Mogwai - The Bad Fire
Un deserto trova la sua fonte nel ponte sonoro di un tempo trascorso a lasciare le tracce di vibrazioni nella speranza di un approdo, dove perdersi e trovarsi non è che un inizio.
Era il 1995 e tutto precipitava, nel cuore centro di un decennio in cui la bellezza e bruttezza convincevano senza osmosi, senza megafono e senza silenzi in contemporanea.
Una coppia di amici scozzesi ha scelto un epitaffio come uno sprint, un lampo da spegnere con ricerche, teoriche, su come il suono potesse essere schiavizzato dalla bellezza di ritmiche e armonie in cerca di un ombrellone. Hanno sempre rifiutato la definizione di band Post-Rock, di pionieri di quel genere e hanno fatto bene: se si spende tempo con quelle sbagliate, cogliere l’attimo è praticamente impossibile.
Il nuovo album non celebra i 30 anni di carriera, bensì parte da cicli di chemioterapia di una giovane figlia.
Nulla di artistico se non il desiderio di silenziare una frustrazione, un dolore, una slavina nevrotica di esplosioni in espansione. Nascono canzoni rabdomanti, emozioni che divengono espedienti, il fruscio armonico di una strana serie di conversioni, qui elevate al tappeto emotivo che lascia bave e fiori in sovrappeso, perché questo lavoro racconta, spiega, fa vivere la felicità attraverso le stagioni temporali ed educative, in un sobbalzo calcolato per anestetizzare paure e inutili tensioni.
Le intuizioni, balaustra e forte morale della band, sin dai tempi del pomposo Brit-Pop, hanno costruito nel giardino sonoro di questi polpastrelli una serie di intenzioni che in The Bad Fire trovano una risorsa nuova: creare non solo flussi cinematografici, favole sonore e la possibilità che la fantasia non abbia bavagli quanto, piuttosto, bagagli e appigli, in una storia che specifica come l’animo umano sia il primo dei pianeti. La scelta di titoli fuorvianti (da sempre un atteggiamento che appariva come un atto dissacratorio per non fare dei brani una cosa seria), ribadisce il concetto che in questa modalità unica quasi prettamente strumentale vivano parole, pensieri, slanci, frenate e il brillio di un fascio che, tra il rumore e la dolcezza, definisce l’intendere come un gesto fortuito e non come somma di capacità.
Un inno alla gioia, uno alla consacrazione dell’umore che da adulti va affrontato seriamente, uno alla pressione degli spazi mutanti, e tuttavia sempre con una innovativa e sorprendente volontà di permettere alla gioia di calpestare questi solchi. Ed è pop, rock, dream pop, alternative, psichedelia, però soprattutto un gioco serio che cerca il cielo e lo schiaffeggia con alcune trame dove l’elettronica non è assolutamente un termometro glaciale, quanto piuttosto una modalità nuova di generare calore.
Approcci diversificati, strumenti utilizzati come un melting pot a cui regalare nuove istruzioni, per generare strati inebrianti e in cui non è il viaggio che conta, ma il rimanere ancorati al proprio territorio emotivo.
Ci si perde in questi voli, in questi vuoti, in questi sobbalzi e in questi attriti, per comporre incrollabili sogni, dubbi e certezze, non per fuggire bensì per incontrare un mondo privo di sillabe e approssimazioni sterili e inutili.
Arrivano i Pink Floyd, i Velvet Underground, i Television e una serie impressionante di note calve, senza bave, senza presunzioni: il suono (padre/padrone e servo) risulta questa volta solo la scheggia che lascia più piacere che dolore, offre l’idea che nella incertezza del senso si collochino quei fasci musicali trovando un letto accogliente.
Non hanno mai scritto canzoni Stuart e Barry: hanno cercato un rifugio laddove proprio il Post-Rock ha messo barriere, paletti e confini stilistici e attitudinali. I due sono anime intelligenti, corsari dell’ignoto che cercano adepti e sulla schiena degli spartiti lasciano la rugiada di queste note balbuzienti ma mai calanti, mai cadenti, sempre, invece, in un volo ascensionale. Ciò che è torpido i due lo disinfettano, dando agli altri due membri un giardino libero in cui lasciar cadere il dovere e cercare un gioco dove l’ipotesi non sia mai una sterile carta assorbente.
Ecco che i My Bloody Valentine e il periodo Shoegaze che andava dal 1991 al 1993 offrono alla band scozzese alcune scie da seguire, con maggior tristezza e cattiveria…
Non vi sono pressioni, tanto meno condizionamenti in questi flussi: musica come finestre aperte nel bel mezzo di un prato senza case, per stabilire un patto che oltrepassi i limiti, per produrre, come obiettivo primario, una serie di brani che siano le parole, i gesti, i passi che girano in tondo nei solchi di un vinile che poi si alza e lascia tutti senza un appiglio. Poesia? No! È decisamente un tentativo di celebrare un nuovo vocabolario comportamentale, nel quale il menefreghismo nei confronti del tempo, dell’arte e di ciò che ha una obbligatorietà possa essere anestetizzato. Note come gocce sotto vetro, voci come assoli muti senza la necessità di un bel canto.
Forse queste strade che invocano una imminente prospettiva emotiva possono anche determinare una sospensione di quella sabbia che nella clessidra conosce solo la gravità. I Mogwai creano una epopea fantascientifica, idranti sulle abitudini di vivere gli ascolti come recinti e di determinare, finalmente, un calvario che sappia mostrare raggi di sole e arcobaleni in un giorno di festa.
Organi, piani, clavicembali, mellotron: sono strumenti che si posizionano con discrezione nei flussi, mai protagonisti bensì gregari di una complessità che brano dopo brano riesce a fare breccia nella comprensione. Ma ve ne sono altri, perché nel clamoroso lavoro di produzione si è deciso di rendere sottili gli innesti, lasciando agli assoli il compito di non essere ridondanti, ma i primi alunni di un timido rispetto nei confronti di un puzzle ordinato e concepito per lasciare le orecchie spiazzate nel ventre di un volo. Non risultano segnali di tensioni, di impacci, di discordanze: vi pare poco?
Sono dei registi di una avanguardia che, quando sarà scevra della volontà di inutili definizioni, saprà indicare nuove strategie. Gli anni 90, in fondo, sono stati per loro una infezione e, in questo nuovo millennio, tutto ciò che è in grado di consentire sobbalzi temporali, tra canguri e gamberi, può stabilire l’efficacia di una piacevole confusione che rende la mente un’edera colorata…
I bassi sono a volte poco a fuoco, le chitarre prendono sovente le sembianze di tastiere stordite, il drumming sembra spesso anticipare: sì, ci sono errori evidenti nell’album, a livello tecnico, non tutto combacia perfettamente ed è proprio questo elemento a farne un disco analogico nel tempo del digitale, lasciando all’imprecisione uno scettro meraviglioso.
Non ci sono sogni nei brani, urla, affanni o esagerazioni: tutto appare come un villaggio in volo senza alcuna intenzione di prendere residenza, un camminare con curiosità per precedere la coscienza.
È giunto il momento di guardare in faccia queste composizioni e dare loro un pugnale foderato di grazia, lenta e sensuale, dove poter baciare questa collina dai petali in corsa…
Song by Song
1 - God Gets You Back
Un synth apre il cielo, suoni come un delirio trattenuto, una lentezza con la sensazione che una velocità sia imminente e contagiosa. Ma è proprio in questo loop che si depositano fili di chitarre con un riverbero trattenuto per tenere la tensione come un interruttore che spiega, sin da subito, cosa verrà illuminato nel proseguo. Quando il drumming decide di presentare il conto alla imbarazzante bellezza primordiale, ci si rende conto di come la band scozzese abbia trovato un petrolio arancione nelle vene delle intuizioni. Ipnosi e delirio…
2 - Hi Chaos
Dicevamo degli errori, del non sincrono e qui ci troviamo di fronte a uno di quei momenti: dove esiste uno spazio rivelato e non nascosto gli dei del cielo allargano i sorrisi. Cosa succede nel secondo brano? Si entra nella pienezza del titolo dell’album che, in Scozia, significa Inferno. Lo incontriamo, quindi, nei suoi terremoti, nelle sue esaltazioni, nelle corsie di temporali e di un caos a cui, come un mantra a cui si vorrebbe dire di no, si affida il piacere, con la parte finale della canzone che insegna come il Post-Rock con i Mogwai sia un esercizio sterile e ripetitivo. Qui si scherza col fuoco che rallenta e picchia, perché è proprio nella lentezza che il dolore trova il suo trono perfetto. Le chitarre finali e il basso riportano gli effetti a fare un bellissimo bagno di umiltà, lasciando la canzone nella sua disarmante perfezione…
3 - What Kind of Mix is This?
L’introduzione (mantra celeste che celebra i Television del secondo album mentre fanno due passi con i Cardiacs) assomiglia a una catena distorta che cerca un vuoto in cui cadere: minimalista sino a quando i piedi rivelano come la pedaliera sia solo un gioco dove creare qualità e non nascondere i limiti tecnici… Ecco, dunque, un sibilo altalenante che si fa abbracciare da bacchette di seta e dalle dita che sulla tastiera di un basso producono tossine meravigliose…
4 - Fanzine Made Of Flesh
I Mogwai sono punk, totalmente punk, punk senza identità, folli senza schemi, pittori in attesa di un niente per dipingerlo. E quando parlano, quando cantano, quando sono voci melodiche su un basso distorto e desertico, allora comprendi come il talento a invitare un ritornello pop a mostrare la sua pelle non sia niente altro che il baricentro di quel furioso genere musicale e culturale…
5 - Pale Vegan Hip Pain
Il minimalismo, la paura che cerca una carezza, una lacrima che non vuole morire, un inverno che teme i raggi primaverili del sole: ecco i protagonisti di questa ballad così vicina alla preghiera, per una brillante condizione termica che pare approdare nei confini di Kurosawa, in una sera in cui il cinema potrebbe essere l’unico ripostiglio dove nascondersi. Nasce lento il brano, procede nello stesso modo ma compie un miracolo pazzesco: quando il grappolo di note della chitarra cerca la discesa ecco che il synth, con mastodontica dolcezza, accompagna questa scia di acqua nei bordi di una tristezza avvincente e avvolgente…
6 - If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others
Provate voi a rilassarvi, in questi sette minuti, nei quali tutto sembra una tesi di un dramma che cerca le ali. Invece: i Mogwai preferiscono la tensione, tolgono le protezioni ai cavi emozionali e li tengono a bagnomaria, qui la suspense è un trucco antico ma sempre in grado di veicolare coscienza e tremore. Un racconto, un viaggio dove gli strumenti vivono l’intensità di bolle trattenute per i capelli…
7 - 18 Volcanoes
L’ignorante si ferma sempre davanti alla precipitazione, alla definizione priva di pazienza. Ecco un esempio perfetto: nei primi secondi una moltitudine stolta potrebbe pensare a un connubio tra i Sonic Youth e i Marlene Kuntz. Ma la band gioca a riprendere la magia del krautrock senza fotocopiarlo, gettandosi nel girone del rispetto nei confronti dei Beatles più ipnotici sino a baciare i Velvet Underground con queste distorsioni pilotate e magnetiche.
Gli ultimi minuti sono un pianto sonoro, che rallenta i battiti sedando la volontà del basso e della batteria di essere artefici di sorprese deflagranti. E invece sì, vi è un crescendo, ma con delle briglie semplicemente perfette…
8 - Hammer Room
E sia l’arcobaleno, la festa del pomeriggio in una vallata affollata di pace e bei sogni. La musica barocca presta il fianco ma poi questo combo si getta sui petali impastati di riflessi e tutto diventa moderno, ancora più effervescente sino a permettere ai rullanti di indirizzare i suoni verso una robotica che pare adatta a creare la giusta pausa in questo album che non smette di confermare e sorprendere. Gli assoli di chitarra sono minimalisti, precisi, senza sbavature di inutili effetti in eccesso, e quando il suono diventa una siringa la festa finisce…
9 - Lion Rumpus
Ancora luce, vento, leggerezza, con gli anni Settanta figli del prog a desiderare un contatto. L’unico brano dove la chitarra solista cerca l’occhio di bue, ma un ascolto attento rivela come la sincronizzazione dello spazio temporale conduca l’impressione a divenire una certezza: il gruppo ha trovato una scusa perfetta per dare a un brano breve una sensazione di eternità…
10 - Fact Boy
Non c’è due senza tre: l’album finisce con una sfilata di luci, di rullate che benedicono la melodia e la struttura di un suono prolungato che cerca l’ascesa celeste. Il rock qui spazia, senza desiderare appigli, lottando con gli stop and go al minimo termine, per lasciare a queste rullate continue il beneficio che la metrica possa essere anche un'impressione distorta. E si conclude in una gittata colorata con la speranza che tutti i momenti grevi ma non gravi di questo gioiello possano generare il ricordo di un periodo che non alimenta la memoria per trovare consapevolezza..
Stuart Braithwaite (Guitar, Vocals)
Barry Burns (Guitar, Piano, Synthesizer, Vocals)
Dominic Aitchison (Bass Guitar)
Martin Bulloch (Drums)
Producer: John Congleton
Label: Rock Action
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Gennaio 2025
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