mercoledì 12 aprile 2023

La mia Recensione: Counting Crows - August and Everything After…

 

Counting Crows - August and Everything After…


Anche i massi possono volare.

Non vi è dubbio: nella terra dell’assurdo, dell’evoluzione obbligatoria, della stupida Democrazia imperante, c’è spazio per una infinita coda di sogni, esagerazioni, velleità, drammi, storie malate e piene di vita. E c’è una rete che spesso giunge da anime dotate di poesia, di intense passioni, di frustrazioni portate in giro dentro taccuini pieni di stelle e rughe, senza freni ma con molti dubbi. Una di queste è quella di un uomo che canta in una band sudata di verità e sgomento, di grandi orizzonti, della volontà di portare i centri urbani in risalto, come quelli sconosciuti da qualche parte all’interno del grande stato Americano. Un album nasce, si sviluppa con racconti che interrogano il pudore, il dolore, e sbatte la porta in faccia alla presunzione, che fa della conservazione delle radici qualcosa da miscelare a un'anarchia non tollerata da quelle parti. Adam, spina nel fianco dei segreti di ognuno di noi, usa lo scalpello sin a partire dalla sua voce, che è credibile in quanto non attrice ma vera protagonista di ambasce infinite, scolpite nella pelle di quei sogni che mettono vicini persone e storie vere con altre del tutto frutto di obbligate fantasie. Certamente è un vestito fatto di musica, di riferimenti evidenti e potenti, soprattutto perché giunge nell’anno in cui il grunge stava incominciando a mostrare i suoi limiti e quelli di coloro che lo sostenevano. Dove fosse andata l’autenticità se lo chiedevano in molti ed ecco arrivare questo disco d'esordio, una perla rara nata con l’intenzione di divenire famoso come Bob Dylan, di assorbire il bisogno di spolverare le banalità e ricondurre il rock americano nel luogo da cui proveniva. I Counting Crows con questo entusiasmante abbraccio sonoro fanno un salto nel passato, raschiano il barile, spruzzano i petali di un doloroso presente e gettano storie piene di malinconie di fianco all’inutile che sembrava potesse vincere. Ma il buon Adam aveva Maria nel taschino della sua creatività, una donna multitasking in grado di apparire, con diverse identità, in diverse canzoni. Ma sono tanti i personaggi che il giovane autore dà origine: c’è da centrare il senso della storia umana, da commettere un insistente esercizio per solleticare l’insoluto di quel momento. Il 1993 era iniziato malissimo, ma c’era una data, un punto di partenza e non a caso il titolo di questo gioiello fatato si riferisce al mese di nascita dello stesso Adam. Tutto parte da se stesso, per andare a finire migliaia di galassie più in là, dentro le notti di deliri, di giorni svuotati, di grandi panorami con la bocca asciutta, all’interno di esacerbate situazioni dalla pelle umida. La sua voce è un miracolo umano credibile, una scossa di terremoto che scrive patti di non belligeranza, senza però evitare la cruda realtà pulsante nelle sue vagabonde comete mentali. Le sue riflessioni, argute, acute, illuminate e illuminanti, sono il precipizio, lo schianto per chi non ha la sua stessa umanità e profondità. Il vecchio scriba non scrive per nulla una sciocchezza affermando che queste storie sono raccapriccianti e violente perché sono le nostre, nessuno può inventare bugie davanti a questa penna che è uno specchio dell’anima. Come una grattugia senza volontà di sosta, la sua pelle inizia, continua ma non finisce di far emergere l’autenticità da quella polvere che violentemente un sistema complesso di cose ha creato per nascondere la verità. C’è una mano che ascolta, palpa, rileva, trema e avanza nei pressi di un circuito nel quale le forme del pensiero si incontrano, non per una festa, una celebrazione, bensì per fare i conti con la verità, che diventa capace, grazie allo stato di grazia di una musica celestiale, di far volare quel masso di cui si parlava all’inizio. Il violino, la fisarmonica, l’Hammond B-3 non fanno altro che essere i sostenitori, esecutori materiali di una complessità che, partendo da testi unti di difficoltà, hanno il compito di realizzare il disegno, tratteggiare i volti, i luoghi, rendere il tutto in movimento e quindi credibile. Quanto siano complesse le trame, i punti di partenza per questi atti cardiaci sonori, è difficile afferrarlo sino a quando non si è infilato un termometro dentro le proprie emozioni. In quel momento si rivela come un matrimonio spettacolare si celebri lungo queste dodici fanciulle che voi potreste chiamare canzoni. Non è così: qui è una molteplicità che crea oscillazioni, lapilli, vesti strappate, lacrime rattoppate e qualche centimetro di gioia che non deve mancare nel piano sbilanciato di questi accadimenti che l’uomo dai dreadlocks dipinge. Il rock prende una decisione: partire dagli ultimi respiri pieni di vivacità, fatti di chitarre semiacustiche veloci, per trascinare eventuali strumenti elettrici verso la cortesia della forma. C’è la calma di ballads con i coriandoli raggomitolati, il deserto del cuore che chiede aiuto in una storia dalla strada interrotta. La poesia è un optional che quando entra si fa spavalda, dura, spietata, lasciando nel centro del nostro petto un durezza che si finisce per coccolare. E poi quella voce, maledetta, benedetta, incinta, perennemente incinta di un bambino che è il sogno, per un parto che si teme possa accadere… Ci sono ricordi, desideri, petardi nel frastuono di città sorde, e poi Maria, Anna, il Mr. Jones che col tempo è divenuto il peggior incubo della band, perché, evidentemente, il successo di quella canzone li ha fatti salire su un dirigibile con la rotta sbagliata. 

Sicuramente non il momento più alto, il migliore, il più valido ma tant’è: il riconoscimento ha trame oscure e definisce aspetti che sanno diventare una massa falsa e insostenibile. In quanto pare chiaro che si siano trascurate moltissimo le strutture, le prolunghe, le esercitazioni morali di favole in attesa di essere trascinate nella quotidianità di cui questo album è un'enciclopedia senza sosta. Dal blues, al folk, al rock, partendo da un Post-Punk spesso nascosto, planando nell’Irlanda di metà Novecento, i ragazzi hanno usato un goniometro musicale, hanno tastato il terreno delle radici americane con l’intenzione di portarle lontano. Adam sa mettere in risalto  colori sbiaditi, amori finiti ma col respiro nel sogno, sa far volare le migliori intenzioni nel miracolo di un oceano che si dimostra attento. Passa al setaccio la quotidianità di questo album, la visita e soprattutto la controlla, offre disciplina e tanta umanità. Un miracolo queste canzoni, perché conviventi di un periodo fatto di grandi mediocrità: nel tempo in cui gli americani avevano bisogno di un capo del popolo, qualcuno che rappresentasse una generazione, Adam, alto, grosso, imponente,  parlava invece il linguaggio che usa dimensioni minute, parole semplici, in una grammatica dal cuore onesto. Si piange, si riflette, ci si sente disturbati da questa concreta capacità di non desiderare la condivisione, bensì il ristoro dell’anima attraverso la solitudine. Come se fosse divenuto anziano all’improvviso, l’album vira verso i ricordi, negando al presente la possibilità di essergli degno, non c’è gara e Adam affossa ogni paragone: il passato è l’unica certezza, dove la luce sarà sempre accesa…

Quando Van Morrison, Neil Young, lo stesso Bob Dylan sembrano incerti, non capendo certe connessioni e alcune annessioni, August and Everything After sembra poter affondare, perdere il suo baricentro. E invece…

Capita, come lo scoppio di un improvviso petardo, che i ragazzi siano più maturi di quello che certi padri putativi possano pensare: basta ascoltare Anna Begins e tutto si sbriciola innanzi a cotanta dimostrazione di un significante che spezza le preoccupazioni.

Non sarà l’ultima volta che ciò che pare frutto di una fortuna, di un delirio non cosciente riveli invece una bravura fuori dall’ordinario, non ci vuole poi molto per capire che non è solo la conseguenza di un talento straordinario o di una buona progettualità. Senza dimenticare la presenza nel disco di due coristi eccezionali e di un produttore, che, sia chiaro, ha fatto la Storia del suono americano degli anni Settanta. E dobbiamo tenere in considerazione un elemento mai davvero valutato a fondo: i Counting Crows sono stato l’unico vero, sincero gruppo del Paese di Bob Dylan di quella decade. 

Si accennava al Blues: non è forse pregno sino all’inverosimile il pallottoliere dei personaggi di Adam, che sembrano provenire da una adunata folta di anime ferite ma desiderose di riscatto? È lì che nasce la sua voce, orecchio che restituisce, con sensibilità e rispetto, storie ascoltate e poi modificate. Una lunga corsa dentro la periferia del pensiero, del comportamento, adottando quel famoso Hammond B-3 in grado di allungare le note come le storie: un trucco antico dalla pelle lucida e quindi nuova, moderna. Gli assoli sono limitati, non utili, perché ve n’è uno lungo tutte e undici le canzoni: il suono della presenza, del vero che sale di registro per separarsi dalla mediocrità. Quando i brani diventano più veloci si ha l'impressione che l’Irlanda, la cui comunità è davvero folta negli Stati Uniti, abbia trovato nella scrittura di queste perle sonore una pinta di Guinness da rovesciare su quelle parole, su quelle onde melodiche così magnetiche.

Anche il dolore conosce un giorno di festa…


https://open.spotify.com/album/1dBjJZRfh3ZwZEyVwaTbV0?si=HMH7ErSaTbCXXA5KsdrOow


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

12 Aprile 2023







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