giovedì 26 settembre 2024

La mia Recensione: PJ Harvey - Dry


 “La verità ha la potenza di un Dio”

Monia Moroni


Dio è donna, spende il tempo ad ammiccare al fuoco, sentenzia, giudica e sfiora la pelle con l’orgasmo mentale, seguito da contorcimenti fisici: si chiama PJ Harvey e di mestiere compie quello, come attività malefica, come scienziata, come una pazza furiosa che fa dell’autoanalisi lo starter per l’analisi di ciò che la circonda. Selvaggia, cruda, indemoniata, giovane, senza millenni a stancarle il respiro, gira nel territorio delle note, l’unico primordiale mezzo attraverso il quale può galvanizzare i diritti, limare e sotterrare i soprusi e spiazzare continuamente ogni opposizione. La ragazza del Dorset è entrata come i fulmini nella mente di un pazzo: a rendere visibile quel vero che nessuno vuole pronunciare, con una fiondata ultraterrena si prende il respiro di chi le si inginocchia di fronte. È caos equilibrato, studiato, mediante la maschera che indossa sul suo corpo biancheggiante, alzando le gonne, scoprendo il piccolo seno, e lo farà per qualche anno ancora, ma dietro tutto questo vi è un intelletto sopraffino, un’arguzia, una sciabola pesante come le verità che abbondano in una corsa che, colma di buio e sangue, affitta, ruba, consuma i sogni e li trita nella fantasia di una realtà incapace di opporsi.

Piccola nella statura, scrive disgrazie grandi come le cascate del cielo, accelera, graffia con una voce che è l’unico miracolo che può sedurre e condannare. Asserisce, strascica, si flette per poter raccogliere i vetri per poi conficcarli in gola. 

Non esiste un esordio per chi ha vissuto sin da piccola la famigliarità con il peccato, con l’ostentazione, con la convulsione, rifiutando la conversione. Dritta, rigida, toglie lo smalto dei vizi e li butta nel mare della sua scrittura. Intuisce che il tempo ha una freccia da gelare, un principio radioattivo pieno di veleno, e che si chiama anni Novanta iniziali, dove tutto vuole essere risorsa, riscoperta e affondo, come un cieco, che cammina per sentire le voci. E la sua arriva, trafigge e fa scappare la comodità di quelle che, alla fine degli anni Ottanta, sapevano di miele scaduto.

Velenosa e pungente, la sua voce nulla è a confronto con i suoi testi, veri diamanti che abbagliano ma che creano gittate repulsive continue. Sfida, vince e insiste, con undici ordigni altalenanti nel ritmo ma che sono spesso chiodi sulla croce della bugia. E la prima consiste nella scelta musicale di addentrarsi nel cuore nero degli Stati Uniti, lei Inglese, spostando ogni aspettativa e vestendosi di lontananza insospettabile, per circondare le nuove espressioni musicali statunitensi, dal folk blues, al grunge, per inabissarsi nell’alt-rock per qualche brevissimo istante, ma essendo sempre appiccicata ai cambi ritmo, alle chitarre urticanti e al cantato che mette alla prova la pazienza, finendo per vincere ancora.

Dry è apparentemente un album che abbisogna di quattro produttori (Head, Vernon, Harvey, Ellis) perché, inevitabilmente, il materiale da gestire era in grado di paralizzare le pareti dello studio di registrazione e la disciplina (altra Dea da lei distrutta alla base) doveva in qualche modo far ragionare la ventitreenne inglese. Ed eccoci in un terremoto che passa dal mare alla terra, al cielo, con ficcanti escursioni che impediscono a chi assiste di sentirsi a proprio agio, regalando danze nevrotiche, grida senza freni e una rincorsa alla lucidità che, ancora una volta, non potrà essere raggiunta.

Storie, tragedie, perversioni, con una sessualità sfrenata che ha ragioni mistiche, volontarie e precise: il corpo, per Polly, è un rosario pulsante, con tappe come un calvario, dove il piacere è uno sbaglio. Usa i nervi, gli odori, la puzza delle contorsioni, gli spasmi, e affronta il precipizio della condanna di una donna che subisce vessazioni e umiliazioni e che ha a disposizione, come unica risorsa, l’ingordigia violenta di una penna che smaschera. Porta la conoscenza a interrogarsi attraverso fiabe nere e rumorose, invitando, respingendo, benedicendo la schiavitù del piacere per sondare la verità del benessere.

Dentro tutto questo incredibile mare collettivo, i suoni sono il radar su cui si vedono avanzare i petali, lo sterco, il tanfo della morte davanti ai dispiaceri che si incollano sulle sue calde labbra.

I ritmi, gli impeti, i fragori, gli assalti laterali e sgradevoli nel suo “album di esordio” sono la vanità di un periodo che non fa i conti con la storia: ci pensa lei, con l’artifizio di una scrittura che pare estratta da libri in cui il medioevo la dice tutta su se stesso. Un periodo fertile, tutt'altro che buio e maledettamente generoso. PJ Harvey parte da lì, dai contrasti e si incammina, palesemente, verso il suo tempo con l'eleganza di una piuma in cerca di uno schianto. Passa raramente nel terreno della dolcezza e quando lo fa si hanno dubbi, come se avesse bisogno di un paravento che nascondesse le sue sollecitazioni. 

Un raro esempio di come un debutto possa scarnificare l’epoca, i costumi, per avanzare nel petto come un innamoramento che conosce sbandamenti e criticità.

Il terzetto esibisce la scorza del limone e proietta il succo negli occhi del cuore con valanghe di suoni striduli, per rendere inaccessibile il favore melodico.

Scostumata, indulgente, vanitosa e insicura, questo Dio con la gonna prende il terzo strumento che ha imparato a suonare, lo imbraccia e butta sequenze di note in rapida ascesa: tocca al drumming allucinato di Robert Ellis trovare il mondo per addomesticare l’impeto, ma fallisce (e direi meno male!) divenendo il prime complice di questa giungla che si sposta verso il mondo. In quanto a Steve Vaughan, nulla da dire: se un bassista deve comandare, far sprofondare il suono nello stomaco e divenire un tornado, lui è l’unico che può riuscirci in questo disco, utilizzando le sue dita come serpenti in cerca di un riflesso.

In una ipotetica stanza dove il senso cerca l’affermazione, Dry crea diversivi, dispetti, scherza e illumina le tenebre dei giochi della mente. Gli abissi toccano la natura, i sogni, i dubbi e, come un fard inutile nei giorni in cui i drammi non coprono le ferite, emergono spostando il baricentro.

Non sono singole canzoni, ma sanno essere un cammino consequenziale che in quaranta minuti creano il trambusto necessario per indagare su quanto questa minuta ragazza abbia il potere di scrivere della vita dalla parte di scatti e controscatti per separarsi da se stessa: un nuovo innegabile miracolo…

Nel 1991 si era in attesa che l’arte delle note procedesse verso l’innovazione, lo smistamento, il setaccio e la separazione da dieci anni in cui la musica bella e quella meno stavano sullo stesso piano.

PJ no.

Lei proprio no.

Crea un nuovo inferno, sbeffeggiante, elettrico ma acustico nell’anima, in quanto semina amore e riconoscenza per millenni di suoni e approcci ma, se si riflette bene, lei abbandona la sua musica per uscire da un corpo che ha un pentagramma sgraziato e febbrile.

Londra è a pochi passi dal poterla contagiare, plasmare e cambiare: niente da fare, lei, ostinata e potente, si tuffa per inondare la capitale inglese con quello che non c’era. Ed è John Peel che sul Melody Maker scrive una recensione memorabile, affermando che oltre a cose piacevoli vi era quel qualcosa che lasciava storditi, sbigottiti. La chiamerà nella sua mitica trasmissione alla BBC e sarà il padrino di una corsa che non si fermerà più. 

Ora: quanto si piange in questo album? Come si possono subire così tante perlustrazioni senza opporsi? Come chiudere la saracinesca davanti a canzoni che sono plotoni di esecuzione?

Ruggine e carta vetro, virus, germi e una totale fascinazione per l’ondulata malinconia con le forbici, per poter tagliare il cordone ombelicale che la legava al silenzio, alla inespressività e a dover giocare a nascondino con il suo ego, che niente è se non una piuma rovente.

Quando si pensa ai concerti, ai festival, ai piccoli locali, lo si fa immaginando l'assembramento di corpi e anime in cerca di qualcosa. Polly arriva e conficca nelle orecchie un nuovo verbo: un’orgia collettiva, grottesca, fatta di ammiccamenti suadenti, provocazioni, con i giochi di luci che non escono dai fari, bensì dalle sue canzoni, e siamo al terzo miracolo…

Pilota, come un navigante senza voce, tra i bagliori di frane: basta ascoltare i primi due singoli estratti e ci si rende conto che il paragone con Patti Smith è sbagliato e non regge. La ragazzina inglese usa il proprio peregrinaggio emotivo e mentale per far esplodere le parole, per lanciarle e resettare tutto. L’autrice americana, con i suoi primi tre album, sapeva stare al centro della ragionevolezza e della qualità ma non ha mai avuto la veemenza di Polly, l’esuberanza, la strafottenza e la capacità di divenire, con sole undici composizioni, una statua movente e assassina.

In questo lavoro possiamo ammirare quanto la produzione dia vita a un ascesso sonoro, una camicia di forza che obbliga Polly a dare tutta la sua spontaneità, raggirandoci, sbeffeggiando il passato e allertando il futuro che dentro di sé vivono folletti, diavoli e spiriti che non obbediscono di certo al galateo del proprio tempo.

Dry è un inganno, un manifesto, un mantra scomodo, che usa le chitarre per esorcizzare e scarnificare la melodia, il basso per tirare sassi pieni di sacchi di iuta e la batteria per far arrivare dal cielo l’applauso di “Dei minori”...


Concludendo: in un ipotetico ritorno di Dante, i gironi dovrebbero trovarne uno nuovo, fare l’aggiornamento e lasciare la meravigliosa Polly da sola con i suoi demoni con il rossetto…


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