venerdì 6 ottobre 2023

La mia Recensione: Magazine - Real Life

 Magazine - Real Life


“You always collect your fists

When my shadow falls upon your hands

You're just giving body heat away

But they say you're a nice enough young man”

Tulsa


I lampi, nel cielo di Manchester, sono un artefizio miracoloso, un malessere che abita migliaia di solitudini, instaurando un malcontento che genera un vistoso senso di soddisfazione: dove c’è luce le genialità escono fuori, come funghi in una giornata settembrina. Nel 1977 il Punk era un lampo opaco, pesante, indigesto, fastidioso, che nulla aveva a che fare con i sintomi introversi della città del cotone. Le classi operaie avevano voci depresse, la scuola viveva di stratagemmi momentanei e, più che al No Future, si pensava al presente.

I Magazine furono il primo vero gruppo Post-Punk, fatto da considerarsi totalmente straniante, visto che proprio la sfera Mancuniana, fu la maggior officina punk di tutta l’Inghilterra. Ma l’Establishment musicale britannico non aveva fatto i conti con Howard Devoto che, dopo la convivenza forzata con i motori punk dei Buzzcocks, non poteva rimanere ancorato a una prassi che non aveva nulla di geniale, costruttivo, che era privo di finestre sotto il cielo cupo di un agglomerato urbano totalmente inclinato verso la depressione. La sua dipartita dalla band di Pete Shelley fu una nascita refrigerante, una fontana di aria fresca in caduta libera all’interno della sua mente spavalda, scaltra, libera e infelice. Il genio vive sempre circondato da esseri normali per potersi rivelare.

Nacque un gruppo che allungava il minutaggio delle canzoni, allargando le possibilità di espressione, inserendo il talento come punto di partenza di un tutto che solo in parte era da riferirsi alla musica.

Real Life: nel titolo tutta la forza di chi vive, di chi del pessimismo non sa che farsene, una impronta rivelatrice di intenzioni descrittive, non fotografie ma radiografie: Howard voleva entrare negli involucri degli aspetti di una città sempre meno succube dello strapotere Londinese. I suoni, nel Punk, sono una gittata di vomito con il vuoto come spettatore, dove l’anima alberga per due/tre minuti per poi morire, senza alcun commiato. Devoto voleva presenziare alla parte più importante della musica iniettando schemi innovativi, fiumi di birra ipnotica, spunti nati dagli sbadigli perché trovava quella suddetta forma musicale noiosa, inutile, effervescente ma alla fine incapace di galvanizzare.

Nove spie, nove ghiacciai spostati nei pressi dell’equatore, nove fiammate (a volte lente, a volte no, ma in ogni brano i cambi ritmo sono una necessità più che una modalità), nove dipinti, nove agglomerati dove gli istinti sono solo un'ipotesi, non un dogma.

Solo gli XTC di White Music (sarà un caso che abbiano lo stesso produttore? Non credo!) sapranno giocare con la spinta di un cadavere come quello che aveva già esalato gli ultimi respiri all’inizio del 1977. Sì, nessun dubbio: saper deridere la più grande forma ingannevole musicale del recente passato è stato il maggior merito di queste cinque anime spavalde, un ensemble coraggioso, testardo e soprattutto menefreghista.

Canzoni come punti di domanda, fasci occidentali in spostamento, limpide osservazioni attraverso testi che, all’improvviso, spostano il baricentro delle argomentazioni, rimpicciolendo l’illusione di un popolo abituato a criticare e a criticarsi. Parole che sorvolavano il disagio della città per sedersi nei pressi di nuovi moti, non istigando o sbeffeggiando, bensì prendendosi cura dei detriti. Solo i The Fall faranno lo stesso e infatti il produttore di questo album lavorerà con Mark E. Smith e soci nel 1985.

John Leckie, che ha collaborato come assistente per John Lennon, Pink Floyd e molti altri, comincia proprio dai Magazine a produrre musica, cambiando il ruolo, il senso, divenendo un vero e proprio termometro degli umori, delle propensioni, compattando il talento e il progetto per poter conferire alle composizioni dignità, senso e resistenza.

Proprio così: a partire da questo album vediamo il Post-Punk affiancato all’Art Rock, per poter, direi finalmente, togliere le catene a questo nuovo genere musicale che avrebbe rischiato una deriva simile a quella del Punk. Ecco, necessariamente, il bisogno di affiancare nuove strutture, un embrione Progressive non nella forma bensì nella sua sostanza. Bisognava sorpassare il confine e lasciare alla musica il timone del comando.

Per fare questo, la band ha rovistato nei tre cilindri, nei tre motori, nei tre terminali espressivi: Devoto, Formula, McGeogh.

Fuoriclasse, anarchici ma con i nervi saldi, titolari di intenzioni che tendevano alla pazienza laddove il Punk preferiva l’esplosione. Ogni singolo brano di questo esordio comporta, da parte dell’ascoltatore, il comprendere i fiumi di questa qualità di cui si era persa traccia. Sono brividi metallici, escoriazioni cutanee, abrasioni mentali che necessitano di fughe e contrattempi, di guai da risolvere, di personalità forti che decidano di ululare invece di gridare.

Musica tossica, schematica, impostata verso la freddezza, dove gli impeti sono governati per non far morire l’attenzione.

Senza alcun dubbio questo è il disco più rilevante, possente, assurdo, efficace per offrire al Post-Punk il biglietto di sola andata per una necessaria lavanda gastrica. Dal rock, al glam, al Kraut Rock, alla musica classica, al funky, tutto entra nel circo clownesco di un’operazione assai urticante ma necessaria. Brani che non curano, e che offrono la temperatura di un'esistenza che in questa specifica arte non trova beneficio, interesse, dilaniando ogni possibilità di arricchire il quotidiano.

La voce sgraziata di Howard è una fortuna, uno stimolo, un termine di paragone per i futuri cantanti: a lui non è mai fregato nulla del giudizio (vero Mark E. Smith? Vero Doctor John Cooper Clarke?), si è invece preso cura di dare alle parole un luogo di residenza, non in cerca di slogan, non volendo convincere nessuno ma con l’intenzione di dialogare con lo psichiatra che abitava dentro di sé: sia gli amici che i suoi nemici erano tutti nel suo cranio…

Cosa colpisce di questo album?

La gestazione, il momento e il luogo dove tutto è stato concepito e dato alla luce; i suoni che non tentavano l’agglomerazione dove i riferimenti furono brevi e poco evidenti, la condotta di gara: nessuna vittoria, nessun pareggio, nessuna sconfitta. Solo la grande determinazione a dare a questo esordio un senso per chi l’aveva concepito. Solo i The Fall faranno lo stesso, once again…

La Manchester che si vede in questo progetto ha chiavi inglesi tra le dita, non ha fucili, non spara sulla ricchezza, conservando, per ogni classe sociale, il diritto all’esistenza, per poter offrire una finestra nuova: non per costruire bensì per non distruggere…

I Roxy Music e David Bowie sono la spina dorsale di ogni idea, che trova poi la modalità per congedarsi da loro, ma è innegabile che la band più performante di questa incredibile città non poteva non volgere uno sguardo verso le due più grandi influenze dei primi cinque anni di un decennio che dopo il Punk poteva solo deperire.

E invece.

E invece Real Life ossigena, rispolvera, scaccia le paure e crea le giuste tensioni: sebbene siano presenti elementi pop, nulla è davvero comodo e un inevitabile fastidio ronza continuamente nelle orecchie degli ascoltatori. Da qui la sua importanza, bellezza, rilevanza, con un destino crudele in arrivo: pochi avrebbero confidato in questo album, quasi nessuno avrebbe voluto divenire famoso. Devoto, come John Foxx degli Ultravox, come poi ,scusate, ancora una volta Mark E. Smith, non poneva l’attenzione sul successo, preso dal costruire nuove forme espressive, con l’impronta della decadenza che viveva i passi della sua mente sicuramente vivace ma al contempo contorta.

Barry Adamson ha rivoluzionato l’approccio al basso.

Dave Formula ha fatto delle tastiere un laboratorio analisi, stravolgendo la storia con il suo approccio pieno di nuove metodiche.

Martin Jackson, con il suo drumming rotante, spigoloso, secco e gonfio di calore, ha schiaffeggiato tutti i batteristi punk.

John McGeogh è l’unico musicista nell’album a suonare tre strumenti e ad apportare accorgimenti, arrangiamenti, supportando la vulcanicità di Devoto.

Howard Devoto è Howard Devoto. Punto.

Il senso di terrore che i Damned praticavano, approdando sulle rive del cabaret, quì visita l’introspezione e l’indifferenza, così come l’arroganza, per un risultato che evidenzia l’unicità del format, delle spezie musicali che rendono il gusto dell’ascolto maggiormente variegato. La pazzia vive in ogni poro di questo disco, in quanto i cinque voltano le spalle alla storia scrivendone una nuova.

Real Life è il dizionario dell’ignoto, dell’incompreso, di ciò che è riluttante a mostrarsi ma che quando si palesa spazza via ogni confronto. Un lavoro operaio scritto da geni e da individui con spiccate forme egoistiche, tenuti a bada da John Leckie, per seminare il futuro di nuove prospettive, soluzioni.

Indagando, spendendo tempo dentro queste articolate fiammate artistiche, ci si imbatte nel volume di ricchezze perfettamente compattate ma, attenzione, che non avevano avuto il tempo per essere collaudate, poiché gettate immediatamente nel mercato musicale.

Morti subite in quanto abbandonate, resuscitate subito attraverso il successivo secondo album, rivisitate, corrette, messe a bagnomaria della loro follia, tutto ciò che si trova nel suo interno è una lucida forma nevrotica non ribelle, uno stetoscopio, un faro, un clic mentale che descrive e dipinge le privazioni, le depravazioni, lo sconvolgimento di una città seduta sui carboni ardenti, in attesa di trasformarsi in un cadavere sorridente…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

6 Ottobre 2023


https://spotify.link/q5f2jNBUFDb





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