sabato 16 luglio 2022

La mia Recensione: Slowdive - Souvlaki

 La mia Recensione:


Slowdive - Souvlaki


Nella complessità dei bisogni occorre esplorare e lasciarsi tutto alle spalle: la valigia è nella mente, nelle direzioni da prendere e nella volontà di raggiungere l’indefinito, lo sconosciuto.

Deve aver fatto così la Shoegaze band dal suono più sexy, quegli Slowdive che con Eps e l’album di esordio avevano eccitato migliaia di anime in sogni e condotto verso pulsioni vicine all’estasi.

Just For A Day ha cambiato il cielo musicale, segnato la necessità per molti di rovistare dentro i suoi gioielli e di godere di una boccata di ossigeno composto da atomi di musica dalla pelle di velluto alla ennesima potenza.

Poi la band ha fatto quella valigia di cui parlavo e ha scritto un nuovo capitolo dello stupore. 

Perché è sorprendendosi che si mette la distanza con ciò che si è fatto in passato, che costituisce spesso proprio il limite mentale per sondare nuovi terreni.

Gli scrittori di fiabe soniche di Reading hanno imparato a dipingere le nuvole danzando, sorridendo, corrompendo la tristezza verso la più determinante malinconia col freno a mano tirato. Ed è così che Souvlaki ha trovato il modo di conferire alla band freschezza e maggior luminosità al talento, che, vorrei ricordare e specificare, non è dato dalla bellezza delle composizioni, bensì dall’agilità con la quale si individuano necessità e modalità per creare canzoni che siano l’unica espressione di tutto questo. I cinque hanno per molti perso il coraggio di sperimentare, mentre a mio avviso, se questo è il pensiero più importante (non per me, sia chiaro), l’hanno fatto proprio perché si sono confezionati abiti nuovi, nell’approccio e nella resa.

È un album che rappresenta momenti difficili, specialmente per Neil, che è riuscito a penetrare la sua anima donando alle sue mani strutture che si scambiano affetto tra il paradiso e il pianeta Terra.

Un lavoro pieno di colori, di atmosfere ampie, che si muovono agilmente, che rendono il tutto un covo di sorprese e ammirevoli intuizioni: dilatata la forma compositiva, il suono diventa più importante e conferisce alle canzoni un abito morbido ma al contempo solido.

Sembra di entrare dentro una favola, una lettura che diventa un film per i nostri occhi a causa di una sensazione che ci stringe tutti nella poesia di architetture sonore sempre agili e intime. Non è solo rarefazione del suono ma anche dei propri battiti, dei respiri che cercano ingressi. È lasciare questo suolo ormai sporco e impolverato per elevare lo sguardo dentro le correnti del cielo: Souvlaki diventa proprio questo, l’insieme di vocalizzi paradisiaci con movenze sensoriali che paralizzano e guidano verso l’estasi che mette la giusta distanza tra la noia e le tribolazioni dell’esistenza. Crea una parentesi, una chance di coniugarsi ad un estremo limpido, che sembrava irraggiungibile. Le chitarre si rivelano in grado di piegare le onde sonore sublimali, spostando il tutto verso un suono che ci incolla all’ascolto, nutre la parte psichedelica trasformandola in sentieri pulsanti di  Shoegaze e Alternative, per equilibrare l’ordine della bellezza verso l’esplosione.

La scrittura è spigliata, pop, romantica, spoglia l’idea e il concetto dello Shoegaze per portarlo sulle rive del fiume melodico che contempla nuove connessioni, distribuendo in questo modo nuovi incantesimi e irrorando il serbatoio di questo genere di nuove vibranti possibilità.

Tutto sembra essere stato concepito nella stanza iperbarica dove si incontrano l’attività ludica e quella onirica, per creare la difesa del proprio processo creativo. Ecco allora chitarre acustiche, stop and go inediti, nuovi assemblaggi sonori che entrano nel cuore per leggerezza e luce.

Lo definisco un album che integra e crea distanza nella prima parte della  loro carriera, un robusto tentativo (riuscito) di separare un suono multiplo e capace di essere stimolante e rilevante e fondamentale per molte nuove band, per renderlo goccia e piuma e iniziare un nuovo volo, che sconfina e ci lascia indietro, a bocca aperta. Non è facile intuire e peggio ancora impossessarsi di tutta la sua bellezza senza avere calma e metodo nello studiarlo, perché ci troviamo innanzi a esercizi nuovi di stile e i magneti che vengono sganciati dal loro passato vanno amati, senza paura.

Vi è una notevole spinta identitaria, un discostarsi, un procedere verso un impatto emozionale che cresce, di brano in brano, con la clessidra che sorride felice, perché testimone di un percorso che certifica idee chiare, pilotate non solo dal talento ma soprattutto da un lavoro strutturale che è in ogni caso avanguardia dello Shoegaze.

Un ascolto davvero efficace non solo rivela il contenuto dell’album ma ci mette nella condizione di vedere i nostri pensieri stratificati, amplificati per andare a far emergere i nostri bisogni di afflati continui, verso ciò che libera tutte le tossine dentro il vuoto. Una volta accaduto tutto questo Souvlaki diventerà un amico generoso e prezioso.

E allora nuotare nelle acque placide e pulite di questi brani sarà non un passatempo gradevole, ma un prezioso alleato per il nostro bilanciamento psico-fisico.

Come un bouquet di fine millennio Souvlaki è in grado di portare i profumi di un tempo che seppur affaticato ancora sa inebriare: non tutto è da buttare dell’ultimo decennio del ‘900 e questo album propone pennellate chirurgiche di diamanti in forma perenne, senza usura. Linee di basso come martellate di gomma per non ferire, chitarre umbratili, massicce senza strabordare e argentee e inquiete.

Si vive l’introspezione galante di un flusso di energia che convoglia verso latitudini estreme. Con il suo fare viscerale, questo gruppo di candele dalla fiamma tenue riesce a rendere possibile un ascolto che risulta essere portatore sano di brina e arcobaleni tenuti per un filo: solo l’ignoranza potrebbe lasciarsele scappare.

E allora sia spazio al fluttuante peregrinare di atomi connessi all’abbondanza candida e proibita di linee melodiche, quasi nostalgiche, una modalità che da parte di ragazzi così giovani parrebbe illogica. Ma in loro vi è una maturità consapevole: sono eletti dallo stato di grazia e dagli Dèi. Le loro distorsioni oniriche sono le ancelle del matrimonio tra la perfezione e l’incanto, in mezzo ad acrobazie senza sosta.

E quando le note sembrano tristi ecco che scopriamo la loro stessa felicità: è tutto situato in dinamiche che sospendono i sentimenti per renderli sottili e volatili. Sembrano capaci di far sbiadire la maniera tipica di quegli anni che tendeva a fare dello Shoegaze un cliché. Loro vanno oltre. 

Un album prezioso, pensato con amore per l’amore, che è una supernova non solo nel cielo di Reading, in quanto da questo lavoro molte suggestioni diventano ispirazioni, aspirazioni per nuove band volte avere lo stesso modo di controllare l’evoluzione e la specificazione di un percorso artistico, con la forza di una fragilità che diventa una piuma dentro le nostre paure.

Nella delicatezza di questo avvento musicale si approda alla sensazione, lucida, di essere travolti da sogni e realtà che sono riusciti a localizzarsi in quelle note, appiccicandosi al bisogno della band di convolare a nozze con questa fila di battiti dalla faccia blu. 

Ma se tutto questo non vi convince, perché troppo legati al loro esordio, siate onesti e curiosi nell’ascoltare la voce di Rachel: colei che ha creato un modo nuovo di cantare supera se stessa e rende ancora più piccola la sua presenza, ma ancora più lucente è il significato, la capacità di un canto che bacia la fragilità, la spossatezza, la paura e diventa un battito di ciglio con il riverbero nel cuore. Una ragazza che sa essere potente senza vocalizzi, che riesce a farti sognare e sentire tutta la leggerezza del mondo anche dentro momenti di difficoltà, perché capace di fare del suo strumento l’accordo con l’infinito dell’universo. E le nuove composizioni, più intime e dilatate, vengono compattate perfettamente da questa sua inclinazione a essere la ragazza che canta con la voce accennata, quasi nascondendola, per non disturbare. Con Neil l’amalgama è cresciuto e i giochi di alternanza e di condivisione delle parti cantate raggiunge il trono della perfezione, indiscutibilmente. Non è necessario dare alla potenza del disco canti esagerati perché Souvlaki vive dentro le corde del cuore e irradiando la mente con facilità, planando sulle chitarre magiche che diventeranno l’aeroporto da cui separarsi da tutte le altre band per un volo unico. Souvlaki è uscito quando la fiamma del grunge si spegneva e quindi ha fatto provare alla gente la necessità dell’ascolto per non dimenticare Seattle e dintorni. Il Britpop veniva fuori come una sana catastrofe illusoria e mediamente tutto ciò che era straordinariamente unico nel disco dei ragazzi di Reading non è stato approcciato nella giusta maniera. Rivoluzionario (molti lo avrebbero capito in colpevole ritardo), le chitarre arrivano all’Ambient, con i pedali abili nel creare tappeti di magie nuove e innovative, mostrando chilometri e chilometri di versatilità, ancora oggi capaci di rimanere estremamente validi. Hanno saputo ingannare la pressione del secondo album che doveva per molti ripetere lo stupore generato dal primo (la presenza auto-imposta da Brian Eno venne ridotta al minimo, segno di un carattere immenso e sicuro), scrivendo canzoni come bombole di ossigeno dei propri scrigni, nuove stelle elette dal cielo per l’eternità, facendo alla fine di tutto questo secondo atto di bellezza il più amato dalla stragrande maggioranza delle persone che adorano questi ragazzi impenetrabili. I motivi sono dentro il mistero che tre decenni non hanno ancora avuto modo di spiegare. E quando non sai spiegare un mistero, l’attrazione, la devozione diventano il connubio per la vita eterna.

In tutto questo quello che seguirà non sarà una vera descrizione di ogni loro canzone, ma un atto d’amore con le braccia aperte, perché questi sussurri celestiali li puoi abbracciare, imparare a memoria, suonarli, ma sarai sempre tenuto lontano dal capirne la ricchezza ed è questa l’attrazione a cui non si può sfuggire…


Song by Song


Alison



E’ pop da tradizione 60’s, in un vestito morbido, capace di portare lo sguardo dentro la voce da gatto sornione di Neil. Nel ritornello l’efficace apporto di Rachel lancia il brano verso l’incontro tra i Byrds psichedelici e le nubi di Reading.


Machine Gun


Rarefazione pura: l’esordio qui torna nella sua evidenza, un episodio unico che rivela come il DNA non lo si possa dimenticare, fosse anche solo per un attimo. Commovente, vibra dentro chitarre piene di zolfo e sole, nel pomeriggio bisognoso di magia, mentre Rachel ci rapisce per sempre con la sua ugola color incanto.



40 Days


Ed ecco un nuovo esempio di questa evoluzione: frammenti pop, una predisposizione alla strofa nella quale cullare la melodia come semina in attesa, per poi creare la parte strumentale come vera attrazione verso il pieno abbandono dei sensi.



Sing


Composizione che rileva la sperimentazione necessaria per approcciarsi a nuovi lidi, vede la presenza di Brian Eno che probabilmente avrà captato segnali di vita su Marte. Si gravita dentro lo stupore di una ipnosi inaspettata, un navigare sul drumming reso etereo e quasi distante, con la voce di Rachel che si rivela un sorriso di quel pianeta, con la parte elettronica che avanza tra psichedelia e new age. 



Here She Comes


Bussa alle tastiere angeliche di Brian questo brano, con le slide guitars ingravidate di sottili bagliori, liquidi, immersi di malinconia, per un viaggio dentro la sottile linea della favola intravista.



Souvlaki Space Station


Con un inizio che ricorda i poderosi riff dei Héroes Del Silencio, il brano viaggia presto dentro la bolla di polvere e dolcezza miscelate perfettamente, per rendere questa lunga dimostrazione di classe il basamento per la voce irraggiungibile di Rachel, Dèa del cuore, madre di sogni fatti di baci. Un mare di chitarre come onde divine per consentire pause e nuovi avvii sempre in grado di mantenere la tensione della gioia a livelli incredibili.



When the Sun Hits


Gli Dèi tornano per decidere che una canzone può essere il loro respiro, tra le corsie melanconiche di descrizioni che sono dipinti dalla faccia trasparente. Estasi, calamita di ogni sogno divenuto reale, un globo pulsante di magnificenza benedetta, questo è il punto da cui si separano le idee e le impressioni per compattarsi, insieme a pennellate e riff potenti, verso il giardino del piacere assoluto. E il luogo in cui vivere gli impeti di un sole bisognoso di affetto: gli Slowdive gliene regalano in incredibile quantità con la canzone perfetta.



Altogether


Le acque rallentano, i sensi si tolgono la brina dalla pelle e giocano nella decadente ma al contempo dolcissima ballata che vede i ragazzi legittimare la notevole forza d’impatto di un crescendo che non necessita di esplodere per contaminare i nostri piaceri all’ascolto: rimane una carezza dolce di duecentoventi secondi, essenziale per poter condividere le loro delicate propulsioni.



Melon Yellow


Neil veste la sua voce di sale e miele, la musica, sottile e delicata, come una saetta addormentata, riesce a sentire l’urgenza di visitare i brividi sussurrando la sua presenza, stregando l’atmosfera con magnifica efficacia.



Dagger


Prima idea di quello che diventerà il progetto Mojave 3, dando spazio al bisogno di rendere acustico il movimento delle nuvole, il brano è un respiro di luce, tra le voci che si coniugano al bisogno di affondare i sogni dentro polmoni accoglienti.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

16 Luglio 2022


https://open.spotify.com/album/53eHm1f3sFiSzWMaKOl98Z?si=G6X80XcTT4WeyxgnPlbdbg







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