il necessario sviluppo della conoscenza, con un armamentario vistoso, sempre generoso, per poter invadere con consapevolezza i nostri sensi raggelati. Riuscendo con l’autoanalisi, infine, a fare della musica una bolla promiscua ed efficace, dove tutto accade per un disegno divino che ci fanno vedere, come una concessione necessaria per loro, e che lascia a noi la responsabilità di non sprecare la ricchezza di questo lavoro…


Song by Song


1 - Skin


“Feel you standing there

Try to grin and bear, 

Touch me with your stare”


Ed è delirio sullo stile Catherine Wheel quello che apre l’album, con lo slow-core che si mette addosso abiti Shoegaze, per un incantevole cammino dentro la pelle, tra distorsioni e il basso che bussa al cuore sino a quando l’ipnotica voce di Chrisy ci insemina con petali di poesia.


2 - Be Okay


“In the darkness

It gets hazy

Stuck in its grasp”


La formula rimane quella sognante ma tutto si fa più pieno di muscoli, con la voglia di correre nel buio per sentire l’aria fresca, per rallentare, correre ancora, nella frenesia di chitarre come graffi del vento.


3 - Circles


“Try to take each day that comes

One step at a time

Decluttering my mind”


Siamo dentro una seduta analitica dal risvolto doloroso, con la mente che perlustra sembianze, riflessioni, cerca risposte nel marasma emotivo e razionale.

La musica è una stanza psichedelica, lenta, suggestiva, che bacia la World Music sino a trasferirsi, con eleganza, in un ballo Dreampop con lo sguardo Shoegaze.


4 - Slow


“If I could call you on the telephone

I’d ask you maybe can I just come home

Don’t want to have to prove my innocence”


Lacrime incantevoli necessarie e nutrienti scendono dal trinomio voce - parole - musica per stabilire, sui nostri sensi, una dipendenza assoluta: dove vive l’intensità, la rabbia, la voglia di chiarire, vi sarà sempre un corrispettivo di sensi allineati verso il cielo. Strepitosa dimostrazione di classe, l’atmosfera del brano è una stufa che riesce a far capire il vuoto e il pieno di certe distanze, con la musica che, raccolta in una fascina notturna, suggerisce il chiudere le porte all’imprecisione. Qui tutto è perfetto e quelle lacrime iniziali finiranno per farvi volare via da voi stessi…



5 - Blackhole 


“Every day it feels like more

Weight on my chest

Pushing me down

Consumes my soul”


Tra un a pioggia dissetante e chitarre che seminano sogni, il brano è una testimonianza di delicata propensione a fare dell’amore un luogo aperto, sino ad arrivare al soffocamento in un buco nero. Come la nebbia di novembre, qui si percepisce l’umidità di un sentire che sembra morire, ma saranno proprio queste atmosfere musicali a far divenire il tutto una ninnananna malinconica e perfetta.


6 - Storm


“Maybe I was made to love you

Shake this tired head 

Fill my dry bed”


Rimane la pioggia ad accompagnare questa voce piena di un radioattivo pulsare, uno sgocciolare nel cuore, con una linea melodica affidata a poche ma sensualissime note e un suono che sembra un fischio che bacia un riverbero educato, con il drumming che rende il tutto un eco di potente suggestione, mentre nel ritornello tutto si fa delirio tra il registro alto e le chitarre svolazzanti.


7 - Transatlantic


“Liquid are your thoughts

I hear them flow

Like water trickling”


Che dolcezza sopraffina! Ci si coniuga con diamanti ritmati, tra fusioni di spasmodici desideri che sorpassano le distanze e chitarre in attesa di ruotare e che lo fanno con garbo. Il ritmo è un esercizio di perfetta chimica tra il basso e un drumming che pennella poetiche vampate di gioia. Nel contesto di un testo molto profondo, Chrisy veste la voce di cristalli liquidi nel quale vedere le sue potenzialità totalmente esibite.


8 - Dissolve


“Passing time draws us nearer 

I dissolve into you”


L’amore improvviso arriva e apre i pori: siamo nella primavera del cuore e la musica fa altrettanto, per unire una storia semplice ed efficace, per dare al tempo parole e musica come un canto celeste.


9 - Tired


“Carry the weight of your judgement

‘Til I’m forced down on my knees”


Uno squarcio il testo, un abbraccio la voce, una consolazione questa musica: calorie necessarie per ingrossare la mente verso una positività che sembra lontana. Una discesa dentro le mani che graffiano e note musicali come un mantello a proteggere questo cataclisma…


10 - Tunnel Vision


“Deep, deep dive

I feel so confused

All the time”


Shoegaze allucinato e celestiale, il drumming secco, la chitarra che alza la polvere e le parole, minime, a saldare il frastuono per testimoniare che la band sa arrivare al sodo, tra il cuore e la mente, come artigiani dello stupore. 


11 - Long Way 


“Your body will change

It will look different

Its curves and its burdens

Carry the shame”


L’onestà intellettuale richiede sincerità e a volte durezza, se non addirittura una non tanta velata crudeltà, per stabilire il contatto autentico dell’esistere.

L’ultimo brano, spaventosamente glaciale e siderale, è un esplodere continuo, con e senza distorsioni. È un abbandono delle maschere e per essere visibile nulla deve essere complicato. Pochi accordi ma un’atmosfera inequivocabile determina la fine dell’album per dare all’ascolto una gioia che implode…


Alex Dematteis 

Musicshockworld

Salford

1 Gennaio 2023



https://basementrevolver.bandcamp.com/album/embody


https://open.spotify.com/album/7egXCioiZMNz9EmGk7Z3GB?si=NBTOGPtKSJqGY2rlhmGK2g






My Review: Basement Revolver - Embody

 My Review:


Basement Revolver - Embody


If there are feelings that define our existence, we just need to take a trip to Hamilton, Ontario (Canada), and to listen to this album while sampling the poetry of its lake, which manages to be impassable in winter but consolidates the power of the gaze within its dark power. And deciding the fate of our listening is a sad fairy who is able to disperse part of this reality into sweetness, managing to eradicate feelings of loneliness and impossibility by writing songs like bitter steps over dreams, in a delightful, almost swaggering crossroads.

She is assisted by three companions with delicate but strong arms, like warehouse workers careful not to break anything, before moving their creations inside our hearts.

Open, sometimes sombre sounds, always in the vicinity of a minimalist shoegaze that uses calm to anaesthetise marginalisation in the precise lyrics of Chrisy Hurn-Morrison (the most cloudy voice at the moment), a woman who has in the isle the same searching matter she has in her hands, in a dance of astonished eyes.

In thirty-eight minutes, one will never find a moment to separate oneself from these emotional waves, from these rhythms and melodies that celebrate a truly feather-rich talent that sails through the rain and wind of our hearts…

Chrisy puts her thoughts in a boat and enters the lake, deciding to write lyrics with a deep look: in the absence of waves, she decides to sink sorrowful themes on a seabed that awaits them with trembling pain. The topics described are often circumstantial to real events and the propensity to mix them with an imagination that matures reflections that never dock at depression. And the music is given the role of a coma with brainwaves that move carefully, without the need for eagerness, to maintain a general atmosphere, embraced by dreamlike, sensual and cautious dynamics: a wise modality to learn from. With dilation and everything spread out with harmonious skill, the songs are a rational, sonorous concept album, a visceral exploration that occasionally looks up at a small change to show that they too have muscles in their arms. But they never throw punches: each thing about them is respectful, even when dancing, because they seem able to deliberately give atmospheres the power of a legendary frost that turns our listening into new thrills to experience, joyfully.

The trajectories present make these songs a gallery where the frescoes we can find are only partly reminiscent of their early work, three EPs and five singles, plus the previous LP Heavy Eyes. Their growth is clearly noticeable, as well as the range of variability at their disposal and the melodic designs in extension, with evident nuances that make this album a maritime star of our thoughts.

Capable of fixing well in our memory the American indie twist of the 90s, they have been able to go overseas and come and look here, in the land of Albion, where they have found shoegaze rainbows with a handbrake, where poetry and imagination make love with great kindness.


The aisles of their beauty are constantly filled with a rather difficult and dangerous crossroads that is specific in combining perfectly very often Dreampop and Shoegaze, succeeding like gods illuminated by an unstoppable and flowing talent, with melodies between darkness and sunshine, in an impeccable academic kiss.

Demonstrating how the pandemic could and should be used not as a boring pastime but as a valuable analysis, in these grooves we find the amalgam of reasoning and the enchantment of an evident spiritual evolution, where they manage to materialise complex reality with the need for simplicity, using a mysterious magic wand. This is understood when, listening to these eleven vibrant butterflies, one flies through sensory and emotional ups and downs, losing fear, gaining awareness that changes our identity. It is the guitars that drive ardours, it is the drums that discipline good taste with intelligence, it is the bass that makes our stomachs a sublime experimental theatre.


The four continually make room for intuition, converging as one combo towards the need to pour kilometres of paint into a primitive sadness, here dissolved in the calm sea of their sceptres. Capable of fertilising notes with sublime mastery, you can see their whole course of manipulation and their intention to give thoughts a window to snow-capped mountains. And it is precisely from the latter that occasional avalanches of sound descend, capable of exciting and making one feel the thrill of necessary fear.


Mirrors scattered in all their lyrics, in every note, make this work an act of discipline, the necessary development of knowledge, with a conspicuous paraphernalia, always generous, to be able to invade our chilled senses with awareness. Succeeding with self-analysis, finally, to make music a promiscuous and effective bubble, where everything happens by a divine design that they make us see, as a necessary concession to them, and that leaves us with the responsibility of not wasting the richness of this work…


Song by Song


1 - Skin


"Feel you standing there

Try to grin and bear, 

Touch me with your stare"


And it is a Catherine Wheel-style delirium that opens the album, with slow-core that puts on shoegaze clothes, for an enchanting walk inside the skin, through distortions and the bass that knocks at the heart until Chrisy's hypnotic voice inseminates us with petals of poetry.


2 - Be Okay


“In the darkness

It gets hazy

Stuck in its grasp"


The formula remains the dreamy one but everything becomes more full of muscles, with the desire to run in the darkness to feel the fresh air, to slow down, to run again, in the frenzy of guitars like wind scratches.


3 - Circles


"Try to take each day that comes

One step at a time

Decluttering my mind"


We are inside an analytical session with a painful implication, with the mind scouring for semblances, reflections, searching for answers in the emotional and rational marasmus.

The music is a psychedelic, slow, evocative room, kissing World Music until it elegantly moves into a Dreampop dance with a Shoegaze look.


4 - Slow


"If I could call you on the telephone

I'd ask you maybe can I just come home

Don't want to have to prove my innocence"


Necessary and nourishing enchanting tears descend from the trinomial voice - words - music to establish, on our senses, an absolute addiction: where the intensity, the anger, the desire to clarify lives, there will always be a counterpart of senses aligned towards the sky. An astonishing display of class, the track's atmosphere is a stove that succeeds in conveying the emptiness and fullness of certain distances, with music that, gathered in a night-time wooden bundle, suggests closing the doors to inaccuracy. Everything is perfect here and those initial tears will end up making you fly away from yourself...


5 - Blackhole 


"Every day it feels like more

Weight on my chest

Pushing me down

Consumes my soul"


Between a thirst-quenching rain and guitars that sow dreams, the track is a testimony to a delicate propensity to make love an open place, until it suffocates in a black hole. Like the November fog, here you can feel the dampness of a feeling that seems to be dying, but it is precisely these musical atmospheres that make it all become a perfect melancholic lullaby.


6 - Storm


"Maybe I was made to love you

Shake this tired head 

Fill my dry bed"


It remains the rain that accompanies this voice full of a radioactive pulse, a dripping in the heart, with a melodic line entrusted to a few but very sensual notes and a sound that seems a whistle kissing a polite reverb, with the drumming that makes the whole thing an echo of powerful suggestion, while in the refrain everything becomes delirious between the high register and the fluttering guitars.


7 - Transatlantic


"Liquid are your thoughts

I hear them flow

Like water trickling"


What an exceptional sweetness! We are conjugated with rhythmic diamonds, among fusions of spasmodic desires that overtake distances and guitars that are waiting to rotate and that do so gracefully. The rhythm is an exercise in perfect chemistry between the bass and a drumming that brushes poetic displays of joy. In the context of very profound lyrics, Chrisy dresses her voice in liquid crystals in which to see her potential fully shown.


8 - Dissolve


“Passing time draws us nearer 

I dissolve into you"


Sudden love comes and opens the pores: we are in the springtime of the heart and the music does the same, to unite a simple and effective story, to give time words and music like a heavenly song.


9 - Tired


"Carry the weight of your judgement

'Til I'm forced down on my knees"


Lyrics are a laceration, the voice is a hug, this music is a consolation: calories necessary to swell the mind towards a positivity that seems far away. A descent into scratching hands and musical notes like a cloak protecting this cataclysm...


10 - Tunnel Vision


"Deep, deep dive

I feel so confused

All the time"


Hallucinated and celestial Shoegaze, the remarkable sound of the drums, the guitar raising the dust and the words, minimal, soldering the din to testify that the band knows how to get to the heart of the matter, between the heart and the mind, as artisans of amazement. 


11 - Long Way 


"Your body will change

It will look different

Its curves and its burdens

Carry the shame”


Intellectual honesty requires sincerity and sometimes harshness, if not a not so veiled cruelty, to establish the authentic contact of existence.

The last track, frighteningly glacial and sidereal, is a continuous explosion, with and without distortion. It is an abandonment of masks and in order to be visible nothing must be complicated. Few chords but an unequivocal atmosphere determine the end of the album to give the listener an imploding joy…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1st January 2023


https://basementrevolver.bandcamp.com/album/embody


https://open.spotify.com/album/7egXCioiZMNz9EmGk7Z3GB?si=NBTOGPtKSJqGY2rlhmGK2g




























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