lunedì 20 gennaio 2025

La mia Recensione: Auge - Spazi Vettoriali


 

Auge - Spazi Vettoriali


Il tempo viene archiviato solo dalla massa ignorante di chi ha fretta, quella che stringe gli spazi e divaga nel nulla. Esiste una controparte che invece disegna traiettorie per sublimare la coscienza e la conoscenza, come atto, coraggioso, di un inizio che possa scrivere, sulla coda delle stelle, un epitaffio lucente.

Questo è ciò che fa la band fiorentina Auge, un condensato crescente di nervose progressioni coscienti, disturbatori privati che, nella marcia inarrestabile di un percorso artistico, arrivano a posizionare fasci luminosi nelle ombre. Ostili, antipatici, sconnessi dalla realtà che fugge dall’impegno, i quattro artisti ne ridisegnano il volto, con un’amarezza adulta e perciò controcorrente, non desiderabile. Nel loro profondo approccio all’analisi del tempo e dei luoghi dove l’esistenza pullula di particelle omicide, loro raccolgono i suoni attuali, criptandoli, ossigenando ipotesi e frastuoni, gravitazionando senza tentennamenti in una lastra in bianco e nero dove le macchie sono ipnotizzate da un’enfasi moderata, che fa approcciare le composizioni all’arte della poesia che anestetizza il presente.

Un disco folle, romantico, impulsivo, pieno di mediazioni linguistiche e sonore, per poi rendere grigi i battiti del cuore, spettinando ogni necessità, utilizzando la strategia dell’innesco di dubbi in catalettica esuberanza, in un tripudio di bilanciamenti che snervano ma, innegabilmente, consolano.

L’ossatura ritmica questa volta, nel secondo di tre album tematici previsti, si sposta dal precedente, con trame rarefatte solo nei momenti opportuni, perché, è bene precisare, ci troviamo in un martellamento di coscienze seppur raffinato. La narrazione, peculiarità della scrittura, qui si divide il ruolo con la musica, in un combo che stravolge pratiche e conoscenze, facendo compiere il miracolo di un approccio poco italiano. Niente a che vedere con i suoni, gli stili, le attitudini: la band fiorentina corre in un sistema creativo che emargina le pratiche semplici e si tira su le maniche per far capitolare la noia e la pochezza. Arte come penna offensiva, con garbo, ma atta a ottundere.

Oscurità e limpidezza sono i cardini, gli elastici, gli interruttori di continue partenze orgiastiche e quindi dolorose, per qualità e insistenza. Melodie profonde bisognose di ritmiche per spaventare il concetto di immortalità: ecco il primo grande merito di un disco che, come un martello temporale, cerca anime sensibili e coscienze in stato di veglia.

L’eleganza entra come anestesia, come un appuntamento galante ma senza alzare la voce: sono composizioni che cercano l’apertura mentale, spazi, appunto vettoriali, che possano far abitare nuovi destini.

Ed eccoci agli argomenti, alle invettive mascherate e alle grandi occupazioni del gruppo: non un criticare, tantomeno un prendere atto, bensì un disegnare la traiettoria di esigenze che non nascondano la gravità dei fatti. L’emozione diventa elettrica, caratterizzata da tensioni che manifestano il bisogno di condivisione.

Tutto parte da musiche che sono linguaggi sensoriali, fari nel ventre di un luogo che li ospita, consentendo alle parole scritte di divenire anch’esse corpo, nel binomio maledetto di un ossimoro che conquista e seduce il pensiero.

Stasi dei sensi.

Allerte.

Venti in cerca di teorie con cui incontrarsi e perdersi negli universi…

Quella che regna maggiormente, però, è la storia di sequenze e morali travestite da racconti (uditivi e suggeriti da sillabe concretamente legate al senso dinamico di un fissativo logico) per generare consapevolezza, attraverso un dolore istruito al contagio. 

Immagini di vita? Sì, innegabilmente, ma maggiormente un idilliaco abbraccio cognitivo che renda informata la temperatura della dispersione collettiva. Ecco, spiegate divinamente, le strade della violenza, delle esagerazioni, dell’atmosfera da sballo di menti corrotte.

Un viaggio che da musicale diventa personale, illustrando e lustrando le orme dei precipizi mentali, che Mauro Purgatorio e compagnia bella disinfettano prendendosi cura del suono, in questo caso per la seconda volta ad appannaggio di Flavio Ferri ma, bene sottolinearlo, con il contributo notevole di Luca Fucci, un funambolo creativo con il senso dell’equilibrio ben posizionato sulle  dita.

La produzione, dei due musicisti accennati e degli Auge stessi, porta il suono ad anticipare il senso generale per quello che è, nascostamente, un atipico concept album, ma preciso nell’abbracciare temi e indoli in contatto tra di loro.

I quattro si fermano, arrestano il tempo, rendono il mondo un silenzio abulico, un ossigeno in cerca di un diserbante, dove le inquietudini  trattengono il giro delle lancette dell’orologio per dare un bacio al passato. In tutto questo sia benedetta Chiara Pericci, una fata della periferia artistica, che in pochi secondi di presenza ci ipnotizza e ci accarezza il cuore. 

Ascolto e trascendenza, nel matrimonio elaborato di congiunzioni ipnotiche, trafugano la semplicità per adoperare filtri e intuizioni, in una passeggiata metropolitana, che devia il percorso e lo rende un’onda ossessiva, nel pieno di una fanciullezza dalle evidenti rughe in anticipo.

Il tutto è Rock, perverso, selvaggio, maledetto con il papillon e un profumo tra il volgare e l’acre, in un urlo che nulla ha di sconvolgente: trattasi di un furto lecito e onesto.

Sintesi, salti, evocazioni, invocazioni, perplessità e trucchetti da maghi ingialliti da luci atemporali sono i protagonisti di questo balsamo per l’anima, che ha il coraggio di bussare alle porte del linguaggio onirico degli Alice in Chains come a quello metafisico dei Massimo Volume. Già questo spiega la proporzione dei confini, dei passi, delle modalità e soprattutto delle capacità che fanno di questo disco una conversione razionale all’indispensabile.

Diviso nel lato A e nel lato B (si parte dall’inizio per essere perfetti, dal rispetto del vinile come idea di base), il percorso mette in contatto i due volti, nei quali quello iniziale ha maggiormente lo spirito della contemporaneità, mentre il secondo ha uno sguardo più attento verso ciò che sta dietro, nei passi che rimangono accesi di vita…

La poetica essenziale disegna un linguaggio più raffinato rispetto al passato, come se la maturità acquisita non dovesse consegnarsi allo spreco. Infatti, in tutte le composizioni svettano le impressioni che lasciano spazio alle interpretazioni, e questo avviene anche e soprattutto con la musica, un caleidoscopio rurale dove il post-rock, il post-punk e un precedere qualsiasi cosa generano flussi ancestrali con melodie e armonie che vengono dipinte da una elettronica sapiente e capace di suggerire e non di spaccare il palco con un'entrata in scena esagerata. In questo, il lavoro di Luca e Flavio è semplicemente perfetto, costruendo matrimoni artistici per l’incanto dei piaceri.

Superiamo l’ostacolo della paura, creiamo certezze approssimative e tuffiamoci nei veleni ipnotici di queste catartiche passeggiate cognitive, una a una…




Song by Song


Lato A


1 - Icaro

“È dal giorno delle menzogne che ti vedo scomparire dentro porte senza ritorno ma con un cielo da esplorare”


Un allarme nucleare, un sinfonia ipnotica, chitarre elettriche ritmiche che graffiano e un giro di basso che sembra una colata del Vesuvio: l’inizio dell’album è un temporale lento, morale e invernale, con accordi pieni, un rock nato negli amplessi esplorativi degli anni Settanta, che si ciba di ipnosi e metalliche scariche in cerca di Spazi Vettoriali…



2 - Ero Lì 

“Io ero lì quando fecero marciare per i viali i non pensanti”

Prendete 1979 degli Smashing Pumpkins e andate oltre, calpestando stop and go, con iniezioni sonore che le portano a sudare il sangue di presenze, e avrete solo l’ossatura della prima, roboante forma di aggressione che conosce, nel finale, un rallentamento, ma puramente stilistico, perché in realtà la canzone continua a essere un missile esplorativo…



3 - Firenze

“Ma in ogni angolo del giorno c’è arte in quel dolore profondo”

L’inizio è quasi uno shock perverso: petali trip-hop fanno da pavimento a una veloce, progressiva e manifesta desertificazione post-punk che vede la citazione, illustre e illuminata dal cantato fuori dal cielo di Chiara, di Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus, che sono presenti in diversi momenti e non solo quando direttamente menzionati. Ecco non una invettiva sulla città, ma un tenere fuori i piedi dall’arroganza e dalla borghesia di un realtà morente…



4 - Lei

“Nascosta nella sua mente ma negli occhi brilla sempre la fiamma intermittente”

Può un arcobaleno entrare nella scia di un cuscino? Può correre nel marasma di un Alternative ipnotico, con il ritmo sincopato e capace di tergiversare, di prendersi pause e poi di distendersi sui propri muscoli, per riportare la luce nella espressione dolce amara di Moltheni, di giovani e vecchi Sonic Youth in cerca di un catrame da addolcire?



5 - Maestrale

“E mentre osservi il mare già le onde gridano senza alcun timore: “it's the secret I love!””

Ogni grandezza ha una calamita interiore: eccola.

Maestrale è un serpente ipnotico, che parte sinuoso e poi, accelerando, porta con sé una tristezza davvero indolente come il maestrale, qui raffigurato come una pepita temporale, sfuggente, grazie a un solo di chitarra che riporta lo stoner rock in Italia, con leggerezza e contorni di hard rock quasi segregati.

 

Lato B



1 - Gravità 

“Non è solo bisogno di calore quello che ora vuoi. È questa forza di gravità”

Prendi l’oceano e dagli del veleno come colazione: una scossa elettrica che accarezza non solo le foglie da un’inclinazione, dispersiva e necessaria, al fine di creare un vuoto cosmico. Per scrivere questo capolavoro (la canzone lo è, innegabilmente), la band raggruppa la sanguigna capacità di Clementi con i suoi Massimo Volume e l'istrionico connubio delle voci di Chiara e Mauro, per far precisare le chitarre e il basso nello scuotimento pelvico di un drumming potente e raffinato.



2 - La Teoria

“Ci muoviamo senza senso dentro la scatola finita polvere che verrà sostituita da altra polvere”

Siamo nel territorio degli ammiccamenti musicali recenti e il bisogno di guardare la progressione mentale di una chitarra appiccicata al rock lento dei Saxon fine anni Settanta, per poi arrivare ai Marlene Kuntz, sino a definire il vero passaporto stilistico degli Auge che è quello di rifiutare maschere e nascondigli ma di allargare il petto della propria cifra stilistica. E lo fa bene in questo maligno camminamento tossico di parole che prendono il caos e lo rendono una teoria fallace e dimenticabile. Un brano che ruba l’inutile e diventa sacralità ineccepibile…


3 - Ognissanti

“Prova ad immaginare, immaginare di essere Dio senza mai più un segreto”

Per il  Vecchio Scriba questo è l’episodio che meglio sintetizza la bellezza, l’esplosione delle polveri, dei connubi dei musicisti e dei produttori, per lanciare le voci inquinate e inquietanti verso una corsa che non permette deviazioni ma mette con le spalle al muro. La canzone ha un impeto violento, un confine millimetrico di un odore marcio di religiosità e convenienze perlustrate e appese fuori della propria stupidità, per far morire i segreti dell’imbecillità. Rock con i grumi sui polsi, voci raddoppiate enfatiche e chitarre malate di verità che assediano l’ascolto e ospitano uno spazio temporale davvero impetuoso. Definitiva, incalzante, necessaria: niente altro che il doveroso appuntamento con la perfezione degli Auge…


4 - Perdersi

“Preferisco perderti nelle mie fantasie e non in un bicchiere d'acqua”

L’identità danza lentamente, tra Tenco, De André e i Primus a basso regime ritmico, in un solstizio che ospita parole sagge e romantiche e gemme musicali a contatto del cielo in una clamorosa quasi ballad, dove il suono maligno dell’assolo è un perfetto calcio testicolare ben assestato. Ruvida, apparentemente, la canzone è un gioco temporale dell’identità che finisce in un eco riverberato davvero sublime…


5  - Universi

“E capisci di essere l’umile ingegnere che può aiutare a tirar fuori i sogni dal cassetto”

Chiara Pericci si trasforma in una fata triste, un angelo grigio con un vocalizzo che fa nascere lacrime mentre l’arpeggio di chitarra ci porta in Francia negli anni Quaranta. Quando arrivano le parole di Mauro, e il suo cantato quasi al limite della stonatura, ci rendiamo conto che il tutto perfetto, anche se pesante da vivere, ritrovandoci coinvolti dal suo prendere fiato e dalla ragazza sola del testo, qui raccontata come se fosse uno specchio termico di Michelangelo Antonioni, tra sudori e pianti. Ed è un crescendo psichedelico, che ci porta in dono l’unico nemico mai assente: Dio.

È un finale pazzesco, insostenibile, con una coda Shoegaze/Post-Rock nei confini di una follia insostenibile.

Se ogni album è un congedo, questo è un silenzioso rumore che anticipa un’ennesima pausa dove tutto accade…


Auge:

Mauro Purgatorio (Voce, liriche e synth)

Matteo Montuschi (Chitarre)

Sara Vettori (Basso, basso fretless)

Riccardo Cardazzo (Batteria)


Produzione:

Flavio Ferri, Auge & Luca Fucci



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Gennaio 2025

L'album uscirà il 7 di Febbraio

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